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CORTE DI CASSAZIONE
Sezione Prima
omissis
1. Il signor CATALDO TORTORELLA, obbligato in solido con il Consorzio Funeral Center, proponeva, davanti al Giudice di Pace di Bari, opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione del Dirigente dell’ufficio Ripartizione e Patrimonio del COMUNE DI BARI, conseguente a un verbale di accertamento nel quale si poneva in rilievo il trasporto di una salma senza l’autorizzazione amministrativa rilasciata dal Sindaco. Il giudice accoglieva l’opposizione e annullava l’ordinanza ingiunzione. Secondo la sentenza de qua, premesso che l’art. 64, comma 2, della legge n. 142 del 1990 aveva abrogato tutte le disposizioni con essa incompatibili e che l’art. 22 della stessa legge prevedeva l’esclusiva del servizio solo <in presenza di una disposizione legislativa>, quest’ultima non sarebbe rinvenibile nell’art. 1, n. 8. del R.D. n. 2578 del 1925 (contenente il T.U. della legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle Province), che rinvia ad un livello amministrativo (comunale) e cioè ad un provvedimento amministrativo. Tale ultima previsione dovrebbe considerarsi tacitamente abrogata, per incompatibilità, così che il Regolamento di esercizio in economia del Servizio dei Trasporti Funebri, approvato dal Comune di Bari con la delibera (del Consiglio Comunale) n. 154 del 17 novembre 1952 (e modificata con la successiva delibera n. 62 del 30 gennaio 1979) non potrebbe considerarsi operante, in quanto fondata su previsioni normative non più in vigore.
2. Contro tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Comune di Bari, articolato su di un unico motivo. L’intimato non ha svolto difese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo di ricorso (con il quale si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 112 D. Lgs. n. 267 del 2000 - già art. 22, comma 2, L. n. 142 del 1990 -, dell’art. 1, n. 8, R.D. n. 2578 del 1925, dell’art. 19 del d.p.R. n. 285 del 1990, art. 64, comma 2 L. n. 142 del 1990 e 15 delle Preleggi al cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. e illogica, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.) il Comune premette che l’attività dell’AMAF, disciplinata dal Regolamento di esercizio in economia del Servizio dei Trasporti Funebri, approvato dal Comune Di Bari con la delibera del Consiglio Comunale n. 154 del 17 novembre 1952 (e modificata con la successiva delibera n. 62 del 30 gennaio 1979), mira a calmierare i prezzi delle onoranze funebri e stroncare ogni forma di speculazione privata. Essa si sostanzia, fra l’altro, nel diritto di privativa al trasporto delle salme dal luogo di decesso al Cimitero cittadino ovvero e - senza il diritto di privativa - nel trasporto delle salme, o altri servizi collegati, da e per altri Comuni, in base a tariffe preventivamente stabilite.
Il regolamento de quo troverebbe la sua fonte normativa nell’art. 19 del d.P.R. n. 295 del 1990 che, a sua volta, si fonderebbe, sull’art. 1, n. 8, R.D. n. 2578 del 1925 (contenente - come si è già detto - il T.U. della legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle Province), nella parte in cui demanda l’assunzione in privativa del servizio di trasporto funebre alla decisione dell’autorità amministrativa.
Tale ultima previsione normativa non sarebbe affatto abrogata poiché difetterebbe proprio l’incompatibilità evidente con le disposizioni richiamate nella sentenza del Giudice di Pace. Infatti, perché una tale incompatibilità si produca, occorre che siano in contrasto due discipline conformative degli stessi rapporti giuridici, in successione tra di loro.
L’art. 22, comma, 2, della legge n. 142 cit., nel rinviare ad altra legge l’individuazione dei casi in cui i Comuni e le Province possono istituire il servizio pubblico in regime di privativa, sarebbe coerente con la previsione contenuta nell’art. 1, n. 9, del T.U. sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni, di cui al R.D. n. 2578 del 1925. Tale complesso di norme stabilirebbe, fino al sopraggiungere di una disciplina positiva legislativa espressamente abrogativa dell’art. 1, n. 8, del T.U. cit., che non sarebbero possibili ulteriori privative, ad eccezione di quelle già stabilite nel R.D. del 1925. Insomma, il T.U. del 1925 si porrebbe nell’ambito delle fonti della materia come una sorta di regolamento esecutivo della previsione contenuta nell’art. 19 del d.P.R. n. 285 del 1990.
La dottrina avrebbe attribuito valenza programmatica e transitoria a una legge di riordino dei servizi pubblici locali, atteso che tale art. 22 della legge n. 142 del 1990 e quello che lo ha sostituito (l’art. 112 d. Lgs. n. 267 del 2000) non conterrebbero una disciplina positiva o una elencazione sostitutiva di quella stabilita nel T.U. n. 2578 del 1925, suscettibile di dare concretezza amministrativa immediatamente precettiva.
2. Il ricorso dell’Amministrazione, insomma, mira a dare un fondamento legislativo sicuro al regolamento comunale (nella specie: il Regolamento di esercizio in economia del Servizio dei Trasporti Funebri del Comune di Bari) e, quindi, piena legittimità alle sanzioni amministrative irrogate dal Dirigente dell’ufficio Ripartizione e Patrimonio del Comune, sulla base della verificata sua inosservanza da parte dell’impresa di trasporti funebri intimata.
Ma, come si dirà appresso, esso è infondato e deve essere respinto.
2.1. In via preliminare va sgombrato il campo dall’idea che la conclusione raggiunta dal giudice di merito, in ordine all’avvenuta abrogazione dell’art. 1 del T.U. del 1925, sia erronea perché la natura compilativa di quel corpo normativo (pure contenente la <legge> sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle Province), celerebbe, in realtà, una fonte primaria costituita dalla fusione o armonizzazione di due leggi sostanziali: da un lato, l’art. 3 della legge 29 marzo 1903, n. 103 (Legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni) e, dall’altro, l’art. 1 del Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 3047 (Riforma della legge 29 marzo 1903, n. 103, per l’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni), emanato - però- in virtù della delegazione di poteri conferita al Governo con la legge 3 dicembre 1922, n. 1601».
Tale corretta osservazione, tuttavia, non ha efficacia dirimente in ordine al caso esaminato, posto che esso raggiunge quella (criticata) conclusione attraverso altro e diverso passaggio logico argomentativo.
Infatti, l’abrogazione della disposizione in esame (l’art. 1 del T.U. del 1925) sarebbe stata raggiunta per incompatibilità con gli artt. 22 e 64 della legge n. 142 del 1990, non per la diversa forza normativa recata dalle due fonti.
L’art. 1 del T.U., infatti, è incompatibile con quelle nuove disposizioni perché esso rimette all’amministrazione comunale (o provinciale) la scelta pienamente discrezionale, sull’assunzione della privativa, così creando - attraverso un provvedimento attributivo a sé medesimo di una esclusiva - un monopolio in sede locale, in base a una scelta di natura amministrativa e non ad una opzione espressiva di una univoca volontà legislativa. E, poiché l’art. 22 della legge del 1990 pretende espressamente che i servizi riservati in via esclusiva ai comuni e alle province siano «stabiliti dalla legge», ne discende il palesarsi di un contrasto tra il nuovo assetto dei servizi pubblici locali e quello anteriore alla Costituzione e ai Trattati comunitari.
Tale conclusione, invero, era stata già raggiunta, concordemente, sia dalla giurisprudenza amministrativa (da alcuni Tar, in particolare, cui ha poi dato seguito il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza 9 dicembre 2004, n. 7899) sia dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, con la segnalazione/parere del 2-14 luglio 1998 (pubblicata sul Bollettino n. 27 del 1998)
Essa deve essere ribadita anche in questa sede, senza che per questo risulti un contrasto con altra e precedente decisione di questa Corte (SS.UU., sent. n.. 5244 del 1994) che ebbe a stabilire le modalità di riparto della giurisdizione quando le comunità montane, agendo «in sostituzione dei comuni che le sostituiscono, affidano a privati (in forza di quanto disposto, in generale, dall’art. 26 del R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578 e dall’art. 22 della legge 8 giugno 1990 n. 142) il servizio di smaltimento dei rifiuti urbani - definito di interesse pubblico dall’art. 1 del d. P. R. 10 settembre 1982, n. 915, che ne prevede l’obbligatorio espletamento da parte dei Comuni, i quali lo esercitano con diritto di privativa, nelle forme di cui all’art. 8 dello stesso decreto, ossia direttamente o mediante aziende municipalizzate ovvero mediante concessioni ad enti o imprese specializzate, autorizzate dalla Regione». Nello stabilire la sussistenza della giurisdizione amministrativa, per l’esistenza di un rapporto di concessione amministrativa, le Sezioni Unite sembrano dare per scontata la sopravvivenza dell’art. 1 del T.U. atteso che considerano come ancora operativo l’art. 26 dello stesso corpo normativo (già art. 27 della legge n. 103 del 1903), il quale prevede che <i comuni, che intendano concedere all’industria privata qualcuno dei servizi indicati all’art. 1, debbono sempre nel relativo contratto di concessione riserbarsi la facoltà del riscatto».
In realtà, tale problema - nella cennata sentenza -, da un lato, non forma affatto oggetto di esplicita questione, ma solo di punto pregiudiziale rispetto alla decisione di cui le Sezioni Unite erano investite, e che quindi non ha elaborato, al riguardo, alcun principio; dall’altro, considerato la figura del servizio di smaltimento dei rifiuti urbani, il quale ha formato oggetto di un successivo intervento legislativo (il D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22) che, all’art. 56 ha abrogato il testo previdente [ndr. precedente] (quello oggetto di considerazione da parte delle SS.UU.) e all’art. 21 ha nuovamente disciplinato le competenze dei comuni, anche attraverso la conferma espressa (entro precisi limiti) della privativa che, con il comma 1, ha disposto che tali enti territoriali <effettuano la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento in regime di privativa nelle forme di cui alla legge 8 giugno 1990, n. 142>.
In conclusione, la privativa per il servizio di smaltimento dei rifiuti urbani da parte dei comuni è stata mantenuta (anche se diversamente disciplinata); quella sui trasporti funerari, no.
2.2. L’art. 22 della legge del 1990 è la disposizione applicabile al caso in esame ratione temporis, e solo di essa ci si dovrà espressamente occupare in questa sede.
Essa, però, è stata sostituita dall’art. 112 d. Lgs. n. 267 del 2000, che si esprime in termini pressoché identici alla precedente, anche attraverso la riproduzione (al comma 2) della stessa enunciazione linguistica in questa sede rilevante («i servizi riservati in via esclusiva ai comuni e alle province sono stabiliti dalla legge») che, in un secondo tempo (ed è la norma oggi in vigore), è stata abrogata, in parte qua, ad opera dell’art. 35, comma 12, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Legge finanziaria per l’anno 2002).
Il significato di tale abrogazione non rileva direttamente in questa sede, poiché riguarda mi periodo temporale successivo a quello in cui vennero accertati i fatti oggetto dell’ordinanza-ingiunzione di cui all’odierna controversia, anche se va rilevato - allo scopo di compiere una interpretazione complessiva della diacronia normativa - che la giurisprudenza amministrativa (ancora alcuni Tar, seguiti dal Consiglio di Stato, sez. V, sent. 9 dicembre 2004, n. 7899) hanno concluso il loro percorso interpretativo sostenendo che l’art. 35 della legge del 2001 «è una norma di ampia liberalizzazione, del settore e, dunque, si mostra frutto di un evidente travisamento ermeneutico l’idea che proprio essa tuttora contribuisca a giustificare la permanenza in vita della privativa oggetto del contendere» (così il Consiglio di Stato).
2.3. Tale conclusione non appare arbitraria ma, anzi, in armonia non tanto e non solo con le posizioni dell’Autorità Garante, quanto con il recente arresto della Corte costituzionale n. 272 del 2004.
Quest’ultima nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di varie disposizioni normative strettamente connesse con le disposizioni in esame [l’art. 14, comma 1, lettera e), e comma 2, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326; l’art. 113, comma 7, limitatamente al secondo ed al terzo periodo, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), nel testo sostituito dall’art. 35, comma 1, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2002); l’art. 113-bis dello stesso decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nel testo introdotto dal comma 15 dell’art. 35 della citata legge n. 448 del 2001] ha enunciato un complesso di principi che hanno serie ricadute anche in questa sede.
Secondo la Consulta la disciplina della gestione dei servizi pubblici locali non è «riferibile né alla competenza legislativa statale in tema di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117, secondo comma, lettera in), della Costituzione), giacché riguarda precipuamente servizi di rilevanza economica e comunque non attiene alla determinazione di livelli essenziali, né a quella in tema di “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane’ (art. 117, secondo comma, lettera p), giacché la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale». Essa, invece, «in relazione ai riferimenti testuali e soprattutto ai caratteri funzionali e strutturali della regolazione prevista, può essere agevolmente ricondotta nell’ambito della materia “tutela della concorrenza”, riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato».
E’ stata così fatta giustizia dell’opposta interpretazione, sostenuta in quella sede dalla Regione, e secondo la quale «il regime in oggetto, incidendo su situazioni di non concorrenzialità del mercato per la presenza di diffuse condizioni di monopolio naturale e riguardando interventi propriamente di ‘promozione’ e non già di ‘tutela” della concorrenza, sarebbe estraneo, in quanto tale, all’ambito della potestà legislativa esclusiva dello Stato e pertinente invece alla competenza regionale in tema di servizi pubblici locali».
Invece, secondo l’interpretazione della Consulta, «la tutela della concorrenza “non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali” (sentenza n. 14 del 2004)».
In conclusione, nonostante l’esistenza di una pluralità di altri interessi — alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle Regioni - connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese, la «tutela della concorrenza» è materia - funzione, riservata alla competenza esclusiva dello Stato che richiede l’uso del criterio di proporzionalità-adeguatezza al fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se essa legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato.
Perciò la Consulta ha escluso la censurabilità di «tutte quelle norme impugnate che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la più ampia libertà di concorrenza nell’ambito di rapporti - come quelli relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei servizi - i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono più meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali».
Essa ha altresì attenuato che la «tutela della concorrenza e l’inderogabilità della disciplina da parte di norme regionali sono però esplicitamente evocate in riferimento ai soli servizi pubblici locali attualmente classificati come “di rilevanza economica”, di cui all’art. 113, e non già in riferimento ai servizi “privi di rilevanza economica” previsti dall’art. 113-bis. La nuova denominazione di questi servizi, adottata in conformità a tendenze emerse in sede di Commissione europea a decorrere dal settembre 2000, già di per sé può indicare che il titolo di legittimazione per gli interventi del legislatore statale costituito dalla tutela della concorrenza non è applicabile a questo tipo di servizi, proprio perché in riferimento ad essi non esiste un mercato concorrenziale».
2.4. Alla luce dei principi elaborati dalla Corte costituzionale va stabilito se i servizi di trasporto funebre siano ascrivibili al novero dei servizi pubblici locali, classificati come “di rilevanza economica”, ovvero ai servizi “privi di rilevanza economica”, previsti dall’art.113-bis decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
La risposta data dall’autorità Garante e quella fornita dalla giurisprudenza amministrativa, secondo la quale tali trasporti rientrano pienamente nell’ambito della materia della concorrenza, è pienamente condivisibile, atteso che la liberalizzazione del trasporto, con il venir meno della fissazione amministrativa delle tariffe del servizio, salve le autorizzazioni concernenti l’accertamento dell’idoneità sanitaria degli automezzi impiegati (ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. n. 285 del 1990), non incidono sui marginali aspetti della disciplina sanitaria ma solo sulle modalità di accesso al servizio, contribuendo a renderlo economicamente meno pesante, in via tendenziale, proprio per la postulata competizione tra una pluralità di imprese esistenti nei mercati locali.
2.5. Né ostacolo a tale interpretazione può essere fornito dall’art. 19 d.P.R. n. 285 del 1990, contenente il regolamento statale di polizia mortuaria, in esecuzione del T.U. delle leggi sanitarie, approvato con il R. D. 27 luglio 1934, n. 1265.
Infatti, tale disposizione, sebbene posteriore alla legge n. 142 del 1990, attiene ai profili sanitari, e non già ad un intervento restrittivo della concorrenza, atteso che - come ha affermato dalla [ndr. la] Consulta nella citata sentenza del 2004 - la materia dei servizi pubblici locali coinvolge certamente una pluralità di altri interessi, connessi allo sviluppo economico-produttivo, e di competenza regionale, ma non per questo le consente di porsi al di fuori di quella della “tutela della concorrenza”, riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
In particolare, i profili sanitari - per quanto sussistenti e regolati da apposite autorizzazioni - non comportano la reviviscenza di un diritto di privativa che, si & visto, risulta ormai definitivamente abbandonato, in misura pressoché costante e tendenziale dalla discipline legislative succedutesi nel tempo, a partire dal 1990.
A tal proposito, dunque, più che di inefficacia sopravvenuta o di inapplicabilità di questa disposizione (così, il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza 9 dicembre 2004, n. 7899), della stessa va data una lettura costituzionalmente adeguata, armonizzandola con il quadro dei principi costituzionali e comunitari (enunciati dalla citata sentenza n. 272 della Consulta), concludendo per l’estraneità della disciplina sanitaria con la questione della (inesistente) privativa e, quindi, per la inconferenza di tali espressioni enunciative rispetto all’oggetto principale di quella specifica disciplina (sanitaria)
2.6.Da tali conclusioni deriva che i regolamenti comunali, i quali - come quello adottato dal Comune di Bari – siano ancora ispirati ai principi precostituzionali e precomunitari della generalizzata privativa di ogni sorta di pubblici servizi, risultano in parte qua (e quindi in riferimento alla riserva in ordine ai trasporti funerari), in via sopravvenuta, illegittimi. Essi, perciò, vanno disapplicati dal giudice ordinario, così come ha fatto correttamente il giudice della fase di merito.
Le ordinanze-ingiunzione che, come quella impugnata, siano state adottate per l’avvenuta violazione del Regolamento comunale e in ragione del compimento di un trasporto di salme senza l’autorizzazione dell’ente locale, rilasciata in deroga al suo diritto di privativa, sono state correttamente annullate perché illegittime.
2.7. In conclusione, il ricorso del Comune, che si duole proprio di tale decisione del Giudice di Pace, deve essere respinto.
3. Questa Corte non deve provvedere sulle spese di questa fase, non avendo l’intimato svolto alcuna difesa.
PQM
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione civile, dai magistrati sopraindicati, il 5 maggio 2005.
Depositata in cancelleria
il giugno 2005 |