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Riflessioni sulla disciplina degli amministratori delle società a partecipazione pubblica: compensi e cause di ineleggibilità.
di Roberto Camporesi 31 gennaio 2017
Materia: società / partecipazione pubblica

Riflessioni sulla disciplina degli amministratori delle società a partecipazione pubblica: compensi e cause di ineleggibilità.

 

Di Roberto Camporesi – partner Studio Boldrini Rimini

 

In attesa delle annunciate modifiche del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica emergono alcune riflessioni sulla disciplina degli amministratori così come portata dall’art. 11 del TUSP.

In particolare ci si riferisce al quadro di riferimento per definire obblighi e doveri ma anche responsabilità e relazione che intercorrono con gli altri organi o con i soci che li nominano.

E’ dato assodato che il TUSP si occupa, per quanto attiene alle c.d. regole di corporate governance, alle società a controllo pubblico per le quali le definizioni contenute nell’art. 2 lett. b) dispongono che  per controllo debba intendersi: “la  situazione descritta nell'articolo 2359 del codice civile.  Il  controllo  può  sussistere  anche  quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti  parasociali, per  le  decisioni  finanziarie  e  gestionali  strategiche  relative all'attivita' sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo”. Per una approfondita disamina della nozione di società a controllo pubblico si rinvia a AA.VV “Le società Pubbliche” a cura Fimmanò e Catricalà – Università Mercatorum – Gipeto editore 2017.

L’aspetto decisivo per affrontare l’argomento è quello della portata interpretativa del TUSP in relazione all’ordinamento civile e a quello pubblico.

Risulta confermato quanto disposto dall’art. 4 comma 13 del D.L. 95/2011 in quanto all’art. 1 comma 3 risulta: “Per tutto quanto non derogato dalle  disposizioni  del  presente decreto, si applicano alle  società  a  partecipazione  pubblica  le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme  generali di diritto privato..”

Quindi per quanto non disposto dal TUSP valgono le disposizioni del codice civile o del diritto comune ed in tema di amministratori di società con soci pubblici, l’art. 2449 secondo comma, codice civile, dispone “Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall'assemblea.”

L’approccio interpretativo che emerge con il testo unico, non solo non appare una novità ma conferma l’orientamento consolidato fin dalla l’emanazione del codice civile vale a dire: le società partecipate da enti pubblici da un lato non sono società di diritto speciale, in quanto ricondotte all’alveo del codice civile e dall’altro lato la presenza del socio pubblico non determina una involuzione verso la loro qualifica di ente pubblico.

Principi confermati anche dalla ordinanza della Cassazione a sezioni unite del 1/12/2016 n. 24591 che affronta in modo diretto sia i canoni interpretativi per classificare le società pubbliche che il rapporto di natura privatistico che regola il rapporto fra il socio pubblico e l’amministratore da esso nominato.

La Corte, per risolvere una questione processuale relativa il riparto di giurisdizione, richiamando suoi precedenti, rimanda al giudice ordinario per gli atti di nomina e revoca di amministratori di società pubbliche basandosi sulla riconduzione delle società a partecipazione pubblica alla disciplina privatistica contenuta nel Codice civile, in ragione della previsione di cui all’articolo 4 del d.l. 95/2012 (oggi riproposta all’art. 1, comma terzo, del d.lgs. 175/2016). Alle società a partecipazione pubblica si applica dunque la disciplina di diritto comune, ove non diversamente previsto da disposizioni speciali (e oggi dal Testo unico di cui al d.lgs. 175/2016). “Da tale indicazione normativa deriva, secondo l’impostazione della Corte, un chiaro inquadramento in senso privatistico delle società a partecipazione pubblica: il rapporto tra soci (anche di controllo) e società assume dunque i connotati propri delle società di diritto comune. Tra tali connotati vi sono l’autonomia soggettiva e gestionale dell’ente rispetto ai suoi soci (specie in caso di società per azioni), nonché la derivazione dei poteri speciali esercitabili dal socio pubblico dagli strumenti propri del diritto societario (statuto sociale e art. 2449 c.c.) e non dal diritto pubblico.” (cfr Eupolis Lombardia – Osservatorio sulle Società a Partecipazione Pubblica).

La Corte trova ulteriore conferma dell’impostazione di cui sopra in altri elementi: (i) la Relazione al Codice civile del 1942, in cui si evidenziava l’«assoggettamento» degli enti pubblici alla disciplina delle società per azioni in caso di partecipazioni di proprietà pubblica; (ii) l’art. 2449 del Codice civile, il quale, pur attribuendo un potere speciale all’azionista pubblico, subordina tale potere alla sua affermazione esplicita nello statuto sociale e afferma i principi di irrilevanza della natura pubblica degli azionisti, di parità di status tra gli amministratori e di perfetta autonomia della società; (iii) la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentt. 23 ottobre 2007, causa C-112/05, Commissione c. Germania e 6 dicembre 2007, cause C-463/04 e C-464/04, Federconsumatori), secondo cui le disposizioni che comportano disparità di trattamento tra gli azionisti confliggono con i Trattati; (iv) la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana (sentt. 5 febbraio 1992, n. 35 e 16 giugno 2006, n. 233), secondo cui le regole su nomina e revoca di amministratori e sindaci sono da ricondurre al diritto privato, con esclusione dei principi di cui all’art. 97 Cost. in ragione dell’intuitus personae sotteso alle nomine; (v) le nuove previsioni di cui al d.lgs. 175/2016 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), che, come già ricordato sopra, hanno riaffermato il principio dell’applicabilità in via residuale delle norme di diritto privato alle società a partecipazione pubblica, oltre ad introdurre alcune regole volte a connotare in senso privatistico la disciplina delle stesse (in particolare, fallibilità delle società, anche se titolari di affidamenti in house, e affermazione generale dell’azione civile di responsabilità sociale nei confronti degli amministratori) (cfr Eupolis Lombardia – Osservatorio sulle Società a Partecipazione Pubblica).

In questo contesto l’art. 11 del TUSP è norma articolata, in quanto contiene numerosi rinvii alla decretazione ministeriale, disposizioni di natura transitoria (comma 7), disposizioni precettive con obbligo di inserimento nello statuto (comma 9), disposizioni di “moral suasion” (ultimo comma).

Dubbi interpretativi sono sorti proprio in materia di governance. I più significativi sono riferiti a prese di posizione della prassi che non ha tenuto conto del canone interpretativo come sopra illustrata alla luce anche dell’ultima sentenza della Cassazione citata.

In primo luogo ci si riferisce al regime transitorio per la disciplina dei limiti massimi dei compensi degli amministratori.

La disciplina del compenso degli amministratori si articola su quattro momenti temporali succedutesi nel tempo.

-          La prima fase: caratterizzata dall’art. 1 comma 725 della legge finanziaria 2007 (L. 296/2006).

Si citano al riguardo, per le società interamente pubbliche, i commi 725:

725. Nelle società a totale partecipazione di comuni o province, il compenso lordo annuale, onnicomprensivo, attribuito al presidente e ai componenti del consiglio di amministrazione, non può essere superiore per il presidente al 70 per cento e per i componenti al 60 per cento delle indennità spettanti, rispettivamente, al sindaco e al presidente della provincia ai sensi dell’articolo 82 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. Resta ferma la possibilità di prevedere indennità di risultato solo nel caso di produzione di utili e in misura comunque non superiore al doppio del compenso onnicomprensivo di cui al primo periodo. Le disposizioni del presente comma si applicano anche alle società controllate, ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile, dalle società indicate nel primo periodo del presente comma. (comma così modificato dall'art. 61, comma 12, legge n. 133 del 2008)”;

            - La seconda fase: caratterizzata dall’art. 16 comma 1 del D.L. 90/2014 che ha modificato l’art. 4 comma 4 e 5 del D.L. 90/2015 e legge 90/2015. La seconda fase che fissa un taglio c.d. lineare, previsto dall’art. 16 del D.L. 24 giugno 2014, n. 90 convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 114 e prevede per le società a totale partecipazione pubblica, diretta e indiretta, che: ”A decorrere dal 1° gennaio 2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori di tali società, ivi compresa la remunerazione di quelli investiti di particolari cariche, non può superare l'80 per cento del costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013. In virtù del principio di omnicomprensività della retribuzione, qualora siano nominati dipendenti dell'amministrazione titolare della partecipazione, o della società controllante in caso di partecipazione indiretta o del titolare di poteri di indirizzo e di vigilanza, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al precedente periodo, essi hanno l'obbligo di riversare i relativi compensi all'amministrazione o alla società di appartenenza e, ove riassegnabili, in base alle vigenti disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio”.

Le due disposizioni sopra citate, sebbene emanate in periodi temporali successivi, sono legate da un nesso strutturale fra loro che viene rappresentato come un rapporto di specie a genere, in quanto non è revocabile in dubbio che le due disposizioni hanno il medesimo oggetto.

La prima norma (art. 1 comma 725) rappresenta il limite edittale che risulta quindi inderogabile mentre la seconda norma (dall’art. 16 comma 1 del D.L. 90/2014 che ha modificato l’art. 4 comma 4 e 5 del D.L. 90/2015 e legge 90/2015) rappresenta ontologicamente un di cui della prima, avendo ad oggetto unicamente la determinazione di un’entità diversa rappresentata dal “costo complessivamente sostenuto nell’anno 2013.

La disciplina su richiamata, tanto quella della prima fase e soprattutto quella della seconda fase, non ha brillato per chiarezza e di fatto ha registrato critiche da parte di tutte le parti coinvolte: le amministrazioni comunali che nell’esercizio dei controlli sulle società partecipate dovevano applicare una disciplina a volte addirittura illogica ed iniqua; gli amministratori delle società che hanno visto svilito il loro ruolo da compensi basati unicamente su tagli c.d. lineari ed anche la Corte dei Conti che giocoforza è dovuta intervenire con interpretazioni estensive o restrittive per valutare di volta in volta la volontà del legislatore che non risultava chiara e addirittura in contrasto con altre parti dell’ordinamento. Sta di fatto che ad oggi tale disciplina è stata abrogata.

-  La terza fase: il regime transitorio che dalla entrata in vigore del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (avvenuta il 23/09/2016) e l’emanazione del decreto ministeriale che prevedrà i nuovi criteri di determinazione dei compensi come prevede l’art. 11 comma 7 del TU che testualmente recita: “Fino all'emanazione del decreto di cui al  comma  6  restano  in vigore le disposizioni  di  cui  all'articolo  4,  comma  4,  secondo periodo, del decreto-legge 6 luglio  2012,  n.  95,  convertito,  con modificazioni, dalla legge  7  agosto  2012,  n.  135,  e  successive modificazioni, e  al  decreto del Ministro  dell'economia  e  delle finanze 24 dicembre 2013, n. 166.”

La norma dal chiaro contenuto transitorio viene interpretata dall’autorevole dottrina (Prof Stefano Pozzoli in “quotidiano enti locali” del il Sole 24 ore)  secondo un canone strettamente letterale, e diversamente non poteva essere, con la “inevitabile conseguenza” che con l’entrata in vigore del TU, viene abrogata la disciplina dei compensi previgente, che rimarrebbe in vigore solo per le società cui rimanda l’art. 4 comma 4 secondo periodo e le società a partecipazione statale di cui al D.M economia e finanze del 24/12/2013 n. 166. Nel frattempo non è ancora stato emanato il DM previsto dall’art. 11 comma 6 del TU. Il canone interpretativo letterale è ineccepibile in punto di diritto, in quanto il TU è norma speciale che deroga alle disposizioni del codice civile, come espressamente prevede il comma 3 dell’art. 1 del TU. Le norme speciali, a mente dell’art. 14 delle Preleggi (RD 16/03/1942 n. 262) non possono che essere interpretate se non per il loro contento letterale e non sono pertanto oggetto di interpretazione estensiva.

Quindi la ricostruzione interpretativa dell’illustre accademico, del tutto condivisibile, ha dovuto prendere atto che l’unico limite esistente per i compensi dell’organo amministrativo, è quello previsto dall’art. 11 comma 6 del TU pari a 240.000,00.

Dopo l’entrata in vigore del TU, avvenuta il 23/09/2016, non sono più ammesse interpretazioni che rimandano al limite dell’ 80% del costo sostenuto al 2013 e fino a quando non verrà emanato il Decreto Ministeriale previsto dalla disposizione contenuta dall’art. 11 comma 6 del TU, dalla cui lettura appare definitivamente chiarito che viene abbandonato il metodo dei tagli c.d. lineari e si procederà con valutazioni sulla dimensione delle società – da cui discenderà un indicatore fondamentale basato sul principio che a fronte del maggior rischio per maggior dimensione deve corrispondere un compenso maggiore – e con criteri oggettivi e trasparenti nonché i criteri per la determinazione dell’indennità di risultato, che appaiono al di fuori del compenso omnicomprensivo, perché commisurati ai risultati di bilancio raggiunti dalla società.

Appare dunque necessario ricordare come il rapporto fra amministratore e società sia stato interpretato dalla Giurisprudenza che ha esaminato la portata dell’art. 2389 del codice civile

§  In tema di compenso in favore dell’amministratore di una società di capitali, che abbia agito come organo, legato da un rapporto interno alla società, e non nella veste di mandatario libero professionista, la facoltà dell’amministratore di insorgere avverso una liquidazione effettuata dall’assemblea della società in misura inadeguata, per chiedere al giudice la quantificazione delle proprie spettanze, viene meno, vertendosi in materia di diritti disponibili, qualora detta delibera sia stata accettata e posta in esecuzione senza riserve. (Cass. 24 maggio 2010, n. 12592)

§  L’amministratore svolge un’attività professionale nell’interesse altrui (della società) e, secondo le norme del mandato deve percepire un compenso. Il diritto al compenso che nasce dall’accettazione anche tacita della carica, è un diritto soggettivo perfetto con la conseguenza che, ove la misura di tale compenso non sia stabilita nell’atto costitutivo (ora: atto di nomina) o deliberata dall’assemblea dei soci a norma degli artt. 2364 e 2389 c.c., l’amministratore ha la fondata pretesa di chiedere al giudice la sua determinazione: (Trib. Milano, 29 dicembre 2010, Soc., 2011, 250).

§  La controversia nella quale l’amministratore di una società di capitali, o ente assimilato, chieda la condanna della società stessa al pagamento di una somma dovuta per effetto dell’attività di esercizio delle funzioni gestorie, è soggetta al rito del lavoro ai sensi dell’art. 409, n. 3, c.p.c. (Cass. 29 marzo 2001, n. 4662 - in senso conforme: Cass. 17 giugno 1995 n. 6701).

  • In tema di società di capitali, ai sensi dell’art. 2384 c.c. il consiglio di amministrazione rappresenta ed impegna validamente la società nei confronti dei terzi, eventuali carenze di potere rilevando  solamente nei rapporti interni quale fonte di responsabilità nei confronti della società. Ne consegue che, in mancanza di statuizioni nell’atto costitutivo (ora: di nomina), ben può il consiglio di amministrazione determinare il compenso degli amministratori esercitando i poteri di cui all’art. 2389, comma 1, c.c., a ciò non ostando il combinato disposto di cui al suindicato art. e all’art. 2384-bis c.c., scopo di quest’ultimo essendo quello di garantire la certezza e la speditezza degli affari tutelando l’affidamento dei terzi (Cass 15 novembre 2004 n. 21628)
  • L’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 cit., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori. (Cass., S.U. 29 agosto 2008, n. 21933).
  • L’esistenza di contrapposti interessi degli amministratori ad ottenere un aumento del compenso di carica e della società a non concedere tale aumento non pone, di per sé sola e necessariamente, gli amministratori in posizione di conflitto di interessi: ai fini dell’impugnazione della delibera di aumento ex art. 2373 c.c. sarà dunque necessario fornire la prova della irragionevole sproporzione di tali compensi rispetto sia alla consistenza economica della società che all’entità dell’attività prestata dagli amministratori e alla sua utilità per la società stessa. (App. Milano 8 novembre 1996 Soc. -flash n. 2/1997, 1).
  • Particolari cariche e prestazioni. L’amministratore di società cui sia demandato lo svolgimento di attività estranee al rapporto di amministrazione ha per queste diritto (ai sensi dell’art. 2389 c.c.) ad una speciale remunerazione sempre che tali prestazioni siano effettuate in ragione di particolari cariche che allo stesso siano state conferite che esulino dal normale rapporto di amministrazione, ossia dal potere di gestione della società il cui limite deve individuarsi nell’oggetto sociale, talché rientrano tra le prestazioni tipiche dell’amministratore tutte quelle che siano inerenti all’esercizio dell’impresa, senza che rilevi (salvo che sia diversamente previsto dall’atto costitutivo o dallo statuto) la distinzione tra atti di amministrazione straordinaria ed ordinaria. (Cass. 23 agosto 2000, n. 11023).

 

*****

 

Un altro aspetto della disciplina degli amministratori delle società pubbliche ha avuto una disciplina in deroghe alle regole pubblicistiche in quanto l’art. 11 comma 11, dispone: “ Nelle società di cui amministrazioni pubbliche detengono il controllo indiretto, non è consentito nominare, nei consigli di amministrazione o di gestione, amministratori della società controllante, a meno che siano attribuite ai medesimi deleghe gestionali a carattere continuativo ovvero che la nomina risponda all’esigenza di rendere disponibili alla società controllata particolari e comprovate competenze tecniche degli amministratori della società controllante o di favorire l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento.”

La disposizione deroga in modo esplicito – ancorché con riserva di verifica di alcune condizioni – la disposizione di cui all’art. 7 del decreto legislativo 39/2013.

La disciplina delle cause di inconferibilità, cosi come il divieto dell’esercizio di ruoli che possano determinare un conflitto fra controllore e controllate non ha una autonoma e specifica disciplina nel codice civile se non per quanto desumibile:

-          Dall’art. 2382 – cause di ineleggibilità e decadenza (degli amministratori):

-          Dall’art. 2399 – cause di ineleggibilità e decadenza (dei componenti del collegio sindacale

Diversamente il comma 14 dell’art. 11 del TU dispone “Restano ferme le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39.”

In particolare l’art. 7 intitolato “Inconferibilità' di incarichi a componenti di organo politico di livello regionale e locale” al comma 2 che recita:

2. A coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che conferisce l'incarico, ovvero a coloro che nell'anno precedente abbiano fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, nella stessa regione dell'amministrazione locale che conferisce l'incarico, nonché a coloro che siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme associative della stessa regione, non possono essere conferiti:

a) (…)

b) (…)

c) (…);

d) gli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico da parte di una provincia, di un comune con popolazione superiore a 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione.

Ora la portata del TU deve essere interpretata seguendo il canone interpretativo già più sopra illustrato e precisamente:  il TU abroga o come in questo caso integra le cause di ineleggibilità degli amministratori previste dal codice civile con quelle previste dal D.lgs 39/2013, le quali rimangono ferme, fatto salvo che lo stesso testo unico a sua volta non deroghi a queste ultime. Si avrebbe una serie di norme speciali che si succedono nel tempo.

In questo senso quindi per le società a controllo pubblico, che ricadono nella disciplina del TU il profilo soggettivo dell’applicazione del D.lgs 39/2013 viene superato laddove lo stesso TU apporta delle modificazioni espresse.

Non pare peraltro che tale approccio interpretativo possa essere considerato né illogico o comunque contrario a una corretta analisi dell’evoluzione ed efficacia delle norme nel tempo.

In questo senso apparirebbero così sopite, in parte, le critiche da parte della dottrina sulla irragionevolezza della disposizione dell’art. 7 del d.lgs 39/2012 – per quanto qui di interesse - (cfr Sole 24 ore del 27/04/2015) - giacché appare evidente che la disposizione avrebbe dovuto disciplinare la inconferibilità alla carica di amministratore di società di chi ricopre o ha ricoperto, nell’anno precedente, cariche elettive o cariche dirigenziali in pubbliche amministrazioni, perché questa è la fattispecie che si vuole perseguire in quanto foriera di comportamenti non corretti da chi “approfitta” della propria posizione nella pubblica amministrazione facendosi nominare nelle società controllate. Non avrebbero rilievo invece le nomine di amministratori già in passato o nel presente amministratori di altre società, cosi come ha chiarito il TU.

L’Anac non ha colto le novità del testo unico e con la delibera n. 1103/2016 ha  invece confermato la causa di inconferibilità della carica di amministratore di società partecipata da una società in house nella quale anche in quest’ultima il candidato amministratore già svolgeva la relativa carica di amministratore: interpretazione non più sostenibile alla luce di quanto previsto dal TU.

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