HomeSentenzeArticoliLegislazionePrivacyRicercaChi siamo
Nota alla ordinanza della Corte di Cassazione, SS.UU., 27.5.2009 n. 12252.
di Adriana Caroselli 7 luglio 2009
 

1. Con l’ordinanza in epigrafe, risolutiva di tre regolamenti preventivi di giurisdizione, la Corte di Cassazione prende posizione sulla natura dell’affidamento a terzi dei servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico, che possono essere istituiti negli istituti e nei luoghi di cultura ai sensi dell’art.117 d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), già denominati “servizi aggiuntivi” ed ora rubricati “servizi per il pubblico” (1) .

La pronuncia è importante (oltre che per la rivisitazione dell’orientamento sulla notificazione del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione), essenzialmente, per due ragioni.

In primo luogo, viene fatta chiarezza sulla qualificazione giuridica del rapporto che intercorre tra ente affidante e soggetto affidatario della gestione dei servizi in parola,  da tempo oggetto di contrastanti teorie, sia in dottrina che in giurisprudenza.

L’occasione, inoltre, consente alla Suprema Corte di fare il punto sulla questione, di ben più ampio respiro, relativa alla distinzione tra appalto di servizi e concessione di servizi, ma anche sulla definizione di servizio pubblico.

La fattispecie, infine, vertendo su un affidamento integrato di servizi aggiuntivi, in quanto comprensivo anche del servizio di biglietteria, consente alla Corte di chiarire quale sia il criterio da applicarsi  nella determinazione della giurisdizione in tali ipotesi.

2. Chiamata a pronunciarsi sulla spettanza della giurisdizione del giudice amministrativo, adito in primo grado, la Cassazione affronta, pertanto, il problema della natura giuridica dell’affidamento a terzi dei servizi culturali aggiuntivi.

Il chiarimento si rende necessario in quanto dalla qualificazione in termini di appalto di servizi, ovvero, di concessione di servizi, consegue il riconoscimento, rispettivamente, della giurisdizione del giudice ordinario o del giudice amministrativo.

Il dubbio sulla definizione del rapporto era stato alimentato anche dalla circostanza che il cd. decreto Ronchey (d.l. 433/1992, conv. con l. 4/1993), pur qualificando l’affidamento come concessione di servizi, richiamava, poi, quanto alla procedura per l’individuazione del terzo, la disciplina attuativa delle norme comunitarie in tema di appalti pubblici di servizi.

In proposito, la Corte chiarisce da subito che non bisogna confondere le regole che disciplinano il procedimento di scelta del contraente con quelle di qualificazione dell’oggetto e della natura del contratto.

L’utilizzo del termine “contratto”, riferito genericamente alla fattispecie dell’appalto, così come a quella della concessione, lascia, in qualche modo, intendere quale sarà l’iter motivazionale che il giudice seguirà nella risoluzione della questione sottoposta ad esame. L’art.1 della direttiva n. 2004/18/CE, infatti, nel definire e distinguere l’appalto di servizi, rispetto alla concessione di servizi, qualifica entrambe le figure quali contratti a titolo oneroso.

Per individuare a quale dei due istituti giuridici sia riconducibile l’affidamento a terzi dei servizi aggiuntivi la Cassazione adotta un’interpretazione in chiave funzionale.

Si osserva che, “nella loro essenzialità”, i servizi aggiuntivi costituiscono un completamento di una delle funzioni sottese ai servizi culturali caratterizzati da un rapporto di coessenzialità con una res (2), vale a dire, quella della fruizione (3).

Attraverso i servizi aggiuntivi le amministrazioni titolari dei beni culturali, infatti, consentono agli utenti di fruire meglio ed in modo più compiuto di detti beni, erogando un servizio non diverso da quello dell’istruzione, affermazione questa che, a dire il vero, se calza appieno per i servizi di assistenza culturale (quali i servizi editoriali, di guida,  di assistenza didattica, ma anche di organizzazione di mostre e manifestazioni), pare adattarsi meno per quelli di ospitalità per il pubblico (si pensi ai servizi di guardaroba, di caffetteria, di ristorazione, o all’intrattenimento e all’assistenza per l’infanzia).

In un altro passo della sentenza si legge, poi, che i servizi aggiuntivi sono espressione anche dell’attività di valorizzazione dei beni culturali, ai sensi degli artt.111 e 112 d.lgs. 42/2004.

In definitiva, secondo la Suprema Corte, i servizi aggiuntivi sono finalizzati ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica dei beni culturali.

Pertanto, è anche per il loro tramite che le amministrazioni promuovono la conoscenza del  patrimonio culturale.

3.   Quanto alla natura dell’affidamento a terzi dei servizi aggiuntivi, la Corte, confutando le diverse teorie seguitesi nel tempo in materia (che hanno inquadrato la vicenda, ora, come appalto di servizi, ora come concessione di beni pubblici, ora, come concessione di servizi), giunge ad affermare la necessità di adottare una lettura del rapporto che sia conforme ai principi e alla normativa comunitaria.

L’affermazione è rilevante e indicativa dell’intenzione della Corte di tracciare una linea interpretativa che non dia adito a dubbi.

Ai sensi dell’ art.1 della direttiva n. 2004/18/CE, come rilevato, l’appalto pubblico di servizi e la concessione di servizi sono contratti a titolo oneroso che vengono sottoscritti tra un’amministrazione aggiudicatrice ed un operatore economico.

In termini civilistici, diremmo che le due figure contrattuali si distinguono quanto al tipo di sinallagma; in effetti, mentre nell’appalto di servizi l’operatore economico effettua la prestazione, di solito a favore dell’amministrazione contraente, dalla quale ottiene il relativo compenso, la concessione di servizi si caratterizza per il fatto che “il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo” (4).

Inoltre, nella concessione di pubblici servizi l’operatore economico si sostituisce all’amministrazione, “contrattando direttamente con l’utente e facendosi dallo stesso pagare un prezzo”, circostanza per cui egli  è, di solito, tenuto a pagare alla p.a. un canone.

Richiamando la posizione espressa dalla Commissione europea, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e di parte della giurisprudenza amministrativa nazionale, la Suprema Corte prende posizione ed afferma che l’appalto di servizi si distingue dalla concessione di servizi essenzialmente per tre elementi: perché riguarda, di regola, servizi resi alla pubblica amministrazione, non comporta il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione e, infine, non determina l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario.

Tra i tre elementi una rilevanza particolare – sembra affermare la Corte - va riconosciuta all’assunzione del rischio di gestione, essendo chiaro che “se l’amministrazione non paga alcun prezzo, deve escludersi che possa configurarsi un appalto di servizi ai sensi del diritto comunitario” (5).

La rilevanza riconosciuta al criterio della remunerazione è degna di nota, se non altro perché, si ricorda, alla luce di detto criterio, recentemente, anche il giudice comunitario è giunto a qualificare le convenzioni sottoscritte per  l’utilizzo dei rifiuti come appalti di servizi e non concessioni di servizio pubblico (6).

Infine, la concessione si distingue dall’appalto – afferma la Corte – per la diversità di relazioni giuridiche tra la pa. ed il concessionario.

Nel fare la precisazione la Corte sembra, in qualche modo, voler individuare una posizione interpretativa che sia conforme, sì, al diritto comunitario, ma che non disconosca la tradizione giuridica nazionale.

Le concessioni – si legge nella sentenza – si distinguono dai contratti di diritto privato (anche se stipulati a seguito dell’esperimento di una procedura di evidenza pubblica) anche per il fatto che, al pari degli accordi di diritto pubblico in generale, permangono in capo all’amministrazione potestà pubblicistiche che si estrinsecano in provvedimenti e ciò indipendentemente da ogni previsione patrizia.

4.  Ora, tornando al caso concreto, risulta che l’amministrazione concedente non corrisponde alcun prezzo al privato, il quale, anzi, versa alla prima un canone per aver ottenuto la gestione di un servizio a favore dei visitatori/utenti, dal quale ottiene un reddito.

Secondo la Corte, la situazione descritta corrisponde allo schema comunitario della concessione di servizi.

Tale conclusione non consente, però, di risolvere “il diverso problema” – si legge nella sentenza - se la concessione di servizi sia  anche concessione di servizi pubblici.

Il quesito ha poco o nulla a che fare con il diritto comunitario, ma è strumentale per la risoluzione della questione sottoposta all’esame del giudice, cioè, l’individuazione della giurisdizione in materia.

Infatti, qualora il rapporto attenga ad una concessione di un servizio pubblico, dovrà riconoscersi la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art.3 d.lgs. 80/1998, come modificato in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n.204/2004, diversamente, la giurisdizione apparterrà al giudice ordinario.

Nel valutare se i servizi aggiuntivi siano servizi pubblici,  la Cassazione elenca una serie di requisiti ritenuti (da sempre) identificativi della categoria: l’imputabilità e la titolarità del servizio in capo alla p.a. imposta ex lege , la destinazione del servizio alla soddisfazione di esigenze della collettività, la predisposizione, da parte della p.a., di un programma di gestione del servizio, il mantenimento in capo alla p.a. di poteri affinché venga assicurato che il gestore eroghi il servizio all’utenza nel rispetto del programma definito.

Ebbene, poiché l’insieme di tali elementi risultano presenti nell’affidamento per cui è causa, questo deve essere qualificato come concessione di servizio pubblico.

Peraltro, tale conclusione non è suscettibile di essere smentita dalla circostanza che i servizi aggiuntivi mancherebbero del requisito della “doverosità”, in quanto è ormai chiaro che il servizio rimane pubblico anche se la legge lascia all’ente la decisione se e quando istituirlo.

5.  C’è, infine, un ultimo aspetto che va evidenziato ed è quello relativo all’individuazione della giurisdizione nei casi di affidamenti integrati, vale a dire di affidamenti aventi ad oggetto, sia concessioni di servizi pubblici, che appalti di servizi.

Secondo la Corte, il principio della ragionevole durata del processo letto in combinazione con  l’articolo 24 Cost. “impone all’interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo”.

Nel risolvere le questioni che attengono alla giurisdizione dovrà essere individuata una soluzione che sia dettata, non solo da esigenze logico-concettuali , ma anche, e soprattutto, dall’impatto operativo che avrà sulla durata del processo.

Alla luce del principio di concentrazione delle tutele, dovrà, pertanto, riconoscersi la giurisdizione anche su tutte le pretese accessorie alla domanda principale, originate dalla medesima situazione dedotta in giudizio.

6. Come rilevato, la sentenza contiene molte affermazioni rilevanti.

Tra queste degna di nota è la direzione interpretativa che la Suprema Corte ha voluto tracciare con riferimento alla differenza tra appalto e concessione, ulteriore segno del primato del diritto comunitario sul diritto nazionale.

Il punto solleva alcune riflessioni che esulano dal caso specifico.

Nel Libro Verde sui servizi di interesse generale (7) la Commissione europea afferma di non aver voluto utilizzare l’espressione “servizio pubblico” perché questa, a causa delle diverse (e mutevoli) concezioni accolte negli ordinamenti nazionali, genera confusione.

            In realtà, ai fini del diritto comunitario, si desume dalle maglie del ragionamento della Commissione, non è importante giungere a qualificare l’esistenza o meno di una categoria astratta di attività.

Ciò che rileva è la necessità che, in alcuni momenti e situazioni contingenti, sia assicurato, a tutti gli aventi diritto, l’accesso indiscriminato a determinate prestazioni che contribuiscono, in fondo, ad assicurare e dare consistenza al principio di uguaglianza sostanziale.

Rileva, inoltre, che le limitazioni ai principi formatori della Comunità, in primis, al principio di concorrenzialità, avvengano, come dire, seguendo le linee direttrici tracciate dal legislatore comunitario stesso.

Fa riflettere la circostanza che, ancora una volta, si renda necessario individuare una serie di elementi, di indici, che siano rivelatori, invece, della presenza o meno di un’attività qualificabile, di per sé, come servizio pubblico.

Ancora di più, si constata la necessità di un intervento risolutivo della Suprema Corte per affermare la doverosità di adottare un’interpretazione della fattispecie, e degli istituti giuridici in generale, che sia orientata al diritto comunitario.

 

Note:

(1) Cfr. articolo 2, comma 1, lettera zzz) del D.Lgs. 26 marzo 2008, n. 62.

(2) In materia, M.Ainis e M.Fiorillo, I beni culturali, in S.Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo secondo, Milano, 2003. Sia consentito richiamare, altresì, A.Caroselli, La gestione dei servizi culturali, in Giornale di diritto amministrativo, 5/2005. In generale, cfr., S.Cassese, I beni culturali da Bottati a Spadolini, in L’Amministrazione dello Stato, Milano, 1976.

(3) Cfr. in proposito, L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in  Riv. trim. dir. pubb., n. 3/2001.

(4) Sulla distinzione tra appalto e concessione cfr., su questa rivista, C. Tessarolo, Appalti, concessioni di servizi e art. 23-bis, 13 gennaio 2009.

(5) In proposito, l’art. 30 d.lgs. 163/2006  precisa che la gara per la scelta del concessionario può prevedere la corresponsione anche di un prezzo, solo ricorrendo due ipotesi: quando al concessionario venga imposto di praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e dell'ordinario utile di impresa, ovvero qualora sia necessario assicurare al privato il perseguimento dell'equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio da prestare.

(6) Corte di Giustizia europea, 18 luglio 2007, C-328/05, Commissione/Italia. Sul punto, cfr., ancora, C.Tessarolo, Appalti, concessioni di servizi e art. 23-bis, cit..

(7) Commissione europea, 21/5/2003 n. COM(2003) 270. Si legge nel Libro Verde che :” Le espressioni “servizio di interesse generale” e “servizio di interesse economico generale” non devono essere confuse con il termine “servizio pubblico”. Quest’ultimo ha contorni meno netti: può avere significati diversi, ingenerando quindi confusione. In alcuni casi, si riferisce al fatto che un servizio è offerto alla collettività, in altri che ad un servizio è stato attribuito un ruolo specifico nell’interesse pubblico e in altri ancora si riferisce alla proprietà o allo status dell’ente che presta il servizio”.

Sentenza: Corte di Cassazione, SS.UU., 27/5/2009 n. 12252
L'affidamento a terzi dei "servizi aggiuntivi" da svolgersi presso luoghi di interesse culturale ed artistico deve essere qualificato come concessione di servizio pubblico.
 Nota alla ordinanza della Corte di Cassazione, SS.UU., 27.5.2009 n. 12252. di Adriana Caroselli

HomeSentenzeArticoliLegislazioneLinksRicercaScrivici