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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 2113/2006 proposto da De Rosa Giosue', Manfredi Celestino, Fuccio Pasquale, Blasotti Francesco, Rocco Antonio, Iodice Salvatore, Girasole Tommaso, Russo Ludovico, Russo Giulio, Casillo Tommaso, Capano Andrea, Troiano Francesco Saverio, Niutta Aldo, Bianco Giovanni Alfredo, Petrazzuolo Vincenzo, De Rosa Raffaele, Villamaino Rosario, Iorio Tommaso, Rapullino Camillo, rappresentati e difesi dagli Avv.ti Felice Laudadio, Giuseppe Abbamonte, Riccardo Marone e Vincenzo Duello con domicilio eletto in Roma Lungotevere Flaminio n. 46 - IV B, presso lo studio Grez;
contro
la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato con domicilio in Roma via dei Portoghesi n.12;
l’Ufficio Territoriale del Governo di Napoli e il Comune di Casoria, non costituitisi;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania sede di Napoli n. 1621/2006;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio delle parti intimate;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 19 dicembre 2006 relatore il Consigliere Sabino Luce. Uditi altresì, l’avv.to Abbamonte, l’avv.to Laudadio e l’avv.to dello Stato Giannuzzi;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Con sentenza n. 1621/2006, del 27 dicembre 2005, depositata il 6 febbraio 2006, il Tribunale amministrativo regionale perla Campania, dopo averli riuniti, respingeva i ricorsi (n. 7605/05 e 7765/05) proposti dai rubricati appellanti per l’annullamento: a) del decreto del Presidente della repubblica del 25 ottobre 2005, con allegata relazione del Ministero dell’interno, con il quale era stato disposto lo scioglimento del consiglio comunale di Casoria, si sensi dell’articolo 143 del decreto legislativo 18 febbraio 2000, n. 267; b) della deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 21 ottobre 2005, avente ad oggetto lo scioglimento del consiglio comunale, della giunta e del sindaco di Casoria con la nomina di una commissione straordinaria per la gestione dell’ente; c) del decreto del prefetto della provincia di Napoli del 22 aprile 20054 che aveva nominato, ai sensi della legge n. 72/82 di conversione del decreto legge n. 629/82 e s.m., una commissione di accesso incaricata di compiere mirati accertamenti su possibili forme di condizionamento e/o infiltrazione della criminalità organizzata sulla vita amministrativa del comune di Casoria; d) della relazione della commissione di accesso in data 5 agosto 2005; e) della relazione del prefetto di Napoli del 14 ottobre 2005 di attivazione della procedura per l’applicazione della misura prevista dall’articolo 143, secondo comma, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267; f) della nota del prefetto di Napoli prot. n. 1202/area II. EE.LL. del 31 ottobre 2005 di trasmissione del d.P.R. 25 ottobre 2005 di scioglimento del consiglio comunale di Casoria; g) del decreto del prefetto di Napoli del 21 gennaio 2005 con il quale era stata disposta la sospensione del consiglio comunale di Casoria ai sensi dell’articolo 143 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n., 267; di ogni altro atto presupposto, connesso, consequenziale, comunque lesivo dei diritti dei ricorrenti, ivi compresi i verbali e le relazioni della commissione di accesso. Contro l’indicata decisione i rubricati ricorrenti hanno proposto appello al consiglio di Stato chiedendo,con ricorso notificato il 7 marzo 2006, la riforma dell’impugnata decisione con l’accoglimento della domanda proposta in primo grado; ed il ricorso, nella resistenza delle rubricate parti intimate, è stato chiamato per l’udienza odierna al cui esito è stato trattenuto in decisione dal collegio.
DIRITTO
Con il primo motivo di appello, i ricorrenti deducono error in iudicando, violazione e falsa applicazione degli articoli 59 e 143 del decreto legislativo 267/2000, violazione e falsa applicazione degli articoli 3, 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990, eccesso di potere per presupposto erroneo, irragionevolezza, illogicità manifesta, sviamento, eccesso di potere per genericità, motivazione erronea.
Il Tribunale amministrativo regionale- secondo gli appellanti- a fronte di approfondite e specifiche censure sollevate in ordine alla relazione della commissione di accesso e del prefetto di Napoli, senza alcun approfondimento delle questioni dedotte, si sarebbe limitato a richiamare la giurisprudenza della Corte costituzionale in ordine all’ampia portata dello strumento dello scioglimento a disposizione dello Stato per garantire le amministrazioni locali dal pericolo di inquinamento camorristico.
Inoltre- sempre secondo gli appellanti- il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 103/93, operato dai giudici di primo grado, era stato parziale e contrastante con le motivazioni adottate dalla Corte medesima; motivazioni, peraltro, fondamentali in quanto, solo con riferimento alle stesse, la norma di cui al richiamato articolo 143 del decreto legislativo n. 267/2000 poteva essere ritenuta costituzionalmente legittima. Secondo i ricorrenti, in particolare, il Tribunale amministrativo regionale non avrebbe considerato che la Corte costituzionale aveva chiarito che lo straordinario potere di scioglimento del consiglio comunale poteva essere esercitato soltanto ove fossero dimostrati: a) collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata; b) forme di condizionamento degli amministratori medesimi.
Non sarebbe stato considerato, altresì, che, secondo la Corte costituzionale, i collegamenti diretti o indiretti e le forme di condizionamento indicati non solo dovevano essere provati, ma occorreva altresì la dimostrazione che essi compromettevano la libera determinazione degli organi elettivi ed il buon andamento delle amministrazioni comunali e risultavano tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio alla collettività. Nell’indicata prospettiva risulterebbe palese l’alterazione interpretativa del Tribunale amministrativo regionale il quale avrebbe, invece, fatto apparire la giurisprudenza della Corte costituzionale come attributiva al Ministero dell’interno di intervenire nella materia con la più ampia ed incondizionata discrezionalità.
La censura è infondata e va respinta.
Ed invero, la tesi degli appellanti relativa all’eccezionalità e straordinarietà del potere di scioglimento dei consigli comunali è ampiamente condivisile, ed è stata – ad avviso del collegio- del tutto condivisa dai giudici di primo grado.
Condivisibile è, altresì, l’interpretazione dei ricorrenti della sentenza della Corte costituzionale n. 103/1993, che ha condizionato la legittimità dell’esercizio di detto potere alla ricorrenza di determinati, necessari, presupposti: che risulti, cioè, adeguatamente provata e motivata l’esistenza, non solo di un tentativo di infiltrazione delinquenziale, ma anche il concretizzarsi, per effetto dello stesso, di uno stato di fatto caratterizzato dall’alterazione della volontà degli amministratori a causa della interferenze criminali.
Così come è anche condivisibile l’argomentazione, ampiamente utilizzata nell’atto di appello, secondo cui la dimostrazione della presenza sul territorio di una radicata criminalità organizzata, naturalmente e notoriamente incline al condizionamento dei pubblici amministratori, non può di per sé indurre all’assiomatica conclusione della necessità dell’adozione della misura dello scioglimento degli organi elettivi. Come precisano gli appellanti, nello schema delineato dalla legge non vi è contrapposizione, ma sostanziale identità di tutela tra diritto costituzionale di elettorato e lotta alla criminalità, proprio perché la norma che legittima lo scioglimento dei consigli comunali lo condiziona al presupposto dell’emersione, da un’approfondita istruttoria, di forme di pressioni della criminalità che non consentono il libero esercizio del mandato elettivo di cui all’articolo 51 della Costituzione.
Resta, tuttavia, la considerazione- cui hanno inteso sostanzialmente riferirsi i giudici di primo grado- che il potere di scioglimento dei consigli comunali ha una valenza, se non propriamente politica, quanto meno di alta amministrazione ed implica, in quanto tale, un elevato tasso di discrezionalità, sia nell’accertamento, sia soprattutto nella valutazione dei fatti acquisiti al procedimento, che si sottrae ad un sindacato di merito da parte del giudice. E sembra al collegio rilevante anche segnalare che il procedimento relativo allo scioglimento dei consigli comunali, come è dato evincere dalla riportata descritta tipologia degli atti impugnati, garantisce, già di per sé, il massimo di imparzialità amministrativa, implicando la partecipazione degli apparati di più elevata rappresentazione, anche in termini di obiettività di valutazione, della pubblica amministrazione: oltre ai rappresentati delle forze di polizia operanti sul territorio, vi sono coinvolti il Prefetto, il Ministro dell’interno, il Consiglio dei ministri ed in ultima istanza il Presidente della Repubblica.
Valutata in tale prospettiva- ad avviso del collegio- la relazione della commissione di accesso, su cui sono basati i provvedimenti impugnati, non si presta- così come correttamente ritenuto dai giudici di primo grado- a censure di legittimità essendo fondata, non già su mere congetture o apodittiche illazioni, bensì su precisi e specifici fatti e circostanze acquisiti al procedimento ed astrattamente comprovanti non solo- come ritengono gli appellanti- l’esistenza in loco di una diffusa ed invasiva criminalità organizzata, ma anche il ragionevole convincimento di una sua contiguità con gli amministratori in carica ed un condizionamento della relativa libertà di decisione.
Da tenere presenta al riguardo che la valutazione dell’amministrazione poteva anche essere basata su fatti e circostanze meramente indizianti di un condizionamento delinquenziale dell’operato degli amministratori locali, senza necessità di acquisizione di vere e proprie prove, tipiche dell’accertamento penale. Nella valutazione dell’amministrazione potevano avere, inoltre, rilievo anche eventi non realizzati, ma solo ipotizzati, secondo la comune nozione di pericolo, e poteva prescindersi dall’accertamento di comportamenti implicanti l’addebitabilità di specifiche responsabilità individuali. I fatti e le circostanze accertate andavano, poi, valutati nel loro complesso, con la possibilità di riconoscere un effetto sinergico che non era dato riscontrare in una valutazione frammentata ed atomistica degli stessi. Competeva, in ogni caso, esclusivamente all’amministrazione l’apprezzamento di merito dei fatti accertati ed acquisiti al procedimento, in relazione al significato complessivo che essi assumevano con specifico riferimento al contesto locale; era, quindi, di competenza esclusiva dell’amministrazione la ponderazione delle prove e degli indizi e l’attribuzione agli stessi del peso complessivo al fine dell’adozione della decisone finale.
Da tutto ciò consegue che il sindacato giurisdizionale sul corretto esercizio del potere di scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione delinquenziale, avendo natura estrinseca e formale, non può spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un idoneo e sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell’esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole. In tal prospettiva, non è, pertanto, consentito al giudice amministrativo estendere il sindacato al merito della decisione, sostituendo, in particolare, il proprio apprezzamento a quello dell’amministrazione nella quantificazione della rilevanza delle prove e soprattutto degli indizi al fine di ritenere configurato il condizionamento mafioso, rimesso, invece, agli apparati operativi e di controllo dell’amministrazione stessa i quali- per quanto detto in precedenza- operando, tra l’altro, sul territorio, avevano l’immediata e diretta percezione del clima locale ed erano, pertanto, nella migliore condizione per adeguatamente misurare il peso delle prove e degli indizi posti a giustificazione dell’adottata misura.
Valutati nell’indicata prospettiva, oltre al primo dei motivi di ricorso, si rilevano infondate- ad avviso del collegio- anche le ulteriori censure con cui si deduce: error in iudicando, violazione e falsa applicazione degli articoli 59 e 143 del decreto legislativo 267/2000, violazione e falsa applicazione degli articoli 3, 7, 8, 9 e 10 della legge n. 241/90, inesistenza dei presupposti, erroneità, motivazione illogica, sviamento, eccesso di potere per genericità (secondo motivo); error in iudicando, violazione degli articoli 59 e 143 del decreto legislativo 267/2000, violazione legge n- 109/94 e successive modifiche, motivazione erronea (terzo motivo); error in iudicando, violazione articoli 49 e 143 T.U.E.E.L.L. in relazione agli articoli 4 legge n. 10/77 ed articolo 5 T.U. n. 327/2001, omesso esame di punti decisivi della controversia, dei motivi di ricorso e della documentazione in tatti (quarto motivo); error in iudicando, violazione degli articoli 59 e 103 T.U.E.E.L.L., motivazione erronea, omesso esame delle censure e della documentazione prodotta, violazione legge 55/90 e D.L.GS. 252/98 (quinto motivo).
Motivi di appello- quelli indicati- che, sebbene abilmente illustrati, attengono, tuttavia, a fatti e circostanze della relazione di accesso, considerati atomisticamente, senza tener conto dell’effetto sinergico che potevano produrre in chi era tenuto a valutarli nel loro complessivo contesto. Fatti e circostanze, inoltre, che, rappresentati e discussi in un clima di serena dialettica processuale, non potevano rendere appieno il significato indiziante che, anche intuitivamente, potevano produrre in chi era deputato direttamente a registrarli al fine di farne conseguire una decisione sulla cui opportunità- ripetesi- non è dato indagare in questa sede. In ogni caso- ad avviso del collegio- si è trattato di fatti e circostanze che, sebbene, isolatamente, suscettibili di diversificata interpretazione, si rilevano idonei ad evidenziare nel loro complesso l’esistenza di un condizionamento delinquenziale che non riguardava genericamente l’amministrazione ma concerneva specificamente gli amministratori in carica.
In particolare, la vicenda dell’alloggio del custode del mercato ortofrutticolo, occupato senza titolo da congiunti di un capo di un clan cammorristico (di cui al secondo motivo di appello) non poteva perdere il carattere di elemento indiziante del condizionamento degli amministratoti attribuitole dalla commissione di accesso, per il solo fatto che si protraeva da tempo e che l’amministrazione De Rosa, a differenza di quelle precedenti, aveva dato avvio ad un tentativo di soluzione. Allo stesso modo irrilevante, al fine della considerazione di elemento indiziante del condizionamento mafioso, era l’entità degli appalti per i quali era stato riscontrata l’interferenza camorristica o la riscontrata regolarità formale delle relative procedure di affidamento (di cui al terzo motivo di appello). Anche ad appalti di modesto importo economico, ed anche se la relativa aggiudicazione era avvenuta in base ad una procedura di affidamento apparentemente corretta, ben poteva riconoscersi carattere indiziante, stante la circostanza, evidenziata nella relazione di accesso, che ne traeva costante beneficio un noto clan camorristico locale. Ed anche se il relativo affidamento rientrava nella competenza della dirigenza dell’amministrazione, non per questo era irragionevole ipotizzare possibili interventi condizionanti degli amministratori e soprattutto del sindaco cui competeva oltre tutto un generico potere di controllo. Allo stesso modo, correttamente era presa in considerazione la vicenda relativa alla pianificazione urbanistica (di cui al quarto motivo di appello) il cui protrarsi della definizione era verosimilmente ricondotto alle pressioni riguardanti la destinazione finale da attribuirsi ad opera abusive oggetto di ordinanze di demolizione. Con riferimento, infine, all’operato dell’amministrazione comunale nei confronti della società Casoria ambiente s.p.a., pur condividendo la tesi dei giudici di primo grado in merito alla condotta non censurabile del sindaco nella sostituzione dei membri del C.d.A., restava il fatto che la Commissione di acceso ha accertato che attraverso detta società, di cui il comune è socio di maggioranza, erano stati comunque avvantaggiati operatori locali contigui alla criminalità organizzata.
In conclusione, contrariamente a quanto deducono gli appellanti e come ritenuto dal Tribunale amministrativo regionale, nel caso in esame il potere di scioglimento del consiglio comunale è stato legittimamente esercitato in quanto non sono emersi elementi i quali- nei limiti in cui ne è consentito il sindacato in sede giurisdizionale- possano indurre a ritenere sussistente uno sviamento di potere o comunque un’illegittimità nell’esercizio dello stesso.
L’appello va pertanto respinto con compensazione delle spese processuali ricorrendovi giusti motivi per la peculiarità della lite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione sesta, respinge l’appello e conferma la sentenza impugnata. Spese compensate.
Ordina che la decisione venga eseguita in via amministrativa.
Così deciso in Roma il 19 dicembre 2006 in camera di consiglio dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione sesta, con l’intervento dei sigg:
Giorgio Giovannini Presidente
Sabino Luce Consigliere Est.
Carmine Volpe Consigliere
Luciano Barra Caracciolo Consigliere
Lanfranco Balucani Consigliere
Presidente
f.to Giorgio Giovannini
Consigliere Segretario
f.to Sabino Luce f.to Vittorio Zoffoli
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il 16/02/2007
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
f.to Maria Rita Oliva |