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CANONE DI CONCESSIONE DEL GAS NATURALE AI COMUNI: È DOVUTO ANCHE A CONCESSIONE SCADUTA.
IL PUNTO A SEGUITO DELLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 239/2021
di Sergio Cesare Cereda 25 gennaio 2022
Materia: gas / disciplina

CANONE DI CONCESSIONE DEL GAS NATURALE AI COMUNI: È DOVUTO ANCHE A CONCESSIONE SCADUTA.

IL PUNTO A SEGUITO DELLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 239/2021

La sentenza della Corte Costituzionale n. 239/2021 ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale in ordine all’art. 1, comma 453, della legge 11 dicembre 2016, n. 232, mettendo così un punto fermo nell’annoso contrasto sorto tra enti locali e gestori del servizio di distribuzione del gas naturale in ordine alla debenza del canone di concessione per il periodo di tempo successivo allo spirare della durata convenzionale. La sentenza – con una pronuncia sostanzialmente di merito - ha il pregio di fornire una ricostruzione chiara ed esaustiva del quadro normativo che caratterizza il rapporto fra concessionari (scaduti) ed enti locali concedenti in attesa della riassegnazione tramite le gare d’ATEM.

I. Il quadro di riferimento.

1.1. La Corte Costituzionale con sentenza n. 239/2021 del 9 novembre e pubblicata il 7 dicembre è intervenuta nell’annoso contrasto sorto tra enti locali e gestori del servizio di distribuzione del gas naturale in ordine alla debenza del canone di concessione per il periodo di tempo successivo allo spirare della durata convenzionale.

In particolare la decisione ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale in ordine all’art. 1, comma 453, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 sollevate dal Collegio arbitrale presso la Camera arbitrale dell’Autorità nazionale anticorruzione[1], nondimeno ha avuto modo di esprimere alcuni punti fermi utili a definire la questione.

1.2. L’ampio contenzioso è originato dal sommarsi di due elementi. Da un lato la dilatazione dei tempi d’indizione delle nuove gare, che ha permesso di giungere a scadenza ai rapporti contrattuali conseguiti a gare bandite dopo l’entrata in vigore del D. lgs n. 164/2000; dall’altro la circostanza che diversi di questi contratti prevedono il riconoscimento all’ente locale di un canone di concessione di rilevante peso economico. Tali circostanze hanno indotto diversi concessionari che - ai sensi del comma 7 dell’art. 14 del surrichiamato D. Lgs. - sono tenuti a proseguire la distribuzione sino al subentro del nuovo gestore, ad assumere iniziative giudiziarie volte ad escludere l’obbligo di pagamento o quanto meno a ridurlo.

1.3. Sotto il profilo giuridico la questione nasce dalla previsione di cui all’art. 14 comma 7 del d. lgs. 164/2000, secondo il quale “il gestore uscente resta comunque obbligato a proseguire la gestione del servizio, limitatamente all'ordinaria amministrazione, fino alla data di decorrenza del nuovo affidamento”.  In conseguenza si è posta la domanda se, in assenza di specifiche previsioni normative, il rapporto dovesse proseguire in base alle condizioni contrattuali o dovesse subire delle modifiche, come preteso dai concessionari. La risposta deve anzitutto essere cercata nell’interpretazione del surrichiamato disposto dell’art. 14 e più in generale nelle norme e nei principi che regolano l’interpretazione e l’adempimento dei contratti. Nondimeno, successivamente, è entrata in vigore una norma d’interpretazione autentica costituita dall’art. 1 comma 453 della L. 11-12-2016 n. 232  il quale ha sancito che “L'articolo 14, comma 7, del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164, si interpreta nel senso che il gestore uscente resta obbligato al pagamento del canone di concessione previsto dal contratto…”. Questa previsione rimuove ogni dubbio interpretativo, essendo il suo significato di tutta evidenza; nondimeno ne è stata contestata la rispondenza alla normativa comunitaria ed a quella costituzionale.

1.4. La vicenda in esame si è quindi dipanata (e si dipana) su un duplice versante: avendo da un lato ad oggetto l’inquadramento del rapporto contrattuale in base alle norme civilistiche ed all’esame del comma 7 dell’art. 14 del D. lgs. 164/2000, e quindi indipendentemente dall’applicazione della norma di interpretazione autentica. Dall’altro è stata analizzata la legittimità della citata norma interpretativa. La prevalente giurisprudenza ad oggi consolidatasi[2] ha statuito l’obbligo del gestore nel continuare a versare il canone sia in forza del richiamato comma 7, sia applicando l’art. 1 comma 453 della L. n. 232/16[3], non avendo ritenute meritevoli di accoglimento le contestazioni avanzate in ordine alla legittimità di detta norma.

 

II. Inquadramento del rapporto contrattuale in base alle norme civilistiche ed al comma 7 dell’art. 14 del D. Lgs 164/2000.

2.1. Veniamo a considerare dunque il primo versante della questione, partendo con l’analisi civilistica del rapporto contrattuale. Al riguardo è da ritenere che, in mancanza di diverse prescrizioni contrattuali o normative, la prosecuzione di un rapporto giuridico debba avvenire sulla base delle reciproche prestazioni che hanno scolpito l’originario sinallagma contrattuale[4]. Non si comprende infatti in base a quale ragionamento logico ed a quale principio giuridico si dovrebbe intervenire “chirurgicamente” sul rapporto contrattuale, modificandone una rilevante componente economica; facendo conseguire – nel caso di specie - al concessionario quell’ingiustificato guadagno che si ha quando viene eliminato un costo, lasciando immutato il resto del quadro economico[5]. A ben vedere nel caso in esame ci si trova di fronte ad un canone offerto in sede di gara, che non diviene di certo più oneroso per il solo allungamento della durata del rapporto. Non può ragionevolmente sostenersi che un contratto sia remunerativo (quanto meno rispettoso dell’equilibrio economico che la parte privata ha delineato in sede di offerta) sino ad una certa data e poi non lo sia più, per il solo passare del tempo. Né la normativa di settore (il citato comma 7) contiene previsioni di segno opposto. Formalmente manca una qualsiasi specifica disposizione in ordine al canone, nondimeno si deve osservare come la previsione che impone al concessionario di proseguire “nella gestione del servizio fino al nuovo affidamento”, senza dare ulteriori indicazioni paia evidenziare la volontà del legislatore di non mutare le previsioni contrattuali esistenti. Si noti, a contrariis, che laddove la legge ha ritenuto d’intervenire nel rapporto convenzionale lo ha fatto espressamente, ad esempio prescrivendo che l’attività proseguisse solo per l’ordinaria amministrazione. In proposito non si può trarre da tale limitazione di attività uno spunto idoneo a giustificare il mancato pagamento del canone. Infatti deve escludersi che, in forza di questa, automaticamente vengano modificati in senso peggiorativo i parametri dell’attività esercitata[6]. In realtà a rilevare è il verificarsi di eventi che mutino i suddetti parametri, che possono essere ascrivibili alla riduzione del perimetro operativo così come ad altre cause. In tale caso le condizioni economiche del rapporto potranno/dovranno essere modificate[7] ma esclusivamente nella misura necessaria a ristabilire l’equilibrio economico finanziario.

2.2. Dunque può affermarsi che la richiesta di modificare le condizioni del rapporto debba trovare spazio, potendo però essere accolta non in modo acritico e generalizzato, bensì alla luce di concrete modifiche e nei limiti da queste giustificate. Di conseguenza non paiono fondate nemmeno le pretese di vedere rideterminato il canone in base a parametri astratti, come ad esempio applicando le regole dettate per le future gare[8].

 

III. Ulteriori elementi utili all’inquadramento della fattispecie.

3.1. Una volta definito il quadro normativo nei suoi elementi essenziali si ritiene utile evidenziare ulteriori elementi idonei a confermare le conclusioni raggiunte.

3.2. Si consenta anzitutto di partire da un’osservazione di carattere operativo: il canone è, nella gran parte dei casi, determinato in misura percentuale su quanto incassato dal concessionario[9], quindi un’eventuale diminuzione degli incassi si ripercuoterebbe proprio sul canone stesso, realizzandosi in tal modo un primo meccanismo ammortizzatorio, che riduce (per quanto non escluda) l’impatto delle eventuali modifiche sull’equilibrio.

3.3. Deve altresì tenersi conto del fatto che la continuazione del rapporto oltre i limiti del suo formale scadere, non costituiva un evento imprevedibile al momento della stipula della convezione, infatti tale eventualità era espressamente prevista dalla citata art. 14 del Decreto Letta (anche se è doveroso riconoscere che - all’epoca della stipula delle convenzioni - appariva arduo immaginare una diluzione così ampia). Né appare rilevante ai fini della definizione della materia la, pur dibattuta, questione se a proseguire sia il servizio oppure il rapporto contrattuale. Il dibattito nasce dalla pretesa di escludere l’obbligo di pagare il canone sul presupposto che a proseguire sia il (solo) servizio con la conseguente inapplicabilità della regolazione contrattuale. In realtà l’inquadramento nell’una o nell’altra fattispecie appare privo di rilevanza concreta: infatti i due concetti non sono tra loro alternativi, ma complementari, rappresentando le due facce della stessa medaglia. Il servizio è l’attività effettivamente svolta, mentre il contratto è il supporto giuridico su cui si basa la prestazione del primo: quindi, laddove il legislatore ha fatto riferimento al primo è stato per indicare la continuazione dell’attività (che oltretutto rappresenta l’aspetto di maggior rilevo sotto il profilo economico e sociale), ma non ha certo voluto escludere che i rapporti tra le parti non dovessero essere regolati da un contratto. D’altro canto il servizio (concetto materiale) deve essere svolto sulla base di determinate regole (concetto giuridico) che, in mancanza d’indicazioni in senso contrario, non possono che essere quelle originarie. E qui si torna ai concetti già espressi sopra.

3.4. Infine a conferma della fondatezza di quanto sin qui osservato si richiamano i chiarimenti dell’AEEGSI (ora ARERA - Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente)[10] e del Mise (Ministero per lo Sviluppo Economico)[11] che hanno statuito (prima dell’emanazione della norma interpretativa) la debenza del canone anche successivamente alla scadenza del contratto.

 

IV. La decisione della Corte Costituzionale.

4.1. Possiamo, in conclusione, ritenere che la debenza del canone si possa fondare sul quadro normativo originario, nondimeno la norma di interpretazione autentica ha finito con l’eliminare ogni dubbio residuo. In conseguenza è divenuto fondamentale verificare la tenuta di tale disposizione a fronte delle numerose censure a cui è stata assoggettata, ed è a questo punto che viene in considerazione la sentenza della Corte Costituzionale oggetto del presente scritto.

4.2. Come già accennato sopra, nell’ambito delle numerose controversie instaurate al fine di definire la questione in oggetto, i gestori hanno contestato l’illegittimità della norma in relazione alla violazione di diversi articoli della Carta Costituzionale, nonché di disposizioni comunitarie. I giudici di merito hanno sempre escluso la presenza di elementi tali da far considerare fondate le questioni poste, e dunque la Corte Costituzionale non è mai stata investita della questione, né si è verificata la disapplicazione della norma per contrarietà al diritto comunitario.

4.3. Di diverso avviso è stato però il Collegio arbitrale presso la Camera arbitrale dell’Autorità nazionale anticorruzione che ha ritenuto di rimettere alla Corte Costituzionale due (tra le varie) questioni poste alla sua attenzione. La prima fa riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., in relazione ai principi di ragionevolezza e di certezza del diritto e del legittimo affidamento, poiché introdurrebbe una imprevedibile proroga sine die per lo svolgimento del servizio di distribuzione del gas naturale, con un’estensione pressoché illimitata delle condizioni originarie previste nella convenzione. La seconda evidenzia la violazione dell’art. 97 Cost. in riferimento al principio di buon andamento dell’amministrazione, infatti lamenta che la norma porterebbe all’inerzia degli enti locali nel bandire le gare con un duplice illegittimo effetto: da un lato imporrebbe a carico del gestore uscente l’onere di continuare il servizio a condizioni diverse da quelle contrattualmente assunte, e dall’altro avrebbe una ricaduta negativa sugli operatori economici che attendono l’indizione delle nuove procedure di gara.

4.4. Posto che l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni ed ai parametri indicati nell’ordinanza di rimessione, la Corte era chiamata ad esprimersi esclusivamente in ordine a tali profili, e non già a tutti quelli sollevati dal gestore. Nondimeno la Corte non ha avuto modo di decidere in ordine agli stessi, infatti ha dichiarato inammissibili le questioni così poste, sul presupposto che l’ordinanza di rimessione, non ha ricostruito in modo dettagliato il quadro normativo in materia. In particolare non ha preso in considerazione gli strumenti legislativi atti a rimediare all’inerzia della pubblica amministrazione, né ha tenuto conto della possibilità di applicare gli istituti posti a presidio dell’equilibrio contrattuale nelle concessioni.

Ad avviso della Corte il rimettente, prima di dichiarare la non manifesta infondatezza delle censure, avrebbe dovuto valutare e analizzare l’intero quadro normativo con particolare riferimento ai rimedi previsti dall’ordinamento e solo dopo averli ritenuti inadeguati a superati i dubbi di legittimità espressi, avrebbe potuto rimettere la questione avanti alla Corte Costituzionale.

 

V. La necessità di considerare i rimedi previsti dall’ordinamento.

5.1. Anche se la sentenza della Consulta si è limitata ad assumere una decisione formalmente di rito, non vi è dubbio che nel motivare la decisione abbia affrontato anche questioni di merito, tanto da poter essere definita come una pronuncia di inammissibilità a carattere decisorio. Infatti non si è limitata ad evidenziare il mancato esame di alcune disposizioni di legge ma ha provveduto ad analizzarle e ad indicarne la ricaduta nel complessivo esame in ordine alla legittimità della norma posta al suo vaglio. Per inquadrare quanto indicato in sentenza deve partirsi dal rilevo che l’illegittimità costituzionale o la contrarietà alla disciplina comunitaria di una norma debbano essere valutate (anche) considerando il dettato normativo in modo sistematico, valutando se la regolazione complessiva contenga dei correttivi alle previsioni contenute nella disciplina specifica. In buona sostanza l’illegittimità non si esplicita laddove il sistema preveda dei rimedi a fronte di situazioni potenzialmente lesive, innescate dalla norma censurata. Le criticità devono infatti essere valutate in relazione alle situazioni concrete che si vanno a definire e non già in rapporto ad un’astratta previsione normativa. In una parola, la valutazione va riferita al “sistema normativo” considerato nel suo insieme. Un esempio chiarisce meglio il ragionamento qui sviluppato. Nel caso in esame si assiste alla contestazione della illegittimità di una norma sul presupposto che, imponendo l’obbligo di pagare il canone nella fase di proroga, vincolerebbe l’operatore ad un rapporto potenzialmente antieconomico, così limitandone la libertà d’iniziativa. È d’altra parte evidente che laddove l’attività si rivelasse remunerativa nessuna lesione si potrebbe configurare in ordine alla prosecuzione del rapporto. Quindi a rilevare non è tanto lo svolgimento di un’attività per un dato periodo di tempo, bensì la portata economica della stessa. In conseguenza, nel momento in cui l’ordinamento annoveri delle disposizioni che consentano il riequilibrio economico del rapporto, l’(astratta) imposizione del pagamento del canone nella misura originaria perde ogni carattere di lesività. Infatti le (eventuali) conseguenze negative sarebbero ascrivibili alla condotta del soggetto interessato che non ricorre agli strumenti che l’ordinamento gli mette a disposizione al fine di ristabilire un corretto rapporto, e non già all’illegittimità della disposizione normativa.

 

VI. La revisione dell’equilibrio economico finanziario.

6.1. La Corte ha evidenziato che il differimento delle gare ha effettivamente portato a una dilatazione della fase di gestione ope legis del servizio, facendo emergere diverse problematiche tra le quali ha occupato un posto di rilevo il contenzioso legato all’obbligo di corresponsione del canone originario. La stessa ha però invitato a considerare gli strumenti messi a disposizione dell’ordinamento per porre rimedio ad eventuali distorsioni, il primo dei quali è dato dalla revisione dell’equilibrio economico finanziario.

Ricorda infatti la Corte che le concessioni per la distribuzione del gas rientrano tra le concessioni di servizi[12], e che il comma 6 dell’art. 165 del D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 - dopo aver previsto che debba essere salvaguardato l’equilibrio economico finanziario - statuisce che al verificarsi di fatti non riconducibili al concessionario incidenti sull’anzidetto equilibrio, si possa/debba procedere a ristabilirne le condizioni[13]. Si osservi al riguardo che norme dello stesso tenore erano previste dalla normativa che in precedenza regolava i contratti pubblici, quindi il principio ora esposto si applica anche ai rapporti più datati, che sono la maggioranza tra quelli oggetto delle controversie qui considerate [14]. In conseguenza la Corte osserva che laddove la proroga del rapporto venisse a minare il suddetto equilibrio[15] le parti potranno ricostituirlo. Così evidenziando la capacità del sistema di superare le problematiche eventualmente conseguenti all’obbligo del pagamento del canone una volta scaduto il termine convenzionale di durata.

In buona sostanza, qualora tali problemi si sostanzino in una gestione in perdita, questa può essere superata proprio con la revisione dell’equilibrio economico finanziario della concessione: in tal modo la norma che impone il pagamento del canone è scevra di conseguenze negative.

6.2. Risulta poi interessante portare l’attenzione su un particolare aspetto. La sentenza evidenzia infatti come il concessionario - a fronte del sopravvenuto squilibrio contrattuale - possa ottenere la revisione del piano. Tale potestà pare possa essere letta nel senso che, in caso di mancata o negativa risposta dell’amministrazione, tale pretesa possa anche essere fatta valere nelle competenti sedi giurisdizionali, così statuendo la tutela in via giurisdizionale del diritto al riequilibrio.   Questo rilievo permette di superare un dubbio avanzato in ordine all’applicabilità dell’istituto del riequilibrio alle concessioni di distribuzione del gas. L’eccezione parte dal rilievo che - stante l’obbligo fissato al comma 7 dell’art. 14 del D. Lgs. n. 164/2000, di continuare l’attività di distribuzione sino al subentro del nuovo concessionario - le parti non potrebbero ricorrere al rimedio di cui al comma 6 dell’art. 165 del D.lgs. n. 50/2016, in base al quale, in caso di mancato accordo sulle modalità per ristabilire il riequilibrio del piano economico finanziario, le parti possono recedere dal contratto. Da qui la pretesa inapplicabilità del riequilibrio alle concessioni di distribuzione, alla luce dell’impossibilità di ricorrere al recesso. Orbene la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria rimarcata dalla Corte individua la soluzione al potenziale contrasto normativo attribuendo ai giudici il potere di definire la questione, individuando le condizioni di ripristino dell’equilibrio. In tal modo i diritti dei contraenti non saranno tutelati dal recesso ma dal proseguimento del rapporto alle condizioni stabilite dall’autorità giurisdizionale. Per inciso si osservi che, in tal modo, si impediscono condotte non rispettose della buona fede e della correttezza contrattuale, quali il recesso non basato su obbiettive condizioni economiche ma ascrivibile ad una scelta unilaterale di uno dei contraenti.

6.3. Osserva infine la sentenza della Corte, in linea con quanto evidenziato dalla giurisprudenza di merito, che il gestore può anche esperire i rimedi civilistici previsti dall’ordinamento.

 

VII. La possibilità di ricorre all’autorità giudiziaria a fronte dell’inerzia.

7.1. La sentenza invita poi a considerare un ulteriore strumento che l’ordinamento attribuisce ai gestori per reagire all’eccessiva lunghezza della proroga.

Anzitutto lo stesso DM 226/2011 del 12.11.2011 individua delle misure volte a dare impulso alle procedure di gara.

L’art. 3 prevede infatti, nel caso in cui non vengano rispettati i termini previsti dalla legge per dare inizio alle attività di gara[16], che vi sia l’intervento suppletivo della Regione territorialmente competente. In particolare è disposto che, scaduti tali termini, la Regione assegni ulteriori 6 mesi per adempiere, decorsi i quali avvia la procedura di gara attraverso la nomina di un commissario ad acta. Decorsi due mesi dalla scadenza di tale termine senza che la Regione competente abbia proceduto in tal senso, il Ministero dello Sviluppo economico, sentita la Regione, interviene per dare avvio alla gara nominando a sua volta un commissario ad acta[17].

7.2. Quindi si palesa un articolato sistema volto ad ottenere il rispetto dei termini coinvolgendo la responsabilità di diversi soggetti. Nondimeno, laddove nessuno di questi agisca nei termini, il concessionario può farsi parte attiva ai sensi dell’art. 31 del Codice del processo amministrativo secondo il quale: decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere. Anche in questo caso il concessionario, anziché lamentarsi dell’illegittimità di una norma, può fare ricorso agli strumenti messigli a disposizione dell’ordinamento.

 

VIII. La definizione dell’attuale quadro.  

8.1. Può osservarsi che le argomentazioni sviluppate dalla Corte hanno una portata che travalica lo specifico procedimento ed appaiono utili a meglio definire (confermando tra l’altro l’orientamento dei giudici di merito) gran parte delle questioni di legittimità poste nei giudizi nel tempo intercorsi[18]. Nell’ambito di questi le censure sono state avanzate sia in relazione alla costituzionalità delle norme[19] sia al rispetto del diritto comunitario[20].  Vale a questo punto passare in rapida rassegna le censure avanzate.

8.2. Anzitutto sono stati evidenziati diversi profili d’illegittimità che si sostanziano nella violazione dei principi costituzionali: della certezza del diritto, del legittimo affidamento, del libero esercizio delle libertà economiche, della proporzionalità e della ragionevolezza, alla luce della circostanza che la disposizione censurata va ad incidere (anche) su situazioni pregresse, quali i contratti stipulati all’esito delle gare.

In realtà nessun dubbio può ragionevolmente porsi in relazione alla necessità del rispetto di tali principi, nondimeno va evidenziato che la loro violazione può configurarsi solo laddove l’intervento legislativo costringesse l’operatore a svolgere attività con modalità incompatibili con la ragionevole gestione aziendale, in altri termini in perdita. Ebbene non sembra essere il caso della norma contestata. Questa dispone la prosecuzione del rapporto alle medesime condizioni fissate dell’operatore al momento in cui ha partecipato alla gara, circostanza che - in linea generale - appare idonea a garantire una continuità economica. Questa conclusione può essere superata laddove nella fase successiva alla scadenza fossero mutate le condizioni economiche; nondimeno a fronte di questa eventualità non si può che richiamare il rimedio costituito dal riequilibrio del quadro economico finanziario, tra l’altro richiamato dalla Sentenza della Corte Costituzionale, che in tal modo pone un suggello all’orientamento già espresso dai giudici di merito.

8.3. Il medesimo ragionamento può essere riferito alle lamentate violazioni del diritto comunitario.

8.4. Una ulteriore contestazione riguarda la circostanza che la norma interpretativa attribuirebbe alla disposizione elementi ad essa estranei, non assegnandole un ragionevole significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario e così integrando una regolazione sostanziale retroattiva.

In primo luogo deve osservarsi che l’eventuale applicazione retroattiva sarebbe da considerarsi comunque legittima alla luce di quanto appena sopra evidenziato. Ciò detto si osserva che in realtà, come visto, l’art. 14 c.7 del D. Lgs. n. 164/2000 si limita a prevedere la prosecuzione del servizio di distribuzione del gas da parte del gestore uscente, senza indicare a quali condizioni ciò debba avvenire, venendo così ad integrare un silenzio normativo che ha generato l’emersione di diversi orientamenti interpretativi di cui si è detto nelle pagine che precedono.  Ciò significa che si è venuta a creare la tipica situazione di “incertezza giuridica” avanti alla quale il legislatore poteva astenersi lasciando alla funzione giurisdizionale la definizione della questione oppure poteva intervenire con una norma d’interpretazione autentica, che tra l’altro nel caso di specie corrisponde all’orientamento via via consolidatosi. Ed è ciò che ha fatto nel caso di specie, nel rispetto di quanto dettato dalla Corte Costituzionale, secondo la quale l’interpretazione autentica opera non solo in caso di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di un contrasto giurisprudenziale, ma anche quando la scelta imposta dalle leggi rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore[21].

8.5. Un ulteriore profilo d’illegittimità è stato paventato nella circostanza che la prosecuzione ad libitum dei contratti di concessione scaduti renderebbe lettera morta l’obbligo di affidamento mediante gara del servizio, con ciò violando sia la normativa comunitaria in materia di concorrenza sia il principio della buona amministrazione.

A fronte di questa argomentazione deve osservarsi che la previsione in esame non inferisce in alcun modo sulla tempistica delle gare (che rimane fissata da una diversa normativa)[22], ma si limita a regolare uno specifico aspetto del rapporto: il pagamento del canone - che nulla ha a che vedere con la durata delle gestioni attuali. Deve poi osservarsi che la prosecuzione ex lege del rapporto è disposta dall’art. 14 comma 7, tra l’altro non oggetto di censura. Ne può affermarsi che la previsione in esame sia costituzionalmente illegittima in quanto costituisca un incentivo a non indire le gare al fine di continuare a fruire del canone. Infatti anche laddove questa fosse la causa delle lungaggini[23] si tratterebbe comunque di un aspetto riguardante l’esercizio dell’attività amministrativa che, evidentemente, non è di certo oggetto di giudizio di legittimità costituzionale.  Contro una condotta ritenuta inerte sarebbe sufficiente l’esperimento dell’azione di cui all’art 31 del Codice del processo amministrativo richiamata nella decisione in oggetto. Non vi è dubbio che i tempi di indizione delle gare si stanno dilatando in modo abnorme ed il problema dovrà essere risolto a breve, ma lo strumento non è la dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma in esame.

 

 

Avv. Sergio Cesare Cereda partner dello Studio legale Radice&Cereda di Milano (via San Simpliciano n. 5).

 

 

 



[1] Con ordinanza iscritta al n. 105 del registro ordinanze 2020.

[2] Dopo che all’inizio vi sono state alcune sentenze in senso contrario.

[3] Si vedano, tra le altre, la sentenza Corte Appello di Milano n. 1973 del 2018; la sentenza Tribunale di Bergamo n. 452 del 2017; la sentenza Tribunale di Milano n. 11803 del 2017; la sentenza Tribunale di Milano n. 12109 del 2017; la sentenza Corte d’Appello di Milano n. 4570/2015; la sentenza Corte d’Appello di Milano n. 2695/2019; la sentenza della Corte d’Appello di Brescia n. 878 del 28.8.2020; la sentenza del Tribunale di Mantova n. 987 del 24.10.2017.

[4] Principio chiaramente reso dalla citata sentenza della Corte d’Appello di Brescia n. 878 del 28.8.2020, secondo la quale:  Perché con ogni evidenza se l’oggetto del contratto-concessione è l’affidamento in gestione del servizio di distribuzione del gas nell’ambito territoriale assegnato, la prosecuzione temporanea della gestione del servizio fino a nuovo affidamento null’altro può significare, già sul piano letterale, se non la continuazione del rapporto contrattuale in essere, salve le eccezioni espressamente previste, che appunto tale gestione ha come oggetto”.

[5] Principio esplicitato dalla sentenza del Tribunale di Mantova n. 987 del 24.10.2017 secondo la quale: “neppure sotto il profilo dell’equilibrio del sinallagma contrattuale pare convincente la tesi sostenuta la parte attrice: in primo luogo, infatti, se il concessionario si vedesse autorizzato a non corrispondere la tariffa prevista in contratto, non si vede perché l’utenza dovrebbe essere costretta al pagamento della medesima tariffa pattuita originariamente, senza trarre anch’essa beneficio da tale sgravio contributivo”.

 

                                                                                                                                 

[6] A ben vedere può addirittura ritenersi che l’esclusione dell’amministrazione straordinaria pare essere stata assunta al fine di tutelare i concessionari evitando agli stessi di compiere interventi di straordinaria amministrazione nelle ultime fasi del rapporto così assumendosi i relativi oneri finanziari.                     

[7] Come si vedrà secondo la sentenza qui commentata sia in forza alla disciplina pubblicistica che regola il mantenimento dell’equilibrio economico finanziario sia in base alla disciplina civilistica.

[8] Diverse richieste sono state avanzate in tal senso.

[9] VRD o VRT a seconda del periodo (VRD per gli anni precedenti alla riforma tariffaria introdotta dalla Delibera ARERA 159/08 per il Terzo periodo di regolazione, VRT per gli anni successivi).

[10] Con comunicato del 19 maggio 2016 con cui l’Autorità ribadito e confermato con il comunicato del 4.8.2016.

[11] Con nota del 4.8.2016.

[12] Definite dall’art. 3, comma 1, lettera vv), del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50.

[13] Ciò attraverso una revisione delle condizioni tecnico-economiche, pur sempre preservando la permanenza del rischio in capo all’operatore economico.                                                                                                                                          

[14] Al momento è appunto regolata dal comma 6 del richiamato articolo 165 che riprende quanto già previsto dall’art. 19, comma 2-bis, della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e dall’art. 143, comma 8, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.

[15] Anche alla luce della circostanza che l’attività operativa è limitata all’ordinaria amministrazione.

 

[16] L’allegato 1 al DM prevede dei termini dividendo i vari ambiti per scaglioni e dispone l’intervento supplettivo una volta decorsi da essi 7 mesi senza che sia stata individuata la stazione appaltante (ovviamente laddove non sia presente il comune capoluogo) o siano decorsi 15 0 18 mesi (rispettivamente a seconda che sia presente o meno il comune capoluogo) senza che sia stata bandita la gara.

[17] Ciò a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 3, comma 2 ter del D.L. 30-12-2015 n. 210 così come convertito dalla L. n. 21 del 25.02.2016.

[18] Nelle righe che seguono saranno prese in considerazione quelle censure più ricorrenti.                         

[19] è stata contestata la violazione degli artt. 3, 41, 42, 97 e 117 co.1.

[20] Ad esempio è stato eccepito nel giudizio a quo il contrasto della disposizione impugnata con le norme poste a tutela della libertà d’impresa dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 (artt. 49, 56 e 106) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (artt. 16 e 17), oltre che dagli artt. 41 e 42 Cost., nonché la lesione dei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, garantiti, sia dal diritto europeo – in particolare in virtù dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.

 

[21] Cfr. ex multis Corte Cost. n. 15/2012; in senso conforme Corte Cost. n. 271/2011.

[22] A dimostrazione della pluralità delle possibili soluzioni si consideri che una “sanzione” era originariamente prevista (dall’art. 4 comma 5 del D.L. 69/2013) e colpiva il canone (questa volta futuro, cioè relativo alle indicente gare d’ambito) che sarebbe stato destinato (in un ammontare pari al 20 %) alla riduzione delle tariffe di distribuzione vigenti nel relativo ambito, nel caso del mancato rispetto dei termini fissati per bandire le gare. Quindi uno strumento velocizzatore esisteva e la buona azione amministrativa era così presidiata.

Un successivo intervento del legislatore (art. 3, comma 2 ter, lett. b) del D.L. 210/2015) ha eliminato tali misure.

[23] Circostanza tutt’altro che certo posto che la gran parte dei comuni parte degli ambiti ottimale non godono di rilevanti canoni e quindi le stazioni appaltanti non dovrebbero essere spinte in questa direzione.

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