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"L'obbligo di adeguamento degli statuti delle società a controllo pubblico previsto dal Testo Unico delle Società Partecipate"
di Sara Sileoni e Leonardo Archimi 12 gennaio 2017
Materia: società / partecipazione pubblica

L’obbligo di adeguamento degli statuti delle società a controllo pubblico previsto dal Testo Unico delle Società Partecipate

 

Il decreto legge Milleproroghe  30 dicembre 2016, n. 244, pubblicato in Gazzetta Ufficiale - Serie Generale n. 304 del 30-12-2016, non ha posticipato i termini previsti dal T.U.S.P.

In particolare, il differimento della data del 31 dicembre 2016, fissata dal comma 1 dell’art. 26 del D.lgs. n. 175 del 19/08/2016 per l’adeguamento degli statuti delle società a controllo pubblico, prima vociferato e poi menzionato nella bozza del decreto, non compare nel testo definitivamente adottato dal Consiglio dei Ministri.

Ad oggi, dunque, è scaduto il termine per l’approvazione delle modifiche statutarie conseguenti al decreto Madia sulle partecipate.

In proposito pare opportuno operare due ordini di riflessioni.

Anzitutto, il termine suddetto sembra essere ordinatorio e, comunque, il T.U.S.P. non prevede sanzioni per la mancata osservanza. Contrariamente ad altri obblighi - quali quelli previsti in relazione alla redazione del piano di razionalizzazione periodica, il cui inadempimento comporta l’irrogazione della sanzione amministrativa del pagamento di una somma da un minimo di euro 5.000 a un massimo di euro 500.000, salvo il danno eventualmente rilevato in sede di giudizio amministrativo contabile, o quello dell’espletamento di procedure concorsuali per l’assunzione del personale, la cui inosservanza comporta la nullità dei contratti di lavoro così stipulati - al mancato adeguamento dello statuto nel termine previsto non viene direttamente ricollegata alcuna conseguenza pregiudizievole. Resta, tuttavia, da vedersi se il mancato adeguamento è suscettibile di comportare la causazione di un danno, anche sotto il profilo erariale; ma tale evenienza dovrà valutarsi caso per caso, sulla scorta dell’analisi delle singole fattispecie concrete, e dunque non è questa la sede per soffermarsi in merito.

Pare opportuno, invece, riflettere su un peculiare elemento dell’adeguamento statutario, ossia la previsione relativa all’organo amministrativo delle società a controllo pubblico.

L’art. 11, comma 2 del D. Lgs. 175/2016 stabilisce che: “L'organo amministrativo delle società a controllo pubblico e' costituito, di norma, da un amministratore unico”.

Il successivo comma 3 stabilisce che: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e finanze, di concerto con il Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, adottato entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono definiti i criteri in base ai quali, per specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa, l'assemblea della società a controllo pubblico può disporre che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri, ovvero ........ “.

Il tenore testuale delle disposizioni citate fa emergere che quella contenuta al comma 2 non è auto-applicativa perché necessita del decreto attuativo, in carenza del quale tutte le società in controllo pubblico, nessuna esclusa, dovrebbero essere gestite attraverso un organo amministrativo monocratico, sia la società che a stento supera 1 milione di euro di fatturato, soglia minima per non rientrare nella categoria di quelle che debbono essere dismesse (art. 20, comma 2, lett. d del Decreto), fino alle multiutilities delle grandi città metropolitane che possono conseguire fatturati di centinaia di milioni di euro.

E’ ovvio che questo non fosse lo scopo del legislatore, come dimostra la circostanza che egli ha previsto espressamente l’inciso “di norma”, a dimostrazione che l’obbligo di gestire la società attraverso un organo monocratico non è assoluto, ma presuppone il concretizzarsi di ipotesi che esulino da quelle che saranno delineate dal decreto ministeriale. Alla norma di secondo livello è, infatti, demandata la determinazione dei criteri in base ai quali l’assemblea di una società pubblica può stabilire la natura e la composizione dell’organo amministrativo, prescegliendo anche la forma collegiale.

In sostanza ad avviso degli scriventi la previsione del T.U.S.P. relativa alla forma dell’organo collegiale non è immediatamente precettiva ed efficace, ma potrà trovare applicazione solo una volta che sia stato adottato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’art. 11, comma 3, del T.U..

Ciò posto, l’adeguamento dello statuto può, comunque, essere perfezionato, tenendo conto e dando atto di quanto illustrato, ossia precisando che la nuova clausola relativa alla nomina dell’organo amministrativo sarà operativa soltanto a seguito dell’entrata in vigore dell’atto ministeriale.

A titolo esemplificativo potrebbe essere così previsto nello statuto:

“La società è amministrata da un amministratore unico o, nei casi consentiti dal D.P.C.M. emanato ai sensi dell’art. 11 comma 3 del D.lgs. n. 175/2016, da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri. Sino all’adozione del citato D.P.C.M. resta ferma l’attuale forma dell’organo amministrativo e, dunque, la società è amministrata da … [ripetere previsione attuale]”.

Da ultimo segnaliamo che in sede di Assemblea per l’approvazione della modifica dello statuto  così da adeguarlo al T.U.S.P. appare comunque opportuna l’espressa conferma del consiglio di amministrazione in carica, atteso che la modifica della clausola statutaria relativa all’organo amministrativo viene intesa dalla giurisprudenza come revoca implicita degli amministratori. Si citano, a titolo esemplificativo e tra le più recenti, le seguenti pronunce:

 

Cassazione civile, sez. I, 19/11/2008, (ud. 10/10/2008, dep.19/11/2008),  n. 27512:

La Corte di Appello di Napoli ha poi in proposito rilevato, specificamente richiamando precedente decisione di questa Corte emessa in caso analogo a quello in esame (C. 02/6526), che la revoca non deve essere necessariamente formalizzata con una esplicita manifestazione di volontà, ma può viceversa avvenire anche in modo implicito (rilievo peraltro condiviso in linea di principio dalla stessa ricorrente), e segnatamente con delibera di riduzione dei membri del consiglio di amministrazione, come verificatosi nella specie.

In tal modo detta delibera finisce infatti per determinare una doppia caducazione vale a dire, innanzitutto, della precedente delibera (o comunque della precedente nomina, se effettuata con l'atto costitutivo) con la quale era stato previsto un più ampio numero di consiglieri, ed inoltre degli amministratori in esubero rispetto al numero originariamente stabilito, essendo la loro permanenza in carica incompatibile con il contenuto delle nuove decisioni assembleari.

 

Cassazione civile, sez. I, 18/09/2013,  n. 21342

Invero, questa Corte si è occupata più volte di fattispecie nelle quali la cessazione di un componente del consiglio di amministrazione discendeva da una modificazione dell'organo amministrativo (v.  Cass. 7 maggio 2002, n. 6526 con riferimento al passaggio da un organo monocratico ad un organo collegiale; Cass. 12 settembre 2008, n. 23557, con riferimento al passaggio da un organo collegiale ad un organo monocratico; Cass. 19 novembre 2008, n. 27512, con riferimento ad una riduzione del numero dei componenti del consiglio di amministrazione) ed ha affermato, da un lato, che in tali ipotesi, indipendentemente da una esplicita manifestazione di volontà, ricorre una revoca implicita degli amministratori incompatibili con il nuovo assetto della società e che, d'altro canto, la giusta causa, tanto soggettiva che oggettiva, non può essere integrata dal nuovo assetto organizzativo, ma richiede la sopravvenienza di circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto; in particolare, la giusta causa oggettiva richiede la sopravvenienza di situazioni estranee alla persona dell'amministratore, quindi non integranti un suo inadempimento, ma tali da elidere l'affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e capacità dell'amministratore. A tale orientamento deve essere data continuità considerato che le scelte dell'assemblea sulla governance societaria da un lato sono insindacabili e, d'altro canto, non sono di per sè collegabili ad una rottura del pactum fiduciae.”

Conforme indirizzo ha espresso il Comitato interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, con l’orientamento societario H.C.14:

H.C.14 - (CESSAZIONE DEGLI AMMINISTRATORI IN SEGUITO ALL’ADOZIONE DI CLAUSOLE STATUTARIE INCOMPATIBILI CON LA COMPOSIZIONE DELL’ORGANO AMMINISTRATIVO IN CARICA - 1° pubbl. 9/07)

Qualora vengano adottate modifiche statutarie relative alla composizione dell’organo amministrativo incompatibili con le previsioni preesistenti (ad es.: riduzione del numero dei componenti il consiglio di amministrazione), deve ritenersi che l'organo amministrativo in carica cessi automaticamente con l’iscrizione della delibera di modifica nel registro delle imprese.

In sede di adozione di tali delibere si dovrà pertanto necessariamente procedere alla nomina del nuovo organo amministrativo nel rispetto della modificata disciplina statutaria.

 

 

di Sara Sileoni e Leonardo Archimi (l.archimi@consulex.biz) - Studio Legale Consulex

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