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La pubblicazione dei redditi di tutti i dirigenti pubblici e l’incostituzionalità della previsione (nota a margine della sentenza della Corte Cost. n. 20 del 21 febbraio 2019)
(Avv. Maurizio Lucca, Segretario Generale Amministrazioni Locali)
1. Intermezzo. 2. Il pronunciamento in pillole. 3. Il caso. 4. La sintesi dei rilievi. 5. Il diritto alla tutela dei dati personali e la trasparenza. 6. L’evoluzione normativa. 7. Il merito. 8. La questione parzialmente fondata. 9. La via.
1. Intermezzo
Un proverbio popolare alberga nei pensieri di molti «il troppo stroppia» (comunemente «il troppo è troppo»), l’eccesso marcato di dati personali non risulta funzionale alla “trasparenza”, deborda in una invadente intrusione nella vita privata: «chi possa credere o creda che la sistematica implementazione di banche dati e di pubblicazioni/diffusione di ogni dato - senza una coerenza partecipativa e/o un riscontro di utilità… un giorno possa aumentare o aumenterà l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa, richiamando al dovere di uscire dalla logica dell’adempimento (probabilmente non avrà mai concretamente pubblicato un dato …, dimentica la storia, e i suoi miti, mentre il mondo sarà già cambiato: tali maestri di saggezza vorrebbero conciliare l’inconciliabile».
La sentenza indica l’equilibrio tra “riservatezza” della vita/sfera personale, che non può prescindere dalla divulgazione di dati personali che possono tracciare e tracciano un profilo sociale/economico del dirigente, rispetto alle esigenze di “trasparenza” che non giustificano un’invasione nel privato, con la pubblicazione di dati reddituali personali e dei prossimi parenti: una sproporzione di informazioni che non sono funzionali al controllo dell’attività e dell’organizzazione pubblica, un eccesso che non rispecchia la disciplina comunitaria di minimizzazione del trattamento, e quella nazionale di uguaglianza per situazioni non equiparabili, senza considerare i rischi per la sicurezza.
In definitiva, pretendere la pubblicazione per tutti i dirigenti pubblici dei dati reddituali risulta un trattamento abnorme, non ragionevole (per lo scopo dichiarato di trasparenza e di prevenzione della corruzione), mentre per una parte dei dirigenti più “vicini” agli organi politici (di matrice statale) tale legame sedimenta la permanenza dell’obbligo (per relationem).
La tutela dei dati personali contro massiccio ed esponenziale trattamento, non coerente con i bisogni siano essi pubblici di trasparenza, porta il rischio di alterare le libertà individuali (e collettive): il dato personale risulta, quindi, un bene immateriale prezioso sotto una molteplicità di aspetti, il trattamento indifferenziato deve essere limitato e accompagnato dalle dovute cautele e da un elevato grado di responsabilità in considerazione dei rischi per la sicurezza e la protezione della sfera personale: essere un dirigente pubblico non deve porre la persona - per tutta la durata del rapporto lavorativo - alla condivisione della propria vita privata e dei propri familiari: un eccesso di visibilità che l’ordinamento non ammette nemmeno per l’eletto che riveste un ruolo di pubblico interesse.
2. Il pronunciamento in pillole
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 20 del 21 febbraio 2019, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1 bis, del Decreto Legislativo 14 marzo 2013, n. 33 «Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni», nella parte in cui prevede che le Pubbliche Amministrazioni pubblicano i dati, di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), del cit. decreto, anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche».
Le norme di riferimento:
¾ comma 1, lettera f) dell’art. 14 «Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali» del D.Lgs. n. 33/2013 (c.d. decreto Trasparenza) recita: «1. Con riferimento ai titolari di incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, di livello statale regionale e locale, lo Stato, le regioni e gli enti locali pubblicano i seguenti documenti ed informazioni: … f) le dichiarazioni di cui all’articolo 2, della legge 5 luglio 1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 7»;
¾ comma 1 bis dell’art. 14, del decreto Trasparenza recita «Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui al comma 1 per i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, salvo che siano attribuiti a titolo gratuito, e per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione»;
¾ commi 3 e 4 dell’art. 19 «Incarichi di funzioni dirigenziali», D.Lgs. n. 165/2001 (c.d. TUPI) «3. Gli incarichi di Segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente sono conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli di cui all’articolo 23 o, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali e nelle percentuali previste dal comma 6. 4. Gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale sono conferiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli di cui all’articolo 23 o, in misura non superiore al 70 per cento della relativa dotazione, agli altri dirigenti appartenenti ai medesimi ruoli ovvero, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali richieste dal comma 6».
Dalla lettura breve del comunicato stampa del 21 febbraio 2019 si giunge immediatamente all’essenzialità della decisione: «la Corte costituzionale ha… dichiarato illegittima la disposizione che estendeva a tutti i dirigenti pubblici gli stessi obblighi di pubblicazione previsti per i titolari di incarichi politici. La pubblicazione riguarda, in particolare, i compensi percepiti per lo svolgimento dell’incarico e i dati patrimoniali ricavabili dalla dichiarazione dei redditi e da apposite attestazioni sui diritti reali sui beni immobili e mobili iscritti in pubblici registri, sulle azioni di società e sulle quote di partecipazione a società».
I dati da pubblicare con la massima indicizzazione e rintracciabilità tramite i motori di ricerca web e anche il loro riutilizzo risulta una “misura” di trasparenza irragionevole nel bilanciamento tra due diritti:
¾ quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona;
¾ quello dei cittadini al libero accesso ai dati e alle informazioni detenuti dalle Pubbliche Amministrazioni.
L’estensione di tali obblighi di pubblicazione «alla totalità dei circa 140.000 dirigenti pubblici (e, se consenzienti, ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado), ha violato il principio di proporzionalità, cardine della tutela dei dati personali e presidiato dall’articolo 3 della Costituzione».
La proporzionalità è collegata alla ragionevolezza e un suo eccesso di trattamento nuoce ai diritti primari di integrità: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (primo comma dell’art. 3 Cost.).
Un eccesso di dati compromette un valore costituzionale primario, un trattamento sproporzionato di dati (vedi, quelli biometrici) va ben oltre l’esigenza di rendere conto o di garantire il c.d. diritto di accesso civico semplice (modello c.d. FOIA): si incide sui diritti inviolabili della persona umana.
Si comprende, annota la Corte, che «pur riconoscendo che gli obblighi… sono funzionali all’obiettivo della trasparenza, e in particolare alla lotta alla corruzione nella Pubblica amministrazione», non è possibile esorbitare determinati limiti e, attraverso un controllo generalizzato, penetrare in modo selettivo nella sfera privata e individuale (oltre che familiare).
Per ciò che interessa, l’accesso alle informazioni e all’utilizzo delle risorse pubbliche da parte di chiunque non giustifica un totale controllo della vita privata del dipendente pubblico e delle sue relazioni familiari (prossimi parenti) che esulano da qualsiasi collegamento con il lavoro svolto alle dipendenze della P.A.: piena legittimità per la conoscenza dei compensi collegati alla funzione estesa a tutti i dirigenti, «non così per gli altri dati relativi ai redditi e al patrimonio personali, la cui pubblicazione era imposta, senza alcuna distinzione, per tutti i titolari di incarichi dirigenziali».
L’evidenza non ammette indugi: i «dati che non sono necessariamente e direttamente collegati all’espletamento dell’incarico affidato» esulano dalla prestazione negoziale, ovvero dal rapporto di lavoro.
Il ragionamento semplice è quello di dire che, se un soggetto è dipendente pubblico, questo fatto incontrovertibile non è un valido motivo per rendere di domino pubblico l’intera sfera personale che non risulta collegata all’attività svolta: si tratterebbe di un eccesso di visibilità, di una marcatura estrema non ritraibile per gli altri lavoratori privati o assimilabile agli incarichi politici di governo: «la loro pubblicazione non può essere sempre giustificata – come avviene invece per i titolari di incarichi politici – dalla necessità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale allo scopo di mantenere saldo, durante il mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare».
Vi è poi da aggiungere che la pubblicazione indistinta di una quantità massiccia di dati – «senza alcuna distinzione tra i dirigenti, in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta – non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi, anche a fini anticorruttivi, e rischia, anzi, di generare “opacità per confusione” oltre che di stimolare forme di ricerca tendenti unicamente a soddisfare mere curiosità».
Ed è questo ultimo aspetto che rattrista di più le esigenze informative, un desiderio morboso di soddisfare bisogni privi di valore giuridico: un accesso generalizzato, ex comma 3 dell’art. 24 della Legge n. 241/1990, secondo il quale «Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni»: il tutto finalizzato a perseguire uno scopo non meritevole di essere tutelato dall’ordinamento.
Giova (allora) osservare che la trasparenza informativa deve comunque essere allocata ad un’esigenza che si presti ad analizzare un qualche interesse di valenza pubblica, una qualche utilità correlata al soddisfacimento del “buon andamento” (ex art. 97 Cost.), non potendo confinare la pubblicazione, e la connessa esigenza ostensiva del dato personale, ad un bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico o peggio emulativo che, lungi dal favorire la consapevole partecipazione del cittadino al dibattito pubblico, rischierebbe di compromettere le stesse istanze alla base dell’introduzione dell’accesso civico.
Invero, un accesso agli atti e alle informazioni che si pretenderebbe (e si rappresenta) come una forma avanzata e abnorme di controllo generico e generalizzato sull’attività dell’Amministrazione, alias dei suoi dirigenti, per niente finalizzato ad una verifica della trasparenza e legittimità dell’azione amministrativa (rectius della prevenzione della corruzione), ma ad una evidente pretesa di immissione nella sfera privata dei singoli, non sostenibile poiché in contrasto cangiante con il canone fondamentale dell’efficienza ed efficacia dell’azione stessa, di cui all’art. 97 della Costituzione.
L’accesso e la trasparenza non vanno confusi con la condivisione della sfera personale dell’individuo, anche se dipendente pubblico.
Se con l’introduzione, a cura del D.Lgs. n. 97 del 2016, sulla base della delega di cui all’art. 7, comma 1, lett. h) della Legge n. 124 del 2015, l’accesso civico generalizzato (ex art. 5 comma 2 del D.Lgs. n. 33/2013), la tutela della trasparenza dell’azione amministrativa risulta rafforzata ed arricchita attraverso una disciplina che si aggiunge a quella che prevede gli obblighi di pubblicazione (già presenti negli articoli da 12 e ss. del cit. D.Lgs. n. 33/2013, oltre all’accesso civico semplice) e alla più risalente disciplina, di cui agli artt. 22 e ss. della Legge n. 241 del 1990 in tema di accesso ai documenti, è da dire che tali strumenti di trasparenza trovano, comunque, dei limiti a salvaguardia di interessi pubblici e privati suscettibili di vulnerazione.
Già la Legge n. 241/1990 esclude espressamente l’utilizzabilità del diritto di accesso per sottoporre l’Amministrazione a un controllo generalizzato, pure il diritto di accesso generalizzato trova, anche ad opera dei pronunciamenti del Garante Privacy e ANAC, delle esclusioni e dei limiti in presenza del pregiudizio della sfera privata dell’interessato, qualora vengano in considerazione rilevanti profili di privacy, a meno che non si voglia dare un’interpretazione così estensiva da risultare abrogativa della Legge n. 241/1990, e del suo patrimonio valoriale (e giurisprudenziale): difatti la disciplina dell’accesso civico generalizzato non può che essere interpretata come del tutto alternativa alla disciplina di cui alla Legge n. 241/1990 e azionabile, da chiunque, solo in caso di un interesse alla legittima azione amministrativa e al suo controllo da parte della collettività e non nei casi in cui venga, invece, azionata una pretesa del singolo per suo esclusivo e concreto vantaggio.
A ben vedere, e per ciò che rileva in tema di trasparenza dei redditi dei dirigenti, l’interesse tutelato, anche dall’accesso civico (ex art. 5 del D.Lgs. n. 33 del 2013) nella sua massima espressione di “Amministrazione trasparente”, presuppone come implicita la rispondenza della richiesta stessa al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza pubblica e che non resti confinato ad un bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico o peggio emulativo che, lungi dal favorire la consapevole partecipazione del cittadino al dibattito pubblico, rischierebbe di compromettere le stesse istanze alla base dell’introduzione dell’istituto.
La Corte Costituzionale, nel comunicato informativo, indica «una diversa soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti… individuando nei dirigenti apicali delle amministrazioni statali… coloro ai quali sono applicabili gli obblighi di pubblicazione imposti dalla disposizione censurata» non risultando irragionevole tale previsione in relazione alle responsabilità e attribuzioni assunte «che, solo per loro, siano mantenuti, allo stato, gli obblighi di trasparenza di cui si discute. Spetterà ora al legislatore ridisegnare – con le necessarie diversificazioni e per tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali – il complessivo panorama dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con cui devono essere attuati, nel rispetto del principio di proporzionalità posto a presidio della privacy degli interessati».
3. Il caso
La sentenza n. 20 del 21 febbraio 2019 della Corte Costituzionale, nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 bis e 1 ter, del D.Lgs. n. 33/2013, viene promossa dal T.A.R. Lazio, sez. I quater, con ordinanza n. 9828 del 19 settembre 2017, quando con la riforma della P.A. (ex Legge 7 agosto 2015, n. 124, c.d. Legge Madia) vengono inseriti nuovi obblighi di trasparenza a carico dei dirigenti della P.A. (ex D.Lgs. n. 97/2016); dirigenti (caso di specie, inseriti nell’organico dell’ufficio del Garante per la protezione dei dati personali) che agirono per l’annullamento della nota del Segretario generale dell’Autorità, «previa eventuale disapplicazione dell’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33», oppure previa rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione europea o alla Corte costituzionale «della questione in ordine alla compatibilità delle disposizioni sopra citate con la normativa europea e costituzionale».
La nota del Segretario generale del Garante privacy richiedeva ai dirigenti per la pubblicazione (rammentando che l’inadempimento era soggetto a sanzione):
¾ copia dell’ultima dichiarazione dei redditi presentata, oscurando i dati eccedenti;
¾ dichiarazione della situazione patrimoniale;
¾ dichiarazione di negato consenso per il coniuge non separato e i parenti entro il secondo grado, ovvero, in caso di avvenuta prestazione del consenso, copia delle dichiarazioni dei redditi dei suddetti soggetti e dichiarazioni delle rispettive situazioni patrimoniali;
¾ dichiarazione dei dati relativi ad eventuali altre cariche presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica assunte dagli interessati.
Si trattava - per i dirigenti - di una equiparazione automatica con gli obblighi di trasparenza imposta ai titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo di livello statale, regionale e locale, con una enorme produzione di ore lavorative per acquisire, trattare e pubblicare i dati (più di centoquarantamila soggetti, senza considerare i loro parenti), in evidente violazione con gli obblighi di minimizzazione e anonimizzazione dei dati personali (oltre, e ben oltre la “privacy by design e by default”), ovvero con il «principio di proporzionalità di derivazione europea», assimilando condizioni non equiparabili fra loro (in aperta violazione con l’art. 3 Cost.), prescindendo «dall’effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta».
Inoltre, le ragioni di trasparenza “proattiva” consentirebbero ai dati pubblicati di perdere ogni forma di controllo e finalizzazione di scopo, visto anche che, ai sensi degli artt. 7 bis e 9 del D.Lgs. n. 33 del 2013, le Amministrazioni cui compete la pubblicazione on line dei dati non possono disporre filtri e altre soluzioni tecniche atte a impedire ai motori di ricerca web di indicizzarli, o di renderli non consultabili attraverso questi ultimi, potendo profilare una serie di informazioni del tutto incoerenti con le cit. esigenze di trasparenza e prevenzione della corruzione, quando semmai aumentare i rischi di manipolazione, di divulgazione di informazioni sensibili, di abuso, oltre a raggiungere un “caos” (nella derivazione greca) indistinto di dati personali dei dirigenti e delle loro parentale.
4. La sintesi dei rilievi
Nell’analisi dei profili di giudizio sull’applicabilità delle norme censurate si osserva (i più significativi rispetto a quelli già segnalati):
¾ in primis la violazione delle fonti sovranazionali (riferite ai rapporti tra le fonti dei diritti fondamentali, insieme con norme sia della CDFUE (artt. 7 e 8), sia della Costituzione, sia della CEDU) e della nuova normativa in materia di protezione dei dati personali, di cui al regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali (GDPR, General Data Protection Regulation), dove non viene giustificata o imposta la raccolta e la divulgazione dei dati sui redditi dei dipendenti pubblici non funzionale all’obiettivo di buona gestione delle risorse pubbliche (ergo violazione dei principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza costituiscono il canone complessivo che governa il rapporto tra esigenza, privata, di protezione dei dati personali, ed esigenza, pubblica, di trasparenza);
¾ mancata differenziazione tra categorie dirigenziali, responsabilità e compenso, nonché pubblicazione esorbitante di dati differenziati con rischi connessi di rischi di alterazione, manipolazione e riproduzione per fini diversi (sintomo di irragionevolezza, oltre che contrasto con la ratio della trasparenza, senza considerare le politiche sulla sicurezza, sulla profilazione, sui furti d’identità);
¾ la comune soggezione dei titolari di incarichi politici e dei dirigenti a identici obblighi di pubblicità, stante la diversa durata temporale che, di norma, caratterizza lo svolgimento delle relative funzioni, si risolverebbe in una misura particolarmente pervasiva per i secondi, assoggettati alla cit. disciplina per un periodo corrispondente all’intera durata del rapporto di lavoro, ponendosi nei loro confronti, diversamente che per i titolari di incarichi politici, alla stregua di una «condizione della vita»;
¾ l’Avvocatura osserva, invece, che il legislatore nazionale disporrebbe di un margine di apprezzamento nel ponderare il proprio regime di trasparenza nel settore pubblico in rapporto alla tutela dei dati personali, giustificato dal GDPR, con una corretto bilanciamento «alla luce dei test di proporzionalità, non eccedenza, pertinenza, finalità e ragionevolezza», anche in relazione alle classifiche stilate dall’organizzazione “Transparency International” dove l’Italia risulta tra i Paesi in cui è più elevata la percezione della corruzione (da intendersi anche come carenza di trasparenza);
¾ con riferimento alla prospettata violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura osserva che «è proprio il fatto di essere permanentemente e stabilmente al servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni gestionali apicali», a costituire la giustificazione del regime aperto, di massima trasparenza, per i gestori della cosa pubblica, «quanto se non più che per i titolari di incarichi politici» (questione che non può convincere alla radice l’osservatore esterno, il dirigente assume un incarico, generalmente per concorso, ed è soggetto deputato all’esecuzione di linee di indirizzo politico e presta un’attività lavorativa soggetta a valutazioni di risultato, mentre il politico segue regole diverse, sia per legittimazione del consenso che per finalità di obiettivi ed è soggetto al giudizio pubblico non in termini di risultati ottenuti ma di promesse mantenute: due prospettive diverse, e valori diversi, dove ad es. il diritto all’oblio non può essere invocato).
5. Il diritto alla tutela dei dati personali e la trasparenza
Il diritto alla riservatezza dei dati personali:
¾ risulta una manifestazione del diritto fondamentale all’intangibilità della sfera privata (sentenza n. 366 del 1991), che attiene alla tutela della vita degli individui nei suoi molteplici aspetti;
¾ trova riferimenti nella Costituzione italiana, ex artt. 2, 14, 15 Cost.;
¾ incontra specifica protezione nelle varie norme europee e convenzionali in relazione alla raccolta, trattamento e diffusione;
¾ si caratterizza quale diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona;
¾ viene governato dai principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza;
¾ eventuali deroghe e limitazioni alla tutela della riservatezza devono operare nei limiti dello stretto necessario, essendo indispensabile identificare le misure che incidano nella minor misura possibile sul diritto fondamentale, pur contribuendo al raggiungimento dei legittimi obiettivi sottesi alla raccolta e al trattamento dei dati.
Il diritto alla trasparenza pubblica:
¾ i principi di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa sono riferiti non solo, quale corollario del principio democratico (art. 1 Cost.), ma a tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica e istituzionale, ma anche, ai sensi dell’art. 97 Cost., al buon funzionamento dell’Amministrazione (sentenze n. 177 e n. 69 del 2018, n. 212 del 2017);
¾ nella loro declinazione soggettiva risulta una forma di un diritto dei cittadini ad accedere ai dati in possesso della Pubblica Amministrazione, ex art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 33 del 2013;
¾ il Trattato di Lisbona inserisce il diritto di accedere ai documenti in possesso delle Autorità europee tra le «Disposizioni di applicazione generale» del Trattato sul funzionamento dell’Unione, imponendo di considerare il diritto di accesso ad essi quale principio generale del diritto europeo (ex art. 15, paragrafo 3, primo comma, TFUE e art. 42 CDFUE).
I diritti alla riservatezza e alla trasparenza si fronteggiano nel nuovo mondo digitale e possono essere posti in pericolo dalla indiscriminata circolazione delle informazioni che dalla più ampia circolazione dei dati che può meglio consentire a ciascuno di informarsi e comunicare, rilevando che il possesso di dati personali (sia pure reddituali dei dirigenti pubblici) può essere un valido ausilio per orientare il mercato, definire le scelte, incidere sul processo decisionale, in definitiva sulle libertà: «in un tempo rapidissimo si è costituito un nuovo equilibrio nei rapporti di forza a livello globale, con una concentrazione di poteri in capo a poche società che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Poche aziende nel mondo hanno acquisito tutti i potenziali competitori creando un regime di oligopolio e fondando l’economia dei dati».
6. L’evoluzione normativa
Il D.Lgs. n. 97 del 2016 costituisce il punto d’arrivo del processo evolutivo che ha condotto all’affermazione del principio di trasparenza amministrativa sul segreto, che consente la conoscenza diffusa delle informazioni e dei dati detenuti dalle Pubbliche Amministrazioni, partendo dalla Legge 7 agosto 1990, n. 241 «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi» e dai suoi sistemi di accesso e legittimazione qualificata.
Il Decreto Legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (c.d. decreto Brunetta) ha offerto una prima definizione di trasparenza, «intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche», assicurando la trasparenza alle «informazioni» relative all’organizzazione amministrativa e all’impiego delle risorse pubbliche, con particolare riferimento alle retribuzioni dei dirigenti e di coloro che rivestono incarichi di indirizzo politico-amministrativo.
La Legge 6 novembre 2012, n. 190 «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione» (c.d. legge anticorruzione) ha assegnato alla trasparenza amministrativa il rango di principio-argine alla diffusione di fenomeni di corruzione, e con l’approvazione del D.Lgs. n. 33 del 2013, si è delineato il sistema italiano c.d. FOIA dell’accesso civico, sempre con la garanzia della protezione dei dati personali, ma con lo scopo di «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche».
Il D.Lgs. n. 97 del 2016 intende la trasparenza come «accessibilità totale», ai «dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni (art. 2 del d.lgs. n. 97 del 2016, modificativo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013)», con obblighi di pubblicazione specifici, precisando la piena pubblicazione dei dati personali “comuni”, diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari (questi ultimi, come tali, sottratti agli obblighi di pubblicazione).
7. Il merito
Passando al merito delle questioni sollevate, con riferimento all’art. 14, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 33 del 2013, la Corte Cost. rammenta che sul bilanciamento tra “riservatezza” dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati ed alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ripetutamente affermato che:
¾ le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche;
¾ deve sempre essere rispettato il principio di proporzionalità, definito cardine della tutela dei dati personali;
¾ le deroghe e le limitazioni alla protezione dei dati personali devono operare nei limiti dello stretto necessario;
¾ occorre sempre in prima analisi ipotizzare misure che determinino la minor lesione, per le persone fisiche, del diritto alla riservatezza rispetto al raggiungimento dei confliggenti obiettivi di trasparenza, in quanto legittimamente perseguiti;
¾ non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali;
¾ il GDPR persegue nella limitazione della finalità del trattamento e nella «minimizzazione dei dati», la necessità di acquisizione di dati adeguati, pertinenti e limitati a quanto strettamente necessario alla finalità del trattamento.
Le considerazioni che precedono non sono indifferenti rispetto al continuo progresso tecnologico che con il perfezionamento e la pericolosità degli strumenti di raccolta e profilazione dei dati personali, potrebbero far derivare inedite, per il passato e «del tutto impensabili e, talora gravissime, aggressioni agli aspetti più intimi della personalità», tali ad indurre il diritto ad introdurre «efficaci e adeguate difese» del «diritto alla riservatezza (o all’intimità della sfera privata dell’individuo)».
L’analisi dell’art. 3 Cost., alla luce dei parametri comunitari, comporta che la pubblicità dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti impone per la legislazione nazionale di rispettare i criteri:
¾ di necessità;
¾ di proporzionalità;
¾ di finalità;
¾ di pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali.
8. La questione parzialmente fondata
L’insieme del quadro evolutivo e normativo prospettato porta ad affermare da parte della Corte Cost., che la questione è parzialmente fondata per violazione:
¾ sia del principio di ragionevolezza;
¾ sia del principio di eguaglianza, limitatamente all’obbligo imposto a tutti i titolari di incarichi dirigenziali, senza alcuna distinzione fra di essi, di pubblicare le dichiarazioni e le attestazioni di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del D.Lgs. n. 33 del 2013.
I punti di diritto:
Nella versione originaria, il citato art. 14 del D.Lgs. n. 33 del 2013, imponeva degli obblighi di pubblicazione ai soli titolari di incarichi politici di livello statale, regionale e locale, trovando la loro giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega la ratio di tali obblighi: consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale e locale, a partire dal momento dell’assunzione della carica, godano di incrementi reddituali e patrimoniali, anche per il tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni percepite per i vari incarichi (un riscontro ad un arricchimento indebito o sospetto);
¾ la novella, di cui al D.Lgs. n. 97 del 2016, unifica la previsione con l’inserimento dei dirigenti in nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista della trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa di vetro”;
¾ tale previsione di libero accesso ai dati per promuovere forme di controllo deve essere contemperata alla conoscenza ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio del cit. controllo c.d. finalistico (sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche), già presente nella precedente stesura, e, pertanto, esente da censure;
¾ con riferimento agli obblighi di pubblicazione indicati nella lettera f), del comma 1 dell’art. 14 del D.Lgs. n. 33 del 2013, la questione risulta diversa in quanto non presenta alcuna distinzione, a carico di tutti i titolari di incarichi dirigenziali (rispetto alle precedenti lettere);
¾ i dati richiesti, dalla cit. lettera f) del comma 1, non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato, anzi essi offrono, piuttosto, un’analitica dimensione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare;
¾ l’eventuale scrematura di dati (richiesta di oscurare) nella dichiarazione dei redditi destinata alla pubblicazione, per quelli considerati “eccedenti” (codice fiscale, scelta del destinatario relativa all’otto e al cinque per mille dell’IRPEF, ammontare delle spese sanitarie, riepilogo delle spese, sottoscrizioni autografe del dichiarante) non è giustificabile: non risponde alle due condizioni richieste dal test di proporzionalità: l’imposizione di oneri non sproporzionati rispetto ai fini perseguiti, e la scelta della misura meno restrittiva dei diritti che si fronteggiano.
Tali eccedenze di dati viola l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca, «imporre a tutti indiscriminatamente i titolari d’incarichi dirigenziali di pubblicare una dichiarazione contenente l’indicazione dei redditi soggetti all’IRPEF nonché dei diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, delle azioni di società, delle quote di partecipazione a società e dell’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società (con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano e fatta salva la necessità di dare evidenza, in ogni caso, al mancato consenso)».
L’onere di pubblicazione per tutti i dirigenti risulta:
¾ sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della P.A.;
¾ impone la pubblicazione di una massa notevolissima di dati personali, considerata la platea dei destinatari: circa centoquarantamila interessati (la cerchia fam.), secondo le rilevazioni operate dall’ARAN e citate dal Garante per la protezione dei dati personali;
¾ intravede un rischio di frustrazione delle stesse esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, poste a base della normativa sulla trasparenza;
¾ la pubblicazione di quantità così massicce di dati non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi a determinati fini se non siano utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che non è ragionevole supporre siano a disposizione dei singoli cittadini;
¾ in contrasto con il principio per cui, «nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango»;
¾ l’indicizzazione e la libera rintracciabilità sul web, non è coerente al fine di favorire la corretta conoscenza della condotta della pubblica dirigenza e delle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche.
La troppa trasparenza e pubblicazione di dati, secondo le indicazioni ANAC, non diversamente dall’indicazioni del Garante privacy, segna il rischio di generare “opacità per confusione”, proprio per l’irragionevole mancanza di un reale smistamento ex ante delle informazioni più utili al perseguimento dei legittimi obiettivi perseguiti.
Anche sotto il secondo profilo, quello della necessaria scelta della misura meno restrittiva dei diritti fondamentali in potenziale tensione, la disposizione censurata non supera il test di proporzionalità, esistendo soluzioni meno invasive, peraltro già presente nella disciplina del Codice di comportamento (ex art. 13, commi 1 e 3, del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62), e nell’articolo 54 del D.Lgs. n. 165/2001 che impone ai titolari d’incarichi dirigenziali l’obbligo di fornire alle Amministrazioni di appartenenza, con onere di aggiornamento annuale, le informazioni sulla propria situazione reddituale e patrimoniale, che però non sono rese pubbliche (informazioni che sono anche utili per verificare prestazioni lavorative prive dell’autorizzazione preventiva e di verifica sull’assenza del conflitto di interessi, sempre in chiave di trasparenza e prevenzione della corruzione).
In ultima, la norma non distingue tra dirigenti e non prevede alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o gestionale in contrasto, ad un tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il principio di proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali antagonisti.
Si tratta, a ben vedere, della violazione del principio di “buon andamento” che comporta l’obbligo della P.A. di perseguire la migliore realizzazione dell’interesse pubblico (quello della trasparenza), in modo che vi siano congruenza e congruità tra l’azione amministrativa e il fine che essa deve perseguire.
La Legge n. 190/2012, e suoi decreti attuativi (ex D.Lgs. n. 33/2013 e 97/2016), hanno come obiettivo complessivo quello di contrastare la cattiva gestione amministrativa, che alterando le regole del procedimento amministrativo e offuscando la trasparenza possono dare ingresso a fenomeni degenerativi, a condotte arbitrarie, anche penalmente rilevanti, limitando il perseguimento dell’interesse primario: il bene generale.
La “trasparenza”, intesa come “il dar conto”, nella tradizione anglosassone di “accountability”, costituisce, pertanto, una “misura” in grado di effettuare un controllo sociale sull’operato dell’Amministrazione Pubblica ma non deve corrispondere ad un’invasiva ed estesa produzione/pubblicazione di dati personali incoerenti.
9. La via
Dopo il pronunciamento, la Corte indica la strada sulla differenziazione di oneri di pubblicità, richiamando le osservazioni dell’Avvocatura generale dello Stato che «è proprio il fatto di essere permanentemente e stabilmente al servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni gestionali apicali», a costituire il fondamento del regime aperto, di massima trasparenza, per i gestori della cosa pubblica.
Ne consegue che vi è la possibilità di classificare i livelli e funzioni, all’interno della categoria dei dirigenti pubblici, anche in relazione alla diversa natura delle Amministrazioni di appartenenza, per procedere con la pubblicazione dei redditi (fermo il divieto per la Corte di ridisegnare, tramite pronunce manipolative, il complessivo panorama, necessariamente diversificato, dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con le quali tali obblighi debbano essere attuati): «da questo punto di vista, l’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nell’elencare gli incarichi di funzioni dirigenziali, ai commi 3 e 4 contiene indicazioni normative che risultano provvisoriamente congruenti ai fini appena indicati. Tali commi individuano due particolari categorie di incarichi dirigenziali, quelli di Segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4)».
Tali soggetti, annota la Corte, risultano per competenze attribuite in collegamento con gli organi di decisione politica, con i quali il legislatore presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario, tanto da disporre che i suddetti incarichi siano conferiti su proposta del ministro competente, rendendo non irragionevole, allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli obblighi di trasparenza: si tratta di un legame che risente di un invasivo spoil system che si riverbera (quasi) in una equiparazione traslata di trasparenza con i medesimi meccanismi elettivi.
Nella dimensione originaria descritta da S.D. WARREN - L.D. BRANDEIS, The Right to privacy, Harvard Law Review, 15 dicembre 1890, che distinsero il diritto alla riservatezza dal diritto di proprietà privata per animare e riconoscere il valore giuridico della “sensibilità umana”, elevando a bene e valore giuridico l’“intimità personale” distinta dai beni materiali, condendo la giusta protezione alla tutela (inviolabilità) della privacy.
Un accesso ingiustificato, un accesso esplorativo, una manifestazione sovrabbondante, pervasiva e, in ultima analisi, contraria a buona fede e anche all’istituto dell’accesso generalizzato, che impone un facere straordinario, capace di aggravare solo ordinaria attività dell’Amministrazione, senza utilità: un abuso del diritto, T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 11 ottobre 2017, n. 1951. Vedi, anche T.A.R. Veneto, sez. III, 29 giugno 2017, n. 607, dove segnala che l’accesso civico, pur segnando il passaggio dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere (from need to right to know, nella definizione inglese FOIA), come ogni altra posizione giuridica attiva, non può essere esercitata dal suo titolare con finalità emulative o con modalità distorte e abusive.
T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, 11 febbraio 2019, n. 242.
C. COSSU, Proteggiamo i dati, sono la nostra vita, intervista ad A. SORO, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, L’Unione Sarda, 6 giugno 2018.
Cass. Civ., sez. I, 19 maggio 2014, n. 10947 e 20 maggio 2016, n. 10512.
In effetti, «la trasparenza deve essere preservata da effetti distorsivi e da quell’“opacità per confusione” che rischia di caratterizzarla se degenera in un’indiscriminata bulimia di pubblicità. Con il rischio di occultare informazioni realmente significative con altre inutili, così ostacolando, anziché agevolare, il controllo diffuso sull’esercizio del potere… Non sempre, infatti, la pubblicazione in rete è garanzia di reale informazione, trasparenza e quindi “democraticità”, perché comporta rischi di alterazione, manipolazione, decontestualizzazione e riproduzione per fini diversi, che potrebbero frustrare ogni esigenza di informazione veritiera e, quindi, di controllo, oltre che di oblio una volta venuta meno l’utilità del dato», SORO, Persona vulnerabile. La protezione dei dati nella società digitale. Relazione 2014, Roma, 23 giugno 2015, garanteprivacy.it., pag. 14.
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