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REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano
LA CORTE DI CASSAZIONE
Sezione Lavoro
Composta dai magistrati:
Dott. Ettore Mercurio Presidente
“ Pietro Cuoco Consigliere
“ Giovanni Mazzarda “
“ Guido Vidimi “
“ Pasquale Picone Relatore “
ha pronunziato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
ANSALDO ENERGIA SpA. in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in Roma, via L.G. Faravelli n. 22, presso l’avv. Enzo Morrico, che la rappresenta e difende con procura speciale apposta a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
GRIMALDI Tommaso, FREZZATO Silvio, AURELI Cesare, PARETO Ernesto, COSTA Carlo, MORANO Alberto, MAZZOLA Franco, TARASCONI Enrico e MORRESI Luciano, elettivamente domiciliati in Roma, Via Flaminia, n. 195, presso l’avv. Sergio Vacirca, che li rappresenta e difende con procura speciale apposta a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrenti -
e contro
GIAMPELLEGRINI Giancarlo;
-intimato-
e contro
MANITAL -Consorzio per i servizi integrati - elettivamente domiciliato in Roma, Viale G. Cesare n. 14, presso l’avv. Maria Teresa Barbantini, che, unitamente all’avv. Cesare Bosio, lo rappresenta e difende con procura speciale per notaio D’Arrigo del 7.8.2000 (Rep. 843);
- controricorrente -
e sul ricorso proposto
da
GRIMALDI Tommaso, FREZZATO Silvio, AURELI Cesare, PARETO Ernesto, COSTA Carlo, MORANO Alberto, MAZZOLA Franco, TARASCONI Enrico e MORRESI Luciano, come sopra domiciliati, rappresentati e difesi;
-ricorrenti incidentali-
contro
ANSALDO ENERGIA SpA, come sopra domiciliata, rappresentata e difesa;
- controricorrente -
e contro
MANITAL - Consorzio per i servizi integrati - come sopra domiciliato, rappresentato e difeso;
-intimato-
per la cassazione della sentenza del Tribunale di Genova n. 12068 in data 17 novembre 1999 (R.G. 10135/99+10139/99+10140/99);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19.6.2002 dal Consigliere dott. Pasquale Picone;
uditi gli avv.ti Monica, Barbantini e Vacirca;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Elisabetta Maria Cesqui che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’assorbimento del ricorso incidentale.
Fatti e svolgimento del processo
In data 4 luglio 1997 1’Ansaldo Energia SpA inviava le comunicazioni ex ari 47 legge 428/1990 alle RSA in ordine all’intenzione di cedere il ramo d’azienda “Servizi Generali” al Consorzio Manital.
La decisione di cessione veniva giustificata con la finalità di rispondere all’esigenza di impegnare sempre più le capacità aziendali nelle attività dirette su prodotto, mercato e tecnologie, contenendo, nella misura possibile, gli altri alti costi di funzionamento”; in particolare, l’operazione aziendale veniva definita come rientrante nell’ambito di un più ampio programma di riorganizzazione aziendale tendente a far riacquisire “competitività” all’Ansaldo;
Il ramo d’azienda, identificato nei cd. “Servizi Generali” comprendeva le seguenti attività: conduzione e manutenzione di impianti termotecnici, di impianti elettrici, telefonici, Tvcc-Td, di impianti di sicurezza, controllo ed antincendio, di ascensori e montacarichi e di altri impianti speciali; manutenzione di immobili industriali e civili e relative pertinenze; manutenzione reti di viabilità monitoraggio e riparazioni reti fognarie ed idriche; progettazione di nuovi impianti generali; gestione pratiche per autorizzazioni edilizie, permessi di costruzione, autorizzazioni USL, VVFF, etc.; gestione e manutenzione attrezzature mensa; gestione e manutenzione di fotocopiatrici ed altre attrezzature di ufficio; movimentazione arredi, materiali ed attrezzature; facchinaggio; gestione dei mezzi relativi alla trasmissione delle informazioni (telex, fax, etc.), distribuzione documentazione; ricevimento e smistamento posta; fattorinaggio interno ed esterno; riproduzione della documentazione (disegni, etc.); gestione degli archivi generali, di deposito e relativa conservazione e messa a disposizione della documentazione; pulizia dei fabbricati; giardinaggio; gestione e distribuzione cancelleria; gestione di pratiche relative alle trasferte dei dipendenti (prenotazioni, acquisto biglietti, rinnovo e visto passaporti, autonoleggio, “navette”, etc.); traduzioni documenti; segreteria, reporting ed altri compiti di carattere gestionale e/o di supporto riferiti alle attività suddette;
In data 9 settembre 1997 è stato sottoscritto il contratto di cessione del ramo aziendale tra l’Ansaldo Energia SpA e Manital - Consorzio per i servizi integrati, con indicazione dei beni e rapporti giuridici, tra cui i contratti di lavoro dei dipendenti addetti ai servizi trasferiti. L’operatività del trasferimento di azienda è stata fatta decorrere dal 15 settembre 1997.
Intanto, in data 29 luglio 1997, 1’Ansaldo aveva stipulato con Manital Consorzio per i servizi integrati un contratto di fornitura di servizi e manutenzioni generali, onde assicurare continuazione delle attività inerenti ai servizi generali.
La qualificazione giuridica dell’operazione di ristrutturazione aziendale come cessione di ramo di azienda, con conseguente applicazione dell’art. 2112 c.c., è stata contestata da alcuni dei lavoratori interessati, secondo il cui assunto la fattispecie era, invece, di semplice cessione dei contratti di lavoro in corso con l’Ansaldo, da considerare inefficace in quanto non era intervenuto il consenso del contraente ceduto, consenso che, comunque, sarebbe stato in ogni caso necessario anche in presenza di cessione di ramo di azienda.
Nella controversia sottoposta al vaglio della Corte, con ricorsi al Pretore di Genova Tommaso Grimaldi ed altri lavoratori hanno domandato l’accertamento dell’invalidità della cessione del contratto di lavoro, con conseguente reintegrazione nei posto di lavoro e risarcimento del danno. Hanno chiesto altresì la dichiarazione di invalidità dello stesso contratto di appalto dei servizi sopra menzionati, per violazione, da un lato, del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, dall’altro, dell’art. 24 del c.c.n.l., che vieta di affidare in appalto le attività direttamente connesse a quelle aziendali o relative alla manutenzione ordinaria.
Il Pretore ha rigettato la domanda, ma la sentenza è stata riformata, in parziale accoglimento dell’appello dei lavoratori dal Tribunale di Genova, che ha dichiarato la nullità della cessione del contratto di lavoro da Arnaldo Energia SpA a Manital e condannato la prima “a reinserire i ricorrenti nella loro funzione lavorativa e nella retribuzione anteriore alla cessione”.
Il Tribunale ha ritenuto che alla fattispecie di cessione di ramo di azienda, cui si applicano gli art. 2112 c.c. e 47 l. 428/1990, risulta completamente estranea l’operazione di mera “esternalizzazione” di attività aziendali, non idonea come tale ad esplicare effetti diretti sui contratti di lavoro (ferma restando la possibilità di effetti indiretti, potendo, in ipotesi, la ristrutturazione tradursi in riduzione di personale mediante le procedure previste dalla legge). La ricorrenza dell’una o dell’altra delle fattispecie dipende, a giudizio del Tribunale, da dati assolutamente oggettivi, non certo dalle determinazioni del datore di lavoro, dati da identificare, perché si possa dire di essere in presenza di un ramo di azienda - anche alla stregua della normativa comunitaria e della giurisprudenza della Corte di giustizia Cee - nella preesistenza di un nucleo minimo dotato di autonomia operativa e finanziaria, idoneo a giustificare l’unificazione funzionale della parte di azienda ceduta, autonomia nella specie completamente insussistente.
La cassazione della sentenza è domandata con ricorso per cinque motivi dalla SpA Ansaldo Energia. Si è costituito con controricorso Manital - Consorzio per i servizi integrati -. Resistono con controricorso i lavoratori, proponendo con lo stesso atto ricorso incidentale condizionato per due motivi, al quale resistono con separati controricorsi la SpA Ansaldo e Manital. Le parti hanno anche depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. e la SpA Ansaldo ha replicato per iscritto alle conclusioni del Pubblico Ministero (art. 379 c.p.c.).
Motivi della decisione
1. Preliminarmente, la Corte riunisce i ricorsi proposti contro la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).
2. Va dichiarato inammissibile il ricorso principale nei confronti di Silvio Frezzato, Cesare Aureli, Alberto Morano, Franco Mazzola ed Enrico Tarasconi.
Nello stesso ricorso, infatti, si riferisce della sottoscrizione in sede sindacale di un accordo transattivo con l’Ansaldo Energia SpA avente ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro con rinuncia ad ogni altra pretesa ad esso inerente (con produzione del relativo documento). La circostanza è confermata nel controricorso, con richiesta di declaratoria di inammissibilità del ricorso dell’Ansaldo nei confronti dei lavoratori indicati.
E’ comprovata, quindi, la cessazione della materia del contendere, che priva le parti dell’interesse ad ottenere l’intervento della giurisdizione sulla questione controversa (cfr. Cass. 21 maggio 2002, n. 7450).
Per il medesimo ordine di ragioni è inammissibile il ricorso incidentale proposto dai lavoratori indicati.
Inammissibile è altresì il ricorso incidentale proposto nei confronti di Giancarlo Giampellegrini (intimato) perché vi è stata transazione, con gli stessi contenuti, anche per lui.
La controversia, pertanto, va decisa nei soli riguardi di Tommaso Grimaldi, Ernesto Pareto, Carlo Costa e Luciano Morresi.
3. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 177 del Trattato Cee, per avere il Tribunale rifiutato di accogliere la richiesta di rimessione degli atti alla Corte di giustizia europea in merito all’interpretazione del senso e della portata delle direttive 14 febbraio 1977, n. 187, e 29 giugno 1998, n. 50, atteso che, in presenza del mutamento del titolare di un’entità organizzata in modo stabile, costituita dal complesso dei lavoratori stabilmente incaricati di svolgere attività omogenee, la legislazione comunitaria impone di considerare il lavoratore trasferito con l’impresa, da intendere quale organizzazione funzionale di beni e rapporti giuridici che ne consentano l’esercizio.
3. Il secondo motivo denuncia motivazione contraddittoria su di un punto decisivo per avere il Tribunale dichiarato di volersi uniformare ai principi dell’ordinamento comunitario come precisati dalla Corte di giustizia, mentre in realtà con essi si è posto in contrasto affermando che “le risorse.., anche... modeste non debbono difettare di un centro direttivo ed organizzativo, capace di renderle idonee al fine produttivo perseguito”. Al contrario, l’entità economica può consistere anche in una semplice attività, valutabile economicamente e che conservi la propria identità con il trasferimento, mediante una valutazione non astratta ma concreta.
4. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. perché l’operazione di “esternalizzazione” di servizi può ben essere realizzata con lo strumento del trasferimento di un ramo di azienda e ciò proprio al fine di garantire l’occupazione, senza procedere all’estinzione dei rapporti di lavoro divenuti inutili, e, quindi, nella prospettiva di garanzia dei diritti dei lavoratori che è l’obiettivo del legislatore comunitario; l’art. 2112 c.c., infatti, richiede la cessione di un’insieme di beni coordinati per l’esercizio di un’attività di impresa, senza che sia necessario anche che tale esercizio sia attuale, bastando l’astratta idoneità allo scopo produttivo unitario.
4.1. In conclusione, a giudizio dell’Ansaldo, si era in presenza di un’entità economica che l’imprenditore poteva collocare sul mercato, ancorché il dato dell’organizzazione autonoma (che, del resto, non è mai configurabile come tale in relazione a qualsiasi ramo di azienda, specie se relativo ad attività accessorie) non fosse preesistente al trasferimento, ma solo con la cessione si fosse realizzata l’unificazione di determinati servizi e attività in capo ad un unico soggetto, il quale era stato così posto in condizione di rispondere a domande del mercato. Pertanto l’autonomia dell’entità economica (nel caso, i servizi generali) deve apprezzarsi in concreto, per il fatto che alcuni beni siano separabili dalla parte restante dell’azienda e, immediatamente (come accaduto nel caso concreto, senza alterazioni dell’organizzazione preesistente) siano in grado di consentire la realizzazione di servizi e prodotti richiesti dal mercato.
4.2. Né rappresentava un ostacolo l’eterogeneità delle attività cedute, essendo fondamentale, per integrare un’attività economica, la comunanza dell’attività delle maestranze trasferite che sia idonea a conferire alla stessa una vera e propria autonomia produttiva, comunanza consistente nei fatto che si trattava dei servizi ausiliari a quelli propri dell’attività produttiva dell’azienda, la cui prestazione era continuata senza soluzioni presso Manital acquistando altresì l’attitudine (prima solo potenziale) di prestare gli stessi servizi anche a terzi.
5. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere la sentenza impugnata, tra l’altro, affermato che l’Arnaldo non aveva fornito la prova della sussistenza del ramo d’azienda, mentre, in realtà, tutti gli elementi della fattispecie erano dimostrati e comunque non contestati.
6. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1406 c.c. per avere il Tribunale omesso di considerare il comportamento del lavoratore, di accettazione dell’incremento retributivo riconosciuto all’atto del passaggio alle dipendenze di Manital, ai fini del significato negoziale di consenso alla cessione del contratto, con conseguente cessazione della materia del contendere.
7. La Corte giudica il ricorso infondato.
Vanno esaminate unitariamente, in quanto concernenti la medesima questione, i primi quattro motivi del ricorso.
Ansaldo e Manital sostanzialmente concordano nel ricondurre la vicenda al fenomeno cd. di outsourcing, comprendente tutte le possibili tecniche mediante le quali un’impresa dismette la gestione diretta di alcuni segmenti dell’attività produttiva e dei servizi estranei alle “competenze di base” (cd core business).
Nella fattispecie, l’operazione di ristrutturazione aziendale è stata qualificata come cessione di ramo di azienda, comportante l’applicazione dei principi di cui agli art. 2112 c.c. e 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428 (ed infatti l’operazione è stata preceduta, dalla comunicazione alle organizzazioni sindacali).
8. La nozione di ramo di azienda, estranea sia al testo originario dell’art.. 2112 c.c., sia alla sua riformulazione ad opera ad opera dall’art. 47 1. 428/1990, compare a livello normativo solo con l’art. 3, commi 3 e 4, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (cessione dell’azienda o di sue parti).
Invero, dall’art. 2573 c.c. - che contempla il trasferimento di una parte dell’azienda come presupposto per il trasferimento del diritto di uso del marchio registrato - poteva già evincersi la possibilità di trasferire singole unità produttive, da considerare come “aziende” ai sensi e per gli effetti dell’art. 2112 c.c.
Ad ogni modo, la nozione stessa è stata elaborata dalla giurisprudenza al fine di estendere le garanzie dei lavoratori anche all’ipotesi in cui non veniva in considerazione il trasferimento dell’intero complesso aziendale, ma solo di una sua parte (cfr. Cass., 24 gennaio 1991, n. 671; 17 marzo 1993, n. 3148; 5 maggio 1995, n. 4873; 16 dicembre 1995, n. 12872; 14 dicembre 1998, n. 12554; 30 dicembre 1999, n. 14755; 30 agosto 2000, n. 11422).
9. Nei precedenti citati non è stata mai messa in discussione la scelta economica di “separazione” e si è altresì tenuto presente l’esigenza di assicurare un’effettiva funzionalità alla porzione di azienda ceduta attraverso la conservazione dei rapporti necessari alla sua concreta attività, esigenza imprescindibile in tema di circolazione dell’azienda (art. 2558 c.c.). Ma certamente è stata prevalente la prospettiva della tutela del lavoratore, sotto il profilo della continuità dell’occupazione e della conservazione dei diritti maturati, nella convinzione che la tutela apprestata dall’art. 2112 c.c. si rendesse necessaria soprattutto con riferimento alle vicende di trasferimento parziale.
10.Il descritto orientamento trovava un diretto riferimento nella direttiva comunitaria n. 77/87 (pur allora non ancora attuata) che comprendeva nel suo ambito di applicazione anche i trasferimenti di “parti di stabilimenti”.
Da questa più ampia accezione ha preso le mosse l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia europea su ciò che deve considerarsi oggetto del trasferimento da assoggettare alle regole della direttiva. Ed infatti, nella maggior parte dei casi, le ipotesi concrete sottoposte al vaglio della Corte europea hanno riguardato appunto, cessioni parziali, riferite a singoli servizi, casi, cioè, di cd. “esternalizzazione” nei quali erano ravvisabili la dismissione da parte dell’impresa di una certa attività, spesso ausiliaria, e la prosecuzione della stessa attività da parte di altro soggetto, anche mediante moduli organizzativi, quanto ai mezzi, strutture e persone, diversi da quelli adottati dal cedente.
11. Tuttavia, gli orientamenti della giurisprudenza comunitaria non sono stati costanti, ancorché unificati nella prospettiva di conferire una certa elasticità ed adattabilità alla nozione di trasferimento di impresa rispetto alle fattispecie concrete.
In un primo tempo, essa ha richiesto, per l’applicazione della direttiva, il trasferimento di un’entità economica individuata in base ad elementi oggettivi e “misurabili”, quali i beni materiali, il valore di quelli immateriali, la riassunzione di buona parte del personale, il trasferimento della clientela (cfr. CGCE 18 marzo 1986, causa n. 24/1985, Spijkers; 10 febbraio 1988, causa n. 234/1986, Daddy’S Dance Hall).
12. Successivamente, ha ritenuto sufficiente l’identità o anche la sola analogia del servizio svolto dal cessionario rispetto a quello svolto dal cedente, senza necessità di un trasferimento di elementi materiali e patrimoniali, e senza un rapporto negoziale diretto tra i due soggetti, giungendo così ad inserire tutti i meccanismi di “esternalizzazione” nell’ambito di tutela della direttiva (cfr. CGCE 12 novembre 1992, causa n. 209/1991, Wastson Rask c. Christensen; 14 aprile 1994, causa n. 293/1992, Schimid;, 7 marzo 1996, cause riunite n. 171/1994-172/1994, Mercks)
13. Più di recente, essa è ritornata sui suoi passi, recuperando il concetto di “entità economica” oggettivamente misurabile ed escludendo che quest’ultima possa essere ridotta all’attività in quanto tale. In altri termini, ha reintrodotto la necessità della presenza di elementi organizzativi, affermando che per entità economica si deve intendere un complesso organizzato di persone e di elementi che consentono l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obiettivo (CGCE 11 marzo 1997, n. causa n. C 13/1995, Suzen c. Zehnachker; 10 dicembre 1998, cause riunite n. C-127/1996, C-229/1996 e C-74/1997; 10 dicembre 1998, cause riunite n. C-173/1996 e C-247/1996).
14. Quest’ultimo orientamento è stato fatto proprio dalla più recente direttiva 98/50, secondo la quale l’entità economica è da intendere come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria, che deve conservare con il trasferimento, “di parti di imprese o di stabilimenti”, la propria identità.
L’opportunità di dare sistemazione organica alla materia ha indotto poi il Consiglio dell’Ue ad emanare l’ulteriore direttiva n. 2001/23/Ce, con cui sono state abrogate sia la direttiva del 1977 che quella del 1998.
Peraltro, la nuova normativa mon ha contenuti innovativi ma mere finalità di sistemazione della regolazione, considerate le sostanziali modifiche apportate dalla direttiva del 1998.
15. A questo punto del discorso deve porsi in evidenza come l’applicazione della normativa sul trasferimento di azienda anche al caso del trasferimento di parte soltanto del complesso aziendale, abbia prodotto l’insorgenza di problematiche assolutamente nuove.
La dottrina ha notato che la nozione allargata di ramo di azienda potrebbe legittimare, attraverso il trasferimento, tutte le operazioni di “esternalizzazione” di servizi, anche se consistenti nella pura e semplice espulsione di quote di personale, evitando il “costo” sociale, ma anche economico, di un licenziamento collettivo.
In altri termini, ne deriverebbe un ribaltamento della prospettiva tradizionale di lettura delle norme di tutela dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda, con il possibile risultato di garantire all’impresa cedente il passaggio automatico, quale effetto ex lege della cessione di azienda, dei lavoratori alle dipendenze del cessionario, lavoratori sui quali andrebbe a cadere il rischio, nel medio periodo, dell’affidabilità del nuovo datore di lavoro, e ciò soprattutto in presenza della cessione di una parte soltanto del complesso aziendale rilevato da soggetto legato al cedente da contratto di committenza, per così dire “governato” da quest’ultimo.
16. Uno dei correttivi proposti dalla dottrina consiste nel ripensare il concetto di disponibilità delle garanzie di tutela, mediante un’interpretazione che subordini il passaggio del lavoratore al suo consenso.
Ma un ostacolo insormontabile deriva dall’assetto legislativo dato alla materia dall’art. 2112 c.c., sicuramente congegnato in guisa da determinare l’inscindibilità tra rapporto di lavoro e azienda, facendo della successione a titolo particolare nel contratto di lavoro dell’acquirente un effetto legale immancabile della cessione di azienda.
In ogni caso, poi, non si vede come potrebbe configurarsi il diritto, nel caso di rifiuto del trasferimento, di restare alle dipendenze del cedente, perché ciò dovrebbe comportare necessariamente l’inserimento in una diversa unità produttiva (secondo quanto sarà precisato più avanti) e l’art. 2103 c.c. non sembra consentire di configurare un diritto al trasferimento.
Del resto, la Corte di giustizia ha precisato che la direttiva 77/187 aveva lasciato gli Stati membri liberi di definire la sorte del rapporto di lavoro (CGCE 12 novembre 1998, in causa C-399/1996, Europiecès). Ed infetti, nel nuovo testo dell’sii. 2112 c.c., introdotto dal D.lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, è stata prevista solo una speciale facoltà di dimissioni, fondata su una “sostanziale modifica” delle condizioni di lavoro, che può essere esercitata entro tre mesi dal trasferimento, ovviamente nei confronti del cessionario e, dunque, a rapporto ormai passato.
17. Ha, invece, il conforto del diritto positivo la limitazione derivante da un nozione più restrittiva di ramo di azienda, che, per essere tale, deve avere una sua autonomia funzionale, nel senso che deve presentarsi come una sorta di piccola azienda in grado di funzionare in modo autonomo e non rappresenti, al contrario, il prodotto dello smembramento di frazioni non autosufficienti e non coordinate tra loro, né una mera espulsione di ciò che si riveli essere pura eccedenza di personale. Con queste caratteristiche, quindi, il ramo di azienda deve preesistere alla vicenda traslativa, nel senso che già prima esso deve essere identificabile ed idoneo a funzionare autonomamente, senza, peraltro che tale requisito venga a mancare sol perché il ramo di azienda venga integrato da altri elementi, una volta inserito nella complessiva azienda dell’acquirente.
18. Ed infatti in tal senso si è espressa la giurisprudenza della Corte, che non ha mai accolto la più ampia nozione di trasferimento di azienda suggerita dai giudici comunitari (es. in tema di concessioni amministrative, di stipulazione di contratto di appalto con oggetto analogo al precedente cessato, ecc.) ed ha identificato i rami di azienda come unità produttive suscettibili di costituire idoneo e completo strumento di impresa una volta che abbiano acquistato autonomia, con il passaggio ad un diverso titolare, rispetto all’originaria struttura unitaria (cfr., in particolare, Cass. 12554/1998,cit.)
19. E’ stato il riferimento contenuto nell’art. 2112 c.c. all’azienda, invece che all’impresa, ad ancorare la giurisprudenza della Corte alla nozione commercialistica e restrittiva di azienda, ai sensi dell’art.. 2555 c.c., così attribuendo rilievo decisivo all’organizzazione atta a conferire ai beni aziendali il carattere di strumentalità per il perseguimento dei fini dell’impresa. Di conseguenza, si ritiene indispensabile il trasferimento nella materialità dell’azienda come complesso organizzato di beni (Cass. 9 novembre 1992, n. 12057; 17 dicembre 1994, n. 10828; 16 ottobre 1996, n. 9025; 17 giugno 1997, n. 5426; 30 dicembre 1999, n. 14755).
Donde l’impossibilità di assimilare il concetto di successione nell’impresa, quale desumibile, secondo una parte delle pronunce della Corte di giustizia europea, dall’ordinamento comunitario, a quello nazionale di trasferimento di azienda: la diversità tra le due nozioni è tale da impedire qualsiasi operazione di interpretazione adeguatrice.
20. Per queste ragioni non può essere condivisa la tesi dell’Ansaldo, secondo cui l’autonomia funzionale del ramo trasferito può essere anche soltanto potenziale presso il cedente, essendo sufficiente, al fine dell’attribuzione della qualità di ramo di azienda, l’astratta idoneità del nucleo di beni o rapporti ceduti ad essere organizzati per l’esercizio di un’attività.
Il diritto positivo richiede invece, per l’applicazione dell’art. 2112 c.c., che sia ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi. Altrimenti, sarebbe la volontà dell’imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo di azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro.
21. D’altra parte, non si possono trascurare, per il loro rilievo di conferma di tale interpretazione dell’art. 2112 c.c., i successivi sviluppi legislativi.
Il D.lgs. 2 febbraio 2001, n. 18. di attuazione della direttiva n. 98/50, nell’estendere espressamente la disciplina dell’art. 2112 cc. al trasferimento di “parte dell’azienda” ha dato di quest’ultima una definizione sostanzialmente in linea con i risultati cui era pervenuta la giurisprudenza nazionale. Infatti, “parte di azienda” è, innanzi tutto, una “articolazione funzionalmente autonoma” dell’attività economica organizzata (in sostanza, un’unità produttiva), dove l’autonomia funzionale riassume le condizioni - di carattere produttivo, gestionale e organizzativo - perché la parte o “ramo” di azienda possa avere una “vita” sua e sia, così, separabile dal complesso aziendale generale. All’autonomia funzionale il legislatore delegato ha poi aggiunto, quale necessario completamento, il requisito della preesistenza del ramo, come tale, al trasferimento e quello della conservazione, nel trasferimento della sua identità.
Ne resta, dunque, confermato il generale principio giurisprudenziale dell’assimilazione tra azienda e parte di azienda, differenziate solo, come è ovvio, sotto il profilo quantitativo, sicché resta escluso che un ramo di azienda possa essere disegnato e identificato solo al momento del trasferimento e in esclusiva funzione di esso, con un’operazione strumentale indirizzata all’espulsione, per questa via indiretta, di lavoratori eccedenti, consegnati ad un cessionario che, strettamente legato all’impresa cedente - ancorché vero imprenditore e non semplice interposto di mano d’opera -sarebbe posto in condizione di modificare liberamente le preesistenti condizioni di lavoro (contratti collettivi, condizioni di stabilità del posto di lavoro, ecc.).
Tanto ciò è vero che il d.d.l. per la delega al Governo in materia di mercato di lavoro (collegato alla finanziaria 2002 e approvato dal consiglio dei Ministri il 15 novembre 2001), si propone proprio di incidere su questo punto, annoverando tra i criteri di delega per la modifica all’art. 2112 c.c. l’eliminazione del requisito “dell’autonomia funzionale del ramo di azienda preesistente al trasferimento”.
22. Dalle considerazioni che precedono discende l’insussistenza delle condizioni per operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea in merito all’interpretazione della direttiva 77/187. Anche ammettendo che la direttiva debba interpretarsi nel senso ampio propugnato dall’Ansaldo e da Manital, una decisione in tal senso della Corte europea non sarebbe rilevante per la decisione della controversia, derivandone soltanto, in ipotesi, l’acclaramento del contrasto tra ordinamento comunitario e ordinamento interno, contrasto inidoneo a produrre immediatamente effetti sul rapporto giuridico controverso, stante il principio dell’inefficacia orizzontale (cioè nei rapporti interprivati) delle direttive, ancorché precise e incondizionate (cfr. Cass. 16 maggio 2002, n. 7120; 21 marzo 2001, n. 4073).
23. Nella controversia, i fatti rilevanti per la decisione risultano incontroversi, stante la ricostruzione della vicenda operata dalla stessa società Ansaldo ed il contenuto delle stesse tesi giuridiche prospettate.
Ciò risulta già dal solo elenco dei servizi “esternalizzati” , nessuno di essi concretava una realtà organizzativa riconducibile alla nozione di unità produttiva, essendo il solo elemento unificatore quello dell’estraneità alle cd. “competenze di base” ed il rapporto di mera accessorietà con esse.
Non erano quindi idonei a costituire un’azienda collocabile sul mercato e solo la stipulazione del contratto di appalto ha consentito di farne oggetto di cessione allo stesso appaltatore, unificandoli al solo fine di realizzare la complessiva operazione.
24. Come si è detto ampiamente, l’art. 2112 c.c., anche nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.lgs. 18/2001, certamente non impedisce del tutto di ricondurre alla cessione di azienda i processi di “esternalizzazione”, consentendo che siano ceduti singole funzioni o singoli servizi, ma solo a condizione che essi si presentino, prima del trasferimento, funzionalmente autonomi, ma certamente preclude l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate tra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, con identificazione dei lavoratori coinvolti sulla base delle mansioni svolte e non dell’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda che sia oggettivamente tale già prima del trasferimento.
25. In conclusione, correttamente il Tribunale ha ritenuto nella specie, la mancanza dei requisiti per configurare il ramo di azienda ed applicare imperativamente l’art. 2112 c.c. (e l’automatismo in esso sancito) e, conseguentemente, ha configurato la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del lavoratore ceduto.
26. Né possono trovare accoglimento, infine, le censure contenute nel quinto motivo del ricorso.
Il Tribunale ha accertato in fatto che, di fronte all’univoca contestazione degli effetti che la società Ansaldo intendeva collegare ai contratti di cessione e di appalto, non era consentito desumere una volontà negoziale contraria dal fatto della prosecuzione dell’attività lavorativa alle formali dipendenze del Consorzio e della riscossione del superminimo unilateralmente attribuito dallo stesso consorzio.
Si tratta di valutazione neppure specificamente contestata e comunque insindacabile questa sede perché sorretta da motivazione sufficiente e logicamente plausibile.
27. La decisione di rigetto del ricorso principale rende inammissibile il ricorso incidentale (espressamente condizionato), con il quale si censura la sentenza impugnata per avere escluso la rilevanza del consenso del lavoratore ceduto anche in presenza di un effettivo trasferimento di ramo di azienda, nonché per non aver dichiarato la nullità del contratto di appalto. Manca, infatti, qualsiasi interesse all’esame dei motivi del ricorso, non potendone derivare utilità ulteriori alla parte ricorrente.
28. Gli aspetti di novità e complessità delle questioni costituiscono giusti motivi per compensare le spese tra tutte le parti.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso principale nei confronti di Giancarlo Giampellegrini, di Silvio Frezzato, Cesare Aureli, Alberto Morano, Franco Mazzola ed Enrico Tarasconi e lo rigetta nei confronti degli altri controricorrenti, dichiara inammissibile il ricorso incidentale; compensa interamente tra tutte le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 19 giugno 2002. |