L’ESTERNALIZZAZIONE DEI SERVIZI PUBBLICI E IL RUOLO DELL’ENTE LOCALE IN QUALITÀ DI SOCIO PUBBLICO: CRITICITÀ, OPPORTUNITÀ E PROSPETTIVE
Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Istat nell’ottobre 2017, nell’anno 2015 le partecipate a livello nazionale sono 9.655, in calo del 2,1% sul 2014, mentre aumenta il numero dei dipendenti: sono 882.012 (+4,3%).
Restano ancora quasi 2.000 società senza personale, e 1.000 società sono inattive. Il 23,5% delle società chiude con bilanci in perdita.
Si tratta di notizie che non possono lasciare indifferenti, e che rimandano a una visione più generale del panorama italiano, con la solita domanda di fondo: qual è il quadro odierno dei rapporti tra i Comuni e le società partecipate?
Tutti ricordiamo il Dl 24 aprile 2014, n. 66, accompagnato dalla promessa del Governo Renzi di ridurre il numero delle partecipate da 8.000 a 1.000 nel giro di un triennio, come in Francia, con forti economie di scala e risparmi a regime per le finanze pubbliche in crescente difficoltà.
Una promessa disattesa, ed è importante tentare di comprenderne le ragioni.
Al Dl n. 66/2014 ha fatto seguito il piano predisposto in data 7 agosto 2014 dal Commissario straordinario Cottarelli, che ha indicato una drastica ricetta per lo sfalcio delle partecipate, puntando il dito contro la pletora di inutili "micropartecipazioni" comunali, le "scatole vuote" e le innumerevoli società pubbliche con reiterate perdite di bilancio.
La pressione su questo tema si è ulteriormente accentuata con la relazione del giugno 2014 sugli organismi partecipati (Sezione Autonomie, delibera n. 15/SEZAUT/2014/FRG), ove la magistratura contabile ha fatto il punto sull’esternalizzazione di servizi in Italia, senza fare mistero del fatto che la gestione delle società partecipate è divenuta un nodo cruciale nel coordinamento della finanza pubblica anche a causa dell’incapacità dimostrata dal legislatore di elaborare un sistema normativo idoneo a fronteggiare la criticità della situazione.
In coda a tali eventi, è ben vero che poi la legge di stabilità 2015 ha raccolto alcune sollecitazioni del Piano Cottarelli, ma senza imporre tuttavia agli Enti locali percorsi obbligati di razionalizzazione delle partecipate sul territorio, con la conseguenza che il riordino di tale settore pubblico è ancora, si può dire, in alto mare.
Eppure soltanto qualche anno fa sembrava che il corpus legislativo dei servizi locali si fosse progressivamente consolidato in un quadro giuridico definito, grazie alla riforma organica introdotta dall’art. 23-bis del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, il cui testo dapprima era stato messo a punto con alcune modifiche e poi completato con l’emanazione dello strumento regolamentare di cui al Dpr 7 settembre 2010, n. 168, salutato dai più quale efficace caposaldo idoneo a rendere chiare e certe le regole del gioco.
Nel contesto giuridico ora tratteggiato, il referendum del 12 giugno 2011 ha sortito l’effetto di un terremoto, che ha completamente raso al suolo un impianto normativo da poco costruito e non ancora collaudato.
Il quesito referendario sottoposto al voto, infatti, puntava a scardinare non soltanto, come certi slogan della propaganda elettorale hanno fatto credere (“Giù le mani dei privati dall’acqua!”), il meccanismo giuridico preposto alla privatizzazione della gestione del servizio idrico, ma anche la normativa di carattere generale che, a regime, avrebbe imposto ai Comuni l’obbligo di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica con gara a evidenza pubblica.
In esito al referendum del 2011 si è dunque generato un vuoto normativo che ha spazzato via ogni riferimento utile per regolare l’esercizio dell’attività organizzativa e gestionale dei servizi pubblici, fatta salva l’inconfondibile stella polare costituita dai principi generali del diritto comunitario sugli affidamenti in house.
A fronte di ciò, il legislatore non ha tardato a porre rimedio alla situazione con le nuove regole introdotte dagli artt. 4 e 5 del Dl n. 138 del 13 agosto 2011, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148 – in seguito ritoccate con la legge di stabilità 2012 –, innovando obiettivi, metodi e contenuti dell’azione amministrativa prescritta dalla precedente disciplina.
Con l’avvento del 2012 si è levato in Italia, con inaspettata veemenza, il vento della liberalizzazione, che con le sue raffiche non ha esitato a scuotere l’intera economia nazionale, per cambiarne il volto e il ritmo di sviluppo.
Il frutto di tali cambiamenti è stato raccolto dal Dl n. 1/2012 convertito nella legge 24 marzo 2012, n. 27 che ha compiutamente delineato la nuova disciplina organica dei servizi locali, per darne puntuale e sistematica applicazione sul territorio.
In tale contesto articolato ha fatto irruzione la sentenza n. 199 del 20 luglio 2012, con cui la Consulta ha espunto dall’ordinamento giuridico l’art. 4 del Dl n. 138/2011 sopra citato, ovvero l’asse portante del sistema normativo che avrebbe dovuto traghettare la gestione dei servizi pubblici locali dall’atavico regime di monopolio alla concorrenza del mercato, mediante un processo di liberalizzazione scandito da termini stringenti, entro cui gli enti locali – sulla base di complesse analisi di mercato e mediante l’adozione di un’apposita delibera quadro – avrebbero dovuto liberalizzare le attività economiche, oppure, in alter- nativa, procedere all’attribuzione di diritti di gestione in esclusiva.
Dopo il tentativo (fallito) di liberalizzare il mercato dei servizi pubblici locali e dopo la successiva breve stagione della privatizzazione (anch’essa tentata, ma non riuscita) delle società partecipate, il legislatore ha cambiato nuovamente rotta, nell’affannosa ricerca di soluzioni per assicurare al sistema amministrativo della Pa – e alla costellazione di organismi partecipati che gravitano nella sua orbita – l’agognato approdo agli obiettivi di contenimento e riduzione della spesa pubblica.
La legge di stabilità 2014 (legge n. 147 del 23 dicembre 2013), con l’aggregato dei commi dal 550 al 569 dell’unico articolo 1, smonta pezzo per pezzo il mosaico delle dismissioni societarie, con le seguenti importanti novità:
- il comma 561 abroga l’art. 14, comma 32, del Dl n. 78/2012, convertito in legge 30 luglio 2010, n. 122, cioè il divieto di costituire società ex novo a carico dei Comuni minori, e l’obbligo di dismissione delle società in perdita entro il 30 settembre 2013;
- il comma 562 abroga l’art. 4 del Dl n. 95/2012, convertito in legge n. 135/2012, nella parte in cui si prevedeva l’obbligo degli enti di chiudere le società strumentali entro il 31 dicembre 2013;
- dulcis in fundo, lo stesso comma 562 abroga l’art. 9 del medesimo Dl n. 95/2012, là dove esso prevedeva:
? l’obbligo per le amministrazioni locali di sopprimere o accorpare enti, agenzie e organismi di qualsiasi natura giuridica che esercitano le funzioni fondamentali e amministrative attribuite agli Enti territoriali, con l’obiettivo di attuare una riduzione degli oneri finanziari in misura non inferiore al 20 per cento;
? il divieto “di istituire enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative” conferite agli Enti locali dalla carta costituzionale.
Quali strumenti intende impiegare oggi il legislatore, per evitare il ritorno al fenomeno incontrollato dell’esternalizzazione di servizi, che ha attirato in passato gli strali della Corte dei Conti, preoccupata della sistematica elusione dei vincoli di finanza pubblica e del patto di stabilità interno, messa in atto subdolamente da una buona parte delle autonomie locali?
Non è facile rispondere a questa domanda, perché la problematica sottesa al quesito è molto più complessa di quanto non possa sembrare a prima vista.
Secondo il “rapporto sulle partecipazioni pubbliche (dati anno 2014)”, pubblicato dal Dipartimento del Tesoro nel novembre 2016, le partecipazioni sarebbero 48.896, con ulteriori 44.384 partecipazioni non dichiarate, che portano il totale delle partecipazioni a quota 93.280.
Ecco la ragione della svolta legislativa: per porre un freno alla proliferazione delle società partecipate indirettamente dalla Pa, si è passati dal blando obbligo di ricognizione societaria di cui all’art. 3, comma 27 della legge 244/2007 al comma 611 della legge 190/2014 e, infine, al dlgs 175/2016, con una logica di razionalizzazione sempre più rigorosa e stringente, fino a comminare pesanti sanzioni (fino a 500 mila euro) per gli enti soci inadempienti agli obblighi di legge.
Da questo punto di vista, il dlgs 175/2016 non solo ha riassunto in testo unico la disciplina per le società partecipate, ma ha accentuato le responsabilità del socio pubblico.
Non è un caso che molte Amministrazioni locali – anche con dimensioni medio/piccole – si stiano oggi orientando verso la costituzione di un ufficio di controllo per società partecipate, come spesso raccomandato dalla Corte dei Conti in sede consultiva.
Nessuno si immaginava questo punto di arrivo all’indomani della legge 142/1990, il cui art. 22 ha per la prima volta inaugurato la previsione dello strumento societario in mano pubblica.
Nella cornice più sopra descritta si è generato un processo di esternalizzazione di funzioni e servizi, che ha visto il Comune trasformarsi da un ente “erogatore” a soggetto “regolatore” di SPL, con il compito di:
- elaborare le strategie e la programmazione unitaria delle partecipate;
- monitorare il grado di efficienza, economicità ed efficacia della gestione, mediante un apposito sub-sistema di controlli interni
- monitorare la qualità dei servizi erogati con customer satisfaction.
Una tappa fondamentale del processo di graduale responsabilizzazione del socio pubblico è stato il Dl 174/2012, che ha introdotto l’art. 147 e seguenti del Tuel, assegnando tra l’altro all’ente socio i seguenti compiti:
a) controllo sui soggetti esterni – stato di attuazione di indirizzi e obiettivi gestionali
b) controllo sui servizi erogati, con l'impiego di metodologie dirette a misurare la soddisfazione degli utenti esterni e interni dell‘Ente.
A questo riguardo la Corte dei conti con deliberazione n. 903/2012/ INPR del 9 novembre 2012 della sez. controllo per il Veneto, nel fornire indicazioni agli Enti locali della Regione per la verifica del bilancio di previsione 2012 alla luce del d.l. n. 174/2012, non ha esitato a dedicare un ampio spazio proprio ai rapporti con le società partecipate, al fine di garantire in sede locale una sana gestione finanziaria, mediante il ri- spetto degli equilibri di bilancio e dei vincoli previsti in materia di inde- bitamento.
In tale delibera il giudice contabile ha proposto un’interpretazione per così dire “largamente estensiva” del nuovo art. 147-quater del Tuel, sostenendo che gli obblighi di controllo quivi previsti devono essere sin d’ora osservati da tutti gli Enti locali, non già in base a un espresso dettato nor- mativo, bensì in ragione delle incombenze che gravano sull’ente, per il solo fatto di essere socio pubblico del relativo organismo partecipato.
In questa prospettiva, a parere della Corte ogni Ente locale socio deve fattivamente adoperarsi, secondo la propria autonomia organizzativa, per effettuare:
a) un costante ed effettivo monitoraggio sull’andamento della società, con una verifica costante della permanenza dei presupposti valutativi che hanno determinato la scelta partecipativa iniziale;
b) tempestivi interventi correttivi in relazione a eventuali mutamenti che intercorrano, nel corso della vita della società, negli elementi originariamente valutati.
Lo scopo di tale monitoraggio, secondo la magistratura contabile veneta, è quello di prevenire fenomeni patologici e ricadute negative sul bi- lancio dell’ente, e presuppone in re ipsa un’azione preventiva di verifica e controllo, da parte del Comune, in merito alle attività svolte dalla società.
A riprova di ciò, la sezione veneta rileva che gli obblighi di controllo in capo all’Ente locale socio “assumono particolare importanza in presenza di gestioni connotate da risultati negativi, che, soprattutto se reiterati, impongono all’Ente di valutare la permanenza di quelle condizioni di natura tecnica e/o di convenienza economica nonché di sostenibilità politico-sociale che giustificarono (o che comunque avrebbero dovuto giustificare), a monte, la scelta di svolgere il servizio e di farlo attraverso moduli privatistici”.
L’interpretazione estensiva del suddetto art. 147-quater, che senza dubbio traspare dalla delibera n. 903/2012, non è un’opinione da sottovalutare, né un assunto destinato a restare privo di conseguenze pratiche per gli enti operanti sul territorio.
Sostenere, infatti, che il monitoraggio sulle partecipate e i controlli analitici sulla loro gestione sono incombenze vincolanti per tutti gli Enti locali, altro non significa che elevare il grado di responsabilità che a questi ultimi compete, proprio in qualità di soci pubblici.
Da tutto ciò si può ricavare, in estrema sintesi, il seguente quadro di adempimenti a carico dell’ente locale titolare di partecipazioni societarie:
LE INCOMBENZE DEL SOCIO PUBBLICO
a) Nomina degli amministratori (in Assemblea o ex art. 2449 c.c.)
b) Osservanza degli eventuali patti parasociali
c) Verifica del rispetto degli adempimenti previsti a carico delle società ex lege e/o da atti amministrativi della PA
d) Monitoraggio della gestione societaria, nelle diverse forme:
° ex ante, orientato all’analisi del piano industriale e del budget
° concomitante attraverso report periodici economico/finanziari sullo stato di attuazione del budget e dei programmi
° ex post attraverso l’analisi del bilancio
e) Analisi e controllo sul valore delle partecipazioni, per compiere scelte più adeguate di investimento e di razionalizzazione
All’Ente socio spetta poi il controllo di efficacia sui servizi affidati:
° ex ante, in sede di definizione del contratto di servizio
° concomitante, mediante report periodici sullo stato di attuazione degli obiettivi previsti nei contratti di servizio e nei piani industriali
° ex post, con la valutazione degli standard quali-quantitativi, la customer satisfaction e la relazione sulla gestione del Cda
Non ci si può nascondere che questo sistema di incombenze ha registrato difficoltà di coordinamento e controllo del gruppo pubblico locale dovute a molti fattori, e in particolare:
A) UN QUADRO ORGANIZZATIVO ARTICOLATO
° eterogeneità dei soggetti gestori (aziende speciali, società, istituzioni, ecc.)
° eterogeneità dei servizi pubblici erogati (da natura industriale al non profit)
° eterogeneità di adempimenti e funzioni dell’Ente (definizione indirizzi, contratti di servizio, e tariffe, controllo di qualità dei servizi, controllo dati di bilancio, controlli ispettivi, ecc.)
B) CARENZA DI RISORSE UMANE
Secondo l’ultimo rapporto annuale pubblicato dalla Ragioneria generale dello Stato, risulta che:
- Con blocco del turn over e stretta sui pensionamenti l’età media dei dipendenti pubblici ha toccato i 50 anni (+ 6 anni rispetto al 2001;
- l’83 % dei dipendenti della Pa supera i 40 anni, mentre il 3,1 % (ossia 101.693 lavoratori) ha meno di 30 anni;
- gli ultrasessantenni (372.932 unità) superano di molto i dipendenti con meno di 35 anni, che sono 260.065.
A fronte di ciò, la legge di stabilità 2016 si è limitata a ribadire la necessità di riorganizzazione della macrostruttura (gli enti devono provvedere “alla ricognizione delle proprie dotazioni organiche dirigenziali secondo i rispettivi ordinamenti, nonché al riordino delle competenze degli uffici dirigenziali, eliminando eventuali duplicazioni” (articolo 1, comma 221, della legge 208/2015).
Queste difficoltà hanno spesso indotto gli enti a lasciare in mano alle partecipate non solo la gestione, ma anche gli strumenti di programmazione, controllo e rendicontazione dei servizi pubblici locali.
Va anche detto che a fronte di queste criticità, una ulteriore forma di responsabilizzazione del Socio pubblico è l’istituzione dell’albo delle stazioni appaltanti che operano in house.
Si tratta di una misura che riguarda la gran parte delle imprese pubbliche affidatarie di servizi pubblici locali, che sul territorio nazionale raggiungono ben il 78 per cento delle gestioni.
Secondo l’art. 192 del dlgs 50/2016, per garantire pubblicità e trasparenza nei contratti pubblici l’ANAC istituisce un elenco delle stazioni appaltanti che eseguono affidamenti diretti alle proprie società in house.
L’iscrizione all’elenco, secondo modalità e criteri definiti dall’ANAC, consente di attuare affidamenti diretti all’organismo strumentale, fermo restando l’obbligo di pubblicazione degli atti ex dlgs 33/2013.
Se l’affidamento riguarda servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, l’ente deve effettuare una previa valutazione di congruità sull’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione.
Nella delibera di affidamento, l’ente deve motivare le ragioni del mancato ricorso al mercato, dando conto dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, riguardo agli obiettivi di efficienza, economicità e qualità del servizio (= ottimale impiego delle risorse pubbliche).
L’Autorità ha istituito l’albo delle amministrazioni aggiudicatrici con la delibera n. 235 del 7 marzo 2017, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 61 del 14 marzo 2017.
Con tutta evidenza, l’iscrizione è prevista per il Comune (e non per la società in house), in quanto l’ente – secondo la ratio legis del codice civile – è il dominus e il soggetto promotore dell’attività d’impresa.
A margine di queste note si può concludere che il legislatore attende al varco gli enti soci al difficile banco di prova che li attende.
L’esame ha per oggetto l’esercizio delle funzioni di socio pubblico con la finalità di impiegare le risorse della collettività secondo la logica del “bonus pater familias”, puntando alla gestione efficiente dei servizi pubblici e a una adeguata remunerazione del capitale investito.
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