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CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 AGOSTO 2005, N. 4408
Contratti della P.A. – Informative prefettizie antimafia – Tentativo di infiltrazione mafiosa – prova – Discrezionalità della stazione appaltante.
La recente sentenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 29 agosto 2005, n. 4408) con cui la giurisprudenza amministrativa riafferma il rigoroso orientamento in materia di informative prefettizie relative a tentativi di “infiltrazione mafiosa” (sancendone anche la sostanziale vincolatività per le stazioni appaltanti) offre lo spunto per alcune brevi considerazioni.
1. IL QUADRO NORMATIVO.
L’art. 4 del Dlgs. 8 agosto 1994, n. 490 (“Disposizioni attuative della legge 7 gennaio 1994 n. 47”) dispone che le “pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico” prima di stipulare, approvare o autorizzare contratti e subcontratti, o prima di rilasciare o consentire concessioni o erogazioni, devono acquisire presso il Prefetto competente: (i) sia le informazioni riguardanti la sussistenza delle cause di divieto, di sospensione e di decadenza di cui all’art. 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (richiamate all’Allegato 1 del Dlgs. n. 490/94); (ii) sia le informazioni “relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”.
Qualora, comma 6, dalle informazioni apprese emergano elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa, non possono essere stipulati, approvati o autorizzati contratti o subcontratti né autorizzate, rilasciate o consentite concessioni o erogazioni.
Analoghe disposizioni sono contenute nell’art. 10 del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle certificazioni e delle informazioni antimafia) che così recita: “1. […] le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici e gli altri soggetti di cui all'articolo 1, devono acquisire le informazioni di cui al comma 2 del presente articolo, prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti, ovvero prima di rilasciare o consentire le concessioni o erogazioni indicati nell'articolo 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575, il cui valore sia: a) pari o superiore a quello determinato dalla legge in attuazione delle direttive comunitarie in materia di opere e lavori pubblici, servizi pubblici e pubbliche forniture, indipendentemente dai casi di esclusione ivi indicati;
b) superiore a 300 milioni di lire per le concessioni di acque pubbliche o di beni demaniali per lo svolgimento di attività imprenditoriali, ovvero per la concessione di contributi, finanziamenti e agevolazioni su mutuo o altre erogazioni dello stesso tipo per lo svolgimento di attività imprenditoriali; c) superiore a 300 milioni di lire per l'autorizzazione di subcontratti, cessioni o cottimi, concernenti la realizzazione di opere o lavori pubblici o la prestazione di servizi o forniture pubbliche. 2. Quando, a seguito delle verifiche disposte dal prefetto, emergono elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate, le amministrazioni cui sono fornite le relative informazioni, non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni. […] 7. Ai fini di cui al comma 2 le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte: a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli articoli 629, 644, 648-bis, e 648-ter del codice penale, o dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale;
b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli articoli 2- bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater della legge 31 maggio 1965, n. 575;
c) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell'interno, ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia”.
La richiamata normativa antimafia configura, dunque, un complesso procedimento sanzionatorio (ad effetti negoziali cautelari e non penali) finalizzato al contrasto dell'attività criminosa di stampo mafioso e, in particolare, della sua possibile ingerenza negli appalti pubblici.
Tale procedimento si caratterizza per il fatto che la valutazione delle informazioni (e la presupposta attività di acquisizione) sono rimesse esclusivamente al Prefetto. Tali informazioni, come detto, hanno un duplice oggetto: da un lato, le cause già di per sé interdittive all'attività negoziale; dall’altro, i tentativi di infiltrazione mafiosa. Mentre le prime non pongono particolari problemi applicativi, avendo natura ricognitiva di provvedimenti giurisdizionali irrogativi di pene o misure di sicurezza; i secondi appaiono di maggiore difficoltà interpretativa, presupponendo la oggettiva identificazione di nozioni dal contenuto indeterminato quali sono quelle di “tentativo”, “infiltrazione”, “condizionamento”.
Pur non essendo questa la sede di approfondimenti esulanti il diritto amministrativo, appare, tuttavia, opportuno rilevare come le predette definizioni si ricolleghino, a ben guardare, alla pregressa normativa penale (legge 12 ottobre 1982, n. 726, art. 1, quarto comma; legge 19 marzo 1990, n. 55, artt. 15, quinto comma, e 16; legge 7 agosto 1992, n. 356, art. 24), con cui il legislatore, recependo una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, ha inteso tipizzare il fenomeno mafioso come “disvalore” principalmente economico e finanziario che deve pertanto essere contrastato attraverso strumenti idonei a privare le organizzazioni, operanti secondo il c.d. “metodo di tipo mafioso”, della possibilità di permeare della loro presenza le attività imprenditoriali operanti sul territorio (emblematica in tal senso la lettera dell’art. 416 bis c.p. che definisce l’associazione di tipo mafioso come finalizzata, innanzitutto, ad “acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti, e servizi pubblici […]”).
In questo contesto, pregno di concetti direttamente tratti dalla realtà socio-economica e tendenti a tipizzare le ipotesi di contaminazione mafiosa più diffuse, la legislazione antimafia, per così dire, “amministrativa”, si caratterizza per l’intento di attuare una prevenzione cautelare “a monte” imperniata sull’acquisizione di informazioni che vengono valutate secondo un tipico giudizio discrezionale di tipo prognostico, avvicinabile in qualche modo (sotto il profilo della loro funzione) alle misure di sicurezza, intese come mezzo di tutela preventiva contro le cause del reato.
Per la loro stessa configurazione normativa, dunque, le informative prefettizie sui “tentativi” finiscono per assumere, sul piano sanzionatorio, una funzione spiccatamente anticipatoria ed indiziaria.
Ciò rende il meccanismo delineato dal legislatore di problematica compatibilità con i principi di uno Stato di diritto, poiché, nella sostanza, pur con tutte le cautele discendenti dai principi generali dell’ordinamento, il Prefetto appare legittimato a contrastare la criminalità di tipo mafioso attraverso strumenti di accertamento forse troppo ampi per gli angusti spazi di verifica della legittimità dell'azione amministrativa riservati al giudice amministrativo (che, è bene ricordare, “officia” un rito ben differente da quello penale).
Invero, la Corte costituzionale ha reiteratamente affermato che la legislazione in esame (sia quella di tipo penale che quella amministrativa), tutela beni di primaria importanza, minacciati dall'infiltrazione della criminalità di stampo mafioso negli apparati pubblici. Le misure cautelari eccezionali tendono infatti a salvaguardare il buon andamento, la trasparenza e l'efficienza delle Pubbliche Amministrazioni, l'ordine, la sicurezza e la libera determinazione degli organi elettivi (Corte cost., sent. n. 141 del 23.4.1996; n. 118 del 31.3.1994; n. 197 del 27.4.1993; n. 407 del 27.10.1992). Significativamente, quando la Corte ha “colpito” singole disposizioni della normativa de qua (come l'art. 15, primo comma, lett. a) legge n. 55 del 1990: sent n. 141 del 23.4.1996, cit.), ha preso le mosse dalla comparazione con principi inviolabili - come quello di elettorato – tra i quali non rientra l'iniziativa economica privata, che, come noto, non può svolgersi in modo contrario alla sicurezza, libertà e dignità umana (art. 41, secondo comma, Cost.).
2. LA RECENTE PRASSI GIURISPRUDENZIALE IN ORDINE ALLA SUSSISTENZA DEL TENTATIVO DI INFILTRAZIONE MAFIOSA.
Nella cornice del suesposto quadro normativo, si inserisce la recente pronuncia del Consiglio di Stato.
I giudici di Palazzo Spada confermano come, in ipotesi diaccertamenti disposti ex art. 10, co. 7°, lett. c), del D.P.R. n. 252/98 (cioè disposti “anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell'Interno, ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia”), il Prefetto “non deve basarsi su specifici elementi (come avviene per gli accertamenti effettuati ai sensi delle lett. a) e b) [basati, come visto, su provvedimenti tipici che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli articoli 629, 644, 648-bis, e 648-ter del codice penale, o dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale; proposta o provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli articoli 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater della legge 31 maggio 1965, n. 575, ndr]) ma effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni”.
In particolare, si prosegue, l’ampiezza dei poteri di accertamento, giustificata dalla finalità del provvedimento, giustifica, a sua volta, che il Prefetto “possa ravvisare l’emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell’assoluta certezza – quali una condanna non irrevocabile, collegamenti parentali con soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti – ma che, nel loro coacervo, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per la presenza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni camorristiche”.
L’indirizzo affermato si colloca coerentemente nel solco rigoristico di recente tracciato anche da Cons. di Stato, Sez. IV, 30 maggio 2005, n. 2796, secondo cui la valutazione del Prefetto circa situazioni di infiltrazione mafiosa, per la sua natura preventiva, “non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di elementi in base ai quali non sia logico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento dell’impresa con organizzazioni mafiose e di un condizionamento dell’impresa da parte di queste”; nonché da Tar Lazio, Sez. I ter, 13 gennaio 2005, n. 854, che, innovando circa la natura dell’attività prefettizia, descrive la stessa piuttosto che come discrezionale, come “tendenzialmente vincolata, dovendosi il Prefetto limitare ad una verifica della serietà e congruenza degli elementi allegati ed indicativi della possibilità che vengano perpetrati tentativi di infiltrazione di associazioni criminose in strutture imprenditoriali private”, poiché ciò che il Prefetto è chiamato a verificare è che “alla stregua di elementi congrui e attendibili, si evidenzi una possibilità, un pericolo di condizionamento; non che esista un effettivo condizionamento”.
Di contro, il tentativo di porre un argine applicativo ai poteri prefettizi si segnala in Tar Campania, Sez. I, Napoli, 14.1.2005, n. 126, secondo cui “l’esercizio del potere interdittivo in questione – capace di effetti assai incisivi sulla stessa sopravvivenza economica del soggetto imprenditoriale che ne viene interessato – esige approfonditi e attenti accertamenti istruttori – che devono coerentemente riflettersi in una appagante motivazione sui presupposti della scelta amministrativa – atti a evidenziare fatti, accadimenti, condotte, anche non penalmente rilevanti, ma significativi nel loro insieme, della esposizione oggettiva dell’impresa a quei tentativi di condizionamento mafioso che costituiscono il presupposto dell’esercizio del potere”; nonché , meno di recente, in Tar Calabria, Reggio Calabria, 12.1.2001, n. 21, in base al quale, per salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto, non possono ritenersi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale con le predette associazioni, che devono invece essere accertate attraverso una specifica istruttoria e dimostrate “attraverso una congrua motivazione che dia contezza dei presupposti di fatto che devono essere logici, rigorosi e non contraddittori. Ciò anche al fine di garantire il diritto di difesa da parte dei soggetti interessati, nonché il sindacato del giudice amministrativo sulla congruità, fondatezza e rilevanza degli elementi addotti a sostegno degli affermati tentativi di infiltrazione mafiosa, nel rispetto dei principi di trasparenza e di correttezza dell’azione amministrativa”.
3. LA RECENTE PRASSI GIURISPRUDENZIALE IN ORDINE ALL’OBBLIGO (O FACOLTÀ) DELLA STAZIONE APPALTANTE DI CONFORMARSI AL CONTENUTO DELL’INFORMATIVA PREFETTIZIA.
La decisione in esame riafferma, inoltre, l’obbligo (e non la facoltà) per la stazione appaltante di conformarsi al contenuto della informativa prefettizia.
L’articolo 11 del citato D.P.R. 252/98, concernente i “Termini per il rilascio delle informazioni”, stabilisce, al comma 2, che “Decorso il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione della richiesta, ovvero, nei casi d'urgenza, anche immediatamente dopo la richiesta, le amministrazioni procedono anche in assenza delle informazioni del prefetto. In tale caso, i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui al comma 1 sono corrisposti sotto condizione risolutiva e l'amministrazione interessata può revocare le autorizzazioni e le concessioni o recedere dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. Infine, il comma 3 chiarisce che: “Le facoltà di revoca e di recesso di cui al comma 2 si applicano anche quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto, alla concessione dei lavori o all'autorizzazione del subcontratto”.
La lettera della disposizione sembra implicare che, in caso di informazioni del Prefetto che sopravvengano alla stipula del contratto di appalto, la legge non conferisce alla stazione appaltante un dovere incondizionato di revoca (o recesso) dallo stesso, quanto un “potere discrezionale” (Tar Campania, Napoli, Sez. I, 25.2.2004, n. 5368).
La disposizione, “del cui significato letterale occorre pur sempre tenere conto” (Tar Campania, Napoli, Sez. I, 24.3.2004, n. 6720), sembra trovare fondamento nella volontà del legislatore di voler scongiurare una automatica applicazione da parte della stazione appaltante del provvedimento del Prefetto, lasciando alla medesima la possibilità di valutare in concreto la convenienza e/o l’opportunità di portare a termine il contratto.
L’interpretazione giurisprudenziale, anche a tale riguardo, è tuttavia assai drastica.
Secondo quest’ultima pronuncia del Consiglio di Stato, infatti, resta esclusa “la possibilità della stazione appaltante di sindacare sul contenuto dell’informativa prefettizia, limitandone l’oggetto a una valutazione di convenienza in relazione al tempo dell’esecuzione del contratto ed alla difficoltà di trovare un nuovo contraente se la causa di decadenza sopravviene ad esecuzione ampiamente inoltrata”.
Il Consiglio di Stato, pertanto, recepisce il principio elaborato dalla prevalente giurisprudenza di primo grado, secondo cui l'unico margine di discrezionalità della stazione appaltante destinataria dell'informazione può rinvenirsi nella valutazione della “convenienza per l'amministrazione e nell'opportunità per l'interesse pubblico della prosecuzione del rapporto contrattuale già in corso di svolgimento”.
Tale valutazione può tuttavia rinvenire un suo spazio possibile solo allorchè il rapporto contrattuale sia “in corso di esecuzione già da un cospicuo lasso di tempo e sussistano concrete ragioni che rendano del tutto sconveniente per l'amministrazione l'interruzione della fornitura, del servizio o dei lavori che formano l'oggetto del contratto revocando”.
Infatti, solo stringenti ragioni di interesse pubblico a non interrompere un servizio essenziale, difficilmente rimpiazzabile in tempi rapidi, o a completare un'opera in corso di ultimazione, potrebbero “giustificare il sacrificio del prevalente (di regola) interesse pubblico alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica che presiede ai poteri interdittivi antimafia”; con la conseguenza che la motivazione dovrà essere “ampia a supporto della determinazione di proseguire il rapporto in funzione dell'esistenza di dette circostanze, ma non per l'opposto caso in cui, in assenza di queste ultime, non via siano ragioni per vanificare la portata dell'informazione interdittiva” (Tar Campania, Napoli, Sez. I, 13 gennaio 2005, n. 574; Id., 16.2.2005, n. 2478). |