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Breve commento alla sentenza del TAR Lazio n. 195/2004
1. Nella sentenza in commento il TAR Lazio, riprendendo le conclusioni cui, di recente, è pervenuta la V sezione del Consiglio di Stato, nella sentenza dell’11/2/2003, n. 708 e nella sentenza del 13/6/2003, n. 3346, ha affermato che la revoca degli amministratori di una società a partecipazione pubblica locale è atto di natura “paritetica”, onde le controversie relative alla sua legittimità ricadono nella giurisdizione del G.O., non già in quella del giudice amministrativo.
In particolare, nella sentenza n. 3346/2003 cit., i giudici di palazzo Spada sono giunti a riconoscere al provvedimento di revoca degli amministratori, adottato dall’ente locale nell’esercizio dei poteri di natura societaria ad essi attribuiti dallo statuto sociale, carattere di atto privatistico, escludendone, per tale ragione, la riconducibilità al novero delle controversie relative alla gestione dei servizi pubblici, nonché la sua ascrivibilità alla categoria degli atti amministrativi implicanti l’esercizio di pubblici poteri.
Invero, il fatto che, in tal caso, l’attribuzione del potere di nomina e, quindi, di revoca, degli amministratori sia attribuito agli enti pubblici soci di una società di capitali dal combinato disposto dell’art. 2458 c.c. e della relativa previsione dello statuto sociale, in deroga al regime generale (secondo cui detto potere compete alla assemblea ex comb. disp. artt. 2364 e 2383 c.c.), ben si giustifica in virtù “della peculiarità di quella tipologia di soci che, per le implicazioni pubblicistiche della loro partecipazione, postulano un regime differenziato in tema di selezione dei membri dell’organo gestorio. Ne consegue che la facoltà in oggetto deve intendersi attribuita agli enti pubblici nella loro qualità di soci, risolvendosi nell’esercizio diretto di un potere altrimenti riservato all’assemblea (pure formata dai soci), e non nella loro veste di pubbliche amministrazioni, il cui solo carattere soggettivo di organismi preposti alla cura dell’interesse pubblico resta del tutto irrilevante ai fini della configurazione normativa delle modalità di esercizio dei diritti del socio (quando questo sia anche un ente pubblico)”.
A riprova del fatto che il potere in concreto esercitato dal ente locale non sia espressione di un pubblico potere, il Consiglio di Stato muove dall’ulteriore rilievo che “mentre quest’ultimo postula la sua diretta derivazione da una disposizione legislativa, la facoltà di nomina degli amministratori non risulta costituita in capo agli enti pubblici direttamente dall’art. 2458 c.c. (che contempla la sola possibilità che tale potestà venga attribuita a quel tipo di soci in sede statutaria) ma dalla conforme (e libera) determinazione costitutiva della società.
La genesi pattizia e convenzionale del potere nella specie esercitato impone, in definitiva, di negare qualsiasi suo carattere pubblicistico ed impedisce, al contempo, di ravvisare nella relativa determinazione gli estremi della cura dell’interesse generale, che esigono la diretta finalizzazione del provvedimento al perseguimento di un bisogno pubblico”.
Invero, laddove l’attività posta in essere dal soggetto privato non sia destinata in via immediata a soddisfare esigenze della collettività, la stessa non può essere qualificata come attività di gestione di un pubblico servizio, non potendo essere definita tale “ogni attività privata soggetta a controllo, vigilanza o a mera autorizzazione da parte di un’amministrazione pubblica, perché, così inteso, il servizio pubblico finirebbe per coincidere con ogni attività privata rilevante per il diritto amministrativo; (...) donde la conseguenza che la giurisdizione esclusiva ex art. 33, lett. f) del d.l.vo n. 80 del 1998 è limitata alle controversie inerenti al fatto in sé dell’erogazione del servizio (...) al pubblico, non anche alle attività che consentono l’erogazione stessa e che, quindi, rivestono soltanto rilievo strumentale ed interno” (Cass. SS. UU., 3 agosto 2000, n. 532).
E’ evidente, allora, che, in tale materia, può riconoscersi carattere di provvedimento amministrativo ai soli provvedimenti relativi alla gestione del servizio pubblico o alle attività direttamente connesse al suo espletamento, in quanto destinati ad incidere immediatamente ed autoritativamente sul rapporto tra l’ente locale e il soggetto gestore.
La nomina degli amministratori di una società a partecipazione pubblica locale, così come la loro revoca, pertanto, riferendosi a “rapporti funzionali all’espletamento del servizio pubblico”, ha “rilevanza meramente interna o anche valenza presupposta e condizionante rispetto all’erogazione della prestazione finale in favore della collettività”, tal ché detto atto risulta privo della necessaria preordinazione alla realizzazione dell’interesse pubblico, che ne giustificherebbe l’inquadramento fra i provvedimenti amministrativi.
2. Peraltro, merita ricordare che, con sentenza del 15/7/1982, n. 4139 (in Quaderni servizi pubblici locali, “Le società di servizi pubblici” di C. Tessarolo, pp. 139 e ss.), la Cassazione ha affermato che “essendo la revoca degli amministratori, nel caso in esame, di spettanza dell’ente pubblico (...) ed avendo natura di atto amministrativo discrezionale, non può con riferimento alla natura del medesimo, farsi applicazione dell’art. 2383 c.c., in quanto la giusta causa ivi considerata va valutata con riguardo ai fini privatistici perseguiti dalla società privata, mentre la revoca disposta con atto amministrativo trova fondamento in interessi pubblicistici che superano quelli della società e che sono insindacabili dal giudice ordinario: la valutazione della giusta causa da parte del medesimo costituirebbe un sindacato di un’attività discrezionale della pubblica amministrazione.
Indubbiamente, l’interessato non è privo di tutela dei suoi interessi eventualmente lesi dall’atto di revoca, ma tale lesione deve far valere in sede amministrativa trattandosi di atto amministrativo.”
Pertanto, laddove la revoca degli amministratori è atto proveniente dall’ente pubblico, cui è riconosciuto ex lege il potere di adottarlo nel perseguimento dei fini pubblici ad esso attribuiti, e, come tale, non riferibile alla società, che deve limitarsi a riconoscerne gli effetti, l’art. 2383 c.c. non può trovare applicazione, mancando il presupposto necessario e indefettibile al suo operare, vale a dire l’esistenza di una delibera assembleare di revoca.
Né, secondo la Suprema Corte, vale osservare, in senso contrario, che, a causa della loro partecipazione azionaria, gli enti di gestione sarebbero assoggettati “ai soli strumenti di natura privatistica per l’accettazione da parte loro dei fini di lucro.”
Ciò in quanto, “le partecipazioni azionarie dello Stato, e degli enti pubblici, particolarmente quando totali, non sono dovute semplicemente ed esclusivamente ai fini di lucro, potendo anche altri scopi di interesse generale influire sulla valutazione e scelta, né vi sono distinzioni legislative specifiche secondo i fini perseguiti, onde il richiamo allo scopo della partecipazione non ha alcuna rilevanza.”
Partendo da tali premesse, la Corte conclude che “in virtù della rilevata inapplicabilità della citata norma dell’art. 2383 c.c. per la revoca degli amministratori da parte degli enti pubblici il relativo atto amministrativo risulta emesso entro i limiti di un potere conferito alla pubblica amministrazione, mentre ogni suo vizio inerente all’esercizio discrezionale (...) esula dalla giurisdizione del giudice ordinario.”
Seguendo un criterio interpretativo analogo a quello suindicato, le sezioni unite della Suprema Corte hanno affermato che “la controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’atto con il quale è stato annullato o revocato il provvedimento di nomina di un componente del consiglio di amministrazione di un ente pubblico, anche economico, o comunque è stata dichiarata la decadenza dalla carica del medesimo, attenendo a una posizione di interesse legittimo collegantesi al potere discrezionale di scelta delle persone cui affidare il perseguimento degli scopi dell’ente, appartiene alla cognizione del giudice amministrativo nell’esercizio della giurisdizione generale di legittimità” (Cass. SS.UU., 22/12/1999, n. 929). |