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Consiglio di Stato, Sez. V, 15/3/2004 n. 1280
Sulla differenza tra reintegrazione in forma specifica del danno ingiusto e azione di adempimento e rimedio dell'esecuzione in forma specifica.

Secondo la più recente giurisprudenza amministrativa (Cons. St., Sez. VI, 3 aprile 2003 n. 1716), la reintegrazione in forma specifica del danno ingiusto - ai sensi dell'art. 35, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall'art. 7, comma 1, lett. c), della l. 21 luglio 2000, n. 205 - deve essere considerata alla stregua di un'alternativa risarcitoria ai sensi dell'art. 2058 del c.c, potendo quest'ultima intervenire anche per equivalente. Essa rimane un rimedio risarcitorio (o comunque riparatorio), ossia una forma di reintegrazione dell'interesse del danneggiato mediante una prestazione diversa e succedanea rispetto al contenuto del rapporto obbligatorio; e non va confusa né con l'azione di adempimento (con la quale si chiede la condanna del debitore all'adempimento dell'obbligazione), né con il diverso rimedio dell'esecuzione in forma specifica, quale strumento per l'attuazione coercitiva del diritto e non mezzo di rimozione diretta delle conseguenze pregiudizievoli.
L'adozione, da parte dell'amministrazione, di un determinato atto o comportamento attiene a profili di adempimento e di esecuzione e non a quelli risarcitori; in presenza di accertata spettanza del provvedimento amministrativo preteso, l'emanazione dello stesso non costituisce una misura risarcitoria, ma rappresenta la doverosa esecuzione di un obbligo, se ed in quanto questo sussista a carico dell'Amministrazione. L'azione di adempimento, in altri termini, prescinde dall'esistenza dei requisiti previsti dalla legge per il risarcimento del danno (extracontrattuale o contrattuale che sia), quali, in particolare, un danno patrimonialmente apprezzabile e l'elemento soggettivo dell'illecito.
Inoltre, mentre la reintegrazione in forma specifica richiede una verifica in termini di onerosità, ai sensi dell'art. 2058, comma 2, del c.c., tale verifica non è richiesta in relazione alle forme di esecuzione in forma specifica della prestazione originariamente dovuta, per le quali rileva la sola sopravvenuta impossibilità; unico limite a cui è assoggettato l'obbligo conformativo dell'amministrazione.

Materia: appalti / tutela giurisdizionale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

sul ricorso n. 8135 del 2003, proposto da S.C.I. - Società Concessioni Internazionali s.r.l., rappresentata e difesa dagli avv.ti Giovanni Sciacca e Maurizio Steccanella, elettivamente domiciliata presso  lo studio del Primo in Roma, Via della Vite 7

 

contro

il Comune di Vicenza, rappresentato e difeso dagli avv.ti Maurizio  Tirapelle e Francesco Argenzio, ed elettivamente domiciliato  presso il secondo  in Roma, via Pier Luigi da Palestrina 19

 

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, sez. I, 25 giugno 2003 n. 3414, resa tra le parti.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Vicenza;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del  13 gennaio 2004 il consigliere Marzio Branca,  e uditi gli avvocati Argenzio e Steccanella;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

 

FATTO

L’appello concerne un complesso rapporto conseguente alla individuazione mediante gara informale del soggetto cui affidare in concessione  spazi pubblici per affissioni pubblicitarie in Comune di Vicenza. Si trattava di 360 transenne spartitraffico – parapedonali da cm. 80 per cm. 80 e di 32 bacheche da m. 1 per 1,5. Il canone annuo a base d’asta  era fissato in 2 milioni, oltre il canone occupazione spazi e aree pubbliche pari a L. 20.614.000 annue, che sarebbe rimasto a carico dell’aggiudicatario.

La gara si svolse il 28 dicembre 1998 e risultò vincitrice l’offerta avanzata dalla odierna appellante s.r.l. S.C.I. – Società Concessioni Internazionali, ammontante a lire 57 milioni.

L’esito della gara fu comunicato all’interessata con nota del 15 gennaio 1999, con la precisazione che l’aggiudicazione definitiva sarebbe seguita “con l’approvazione definitiva del relativo provvedimento da parte della giunta comunale”.

L’approvazione intervenne soltanto con deliberazione 18 gennaio 2000 n. 18, a causa della necessità di attendere, come si legge nella motivazione, che il consiglio comunale adottasse il regolamento per il posizionamento delle transenne pedonali a fini pubblicitari, adozione intervenuta con deliberazione 9 novembre 1999.

La deliberazione n. 18 del 2000 esponeva alquanto analiticamente gli impegni che si sarebbero assunti tanto il concessionario che l’Amministrazione e concludeva affidando al “direttore del Settore Contratti e Patrimonio di firmare il relativo atto di concessione”.

Questo atto non è mai stato adottato, e dopo una complessa trattativa sostanzialmente inconcludente, si è giunti alla nota 20 giugno 2001 con la quale la  S.C.I.  diffidava il Comune di Vicenza  a rilasciare la concessione e in subordine a risarcire il danno subito.

Seguiva nell’ottobre successivo la proposizione del ricorso in primo grado.

Con la sentenza in epigrafe il TAR, ritenuto che non sussistessero le condizioni per una condanna dell’Amministrazione a dar seguito all’aggiudicazione, ha accolto la domanda di risarcimento del danno nella misura del 10 % dell’importo che la ricorrente aveva offerto come canone da corrispondere per la concessione.

Avverso la sentenza la S.C.I. ha proposto appello assumendone l’erroneità e chiedendone la riforma con particolare riguardo alla misura del risarcimento.

Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo il rigetto del gravame.

Alla pubblica udienza del 13 gennaio 2004 la causa veniva trattenuta in decisione.

 

DIRITTO

Il gravame contesta in primo luogo il capo di sentenza che non ha accolto la domanda di condanna dell’Amministrazione al risarcimento in forma specifica, ossia alla stipula della concessione, quale adempimento dell’obbligo di dare esecuzione alla deliberazione di aggiudicazione n. 18 del 2000 con conseguente messa a disposizione degli spazi pubblici in contestazione.

E’ necessario chiarire, in concordanza con la più recente giurisprudenza amministrativa (Cons. St., Sez. VI, 3 aprile 2003 n. 1716),  che la reintegrazione in forma specifica del danno ingiusto - ai sensi dell’art. 35, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. c), della l. 21 luglio 2000, n. 205 - deve essere considerata alla stregua di un’alternativa risarcitoria ai sensi dell’art. 2058 del c.c, potendo quest’ultima intervenire anche per equivalente. Essa rimane un rimedio risarcitorio (o comunque riparatorio), ossia una forma di reintegrazione dell’interesse del danneggiato mediante una prestazione diversa e succedanea rispetto al contenuto del rapporto obbligatorio; e non va confusa né con l’azione di adempimento (con la quale si chiede la condanna del debitore all’adempimento dell’obbligazione), né con il diverso rimedio dell’esecuzione in forma specifica, quale strumento per l’attuazione coercitiva del diritto e non mezzo di rimozione diretta delle conseguenze pregiudizievoli.

L’adozione, da parte dell’amministrazione, di un determinato atto o comportamento attiene a profili di adempimento e di esecuzione e non a quelli risarcitori; in presenza di accertata spettanza del provvedimento amministrativo preteso,  l’emanazione dello stesso non costituisce una misura risarcitoria, ma rappresenta la doverosa esecuzione di un obbligo, se ed in quanto questo sussista a carico dell’Amministrazione. L’azione di adempimento, in altri termini, prescinde dall’esistenza dei requisiti previsti dalla legge per il risarcimento del danno (extracontrattuale o contrattuale che sia), quali, in particolare, un danno patrimonialmente apprezzabile e l’elemento soggettivo dell’illecito. Riportare la fase dell’adempimento di un obbligo nell’ambito della reintegrazione in forma specifica e, quindi, della tutela risarcitoria significa estendere a tale fase anche tutti i limiti di siffatta tutela, che sono più rigorosi rispetto a quelli previsti per l’esecuzione. Inoltre, mentre la reintegrazione in forma specifica richiede una verifica in termini di onerosità, ai sensi dell’art. 2058, comma 2, del c.c., tale verifica non è richiesta in relazione alle forme di esecuzione in forma specifica della prestazione originariamente dovuta, per le quali rileva la sola sopravvenuta impossibilità; unico limite a cui è assoggettato l’obbligo conformativo dell’amministrazione.

Tanto premesso,  la domanda avanzata in primo grado, e ora in esame, va correttamente intesa come domanda di accertamento dell’inadempimento di una obbligazione di tipo civilistico, che sarebbe sorta a carico dell’Amministrazione per effetto della deliberazione di aggiudicazione, assumendosi dall’appellante la titolarità di un diritto perfetto alla stipula della convenzione disciplinante la concessione. 

E’ però da osservare che un siffatto diritto perfetto non poteva che fondarsi sulla convenzione (o contratto) che, secondo la deliberazione di aggiudicazione, si sarebbe dovuto concludere con l’intervento del Dirigente preposto al servizio competente, sia per formalizzare la concessione sia per disciplinare i diritti e gli obblighi delle parti pubblica e privata.

Si è già visto che il contratto non fu mai posto in essere, ma anche volendo prescindere da profili di ordine  formale, l’esame della documentazione in atti induce alla conclusione che alla data del 18 gennaio 2000, di adozione della deliberazione di aggiudicazione (n.18),  non era ancora definito con la necessaria completezza l’insieme degli oneri gravanti sul concessionario e la stessa decorrenza della concessione.

Si veda al proposito la nota del 30 dicembre 1999 con la quale l’appellante chiedeva informazioni circa le caratteristiche (monofacciali o bifacciali) delle transenne parapedonali; chiedeva, in relazione allo spostamento voluto dall’Amministrazione, di 17 bacheche e alla installazione di altre 3, una proroga della decorrenza della concessione dal 1° gennaio al !° aprile 2000; e chiedeva un appuntamento per un sopralluogo congiunto per individuare i siti dove effettuare gli spostamenti. Ma ancor più significativa è la nota 13 marzo 2000, inviata dall’appellante all’Amministrazione a seguito del sopralluogo, nella quale si compie una ricognizione analitica dello stato degli spazi pubblici, si denunciano discordanze rispetto a quanto esposto dall’Amministrazione, si chiede di stabilire la decorrenza contrattuale, in relazione alla ultimazione degli interventi che l’Amministrazione avrebbe dovuto compiere per consegnare gli impianti “in buono stato” come previsto nell’avviso di gara.

Si deve concludere quindi che la deliberazione n. 18 del 18 gennaio 2000 non poteva altro effetto che quello della individuazione del concessionario, mentre il vincolo tipico che scaturisce dall’incontro delle volontà delle due parti, con connessi diritti ed obblighi reciproci era ben lontano dal concretarsi.

La posizione dell’appellante, quindi, non si è mai configurata come  diritto pieno all’adempimento dell’obbligazione di dar corso alla concessione, che avrebbe legittimato la pretesa ad una pronuncia di accertamento e di condanna, anche in forza della giurisdizione esclusiva che compete in materia al giudice amministrativo. Materia che sembra preferibile ricondurre a quella delle concessioni di beni pubblici di cui all’art. 5 della legge n. 1034 del 1971, piuttosto a all’area dei servizi pubblici di cui all’art. 33 del d.lgs n. 80 del 1998.

Deve peraltro essere condivisa l’affermazione dei primi giudici circa la sussistenza in capo all’appellante di una posizione di interesse legittimo al rilascio della concessione, e circa la lesione contra jus della detta posizione soggettiva.

Anche ammesso che la concreta individuazione degli spazi da utilizzare e degli interventi destinati a spostamenti o adattamenti degli impianti, nel quadro di un fitto intrecciarsi di proposte anche alternative e reciproche tra le parti, costituisce un punto fermo il fatto l’appellante ha avanzato una formale diffida al Comune in data 20 giugno 2001, lamentando il comportamento dilatorio e inconcludente dell’Amministrazione, chiedendo la stipula della convenzione e in subordine il risarcimento del danno.

A tale richiesta ultimativa l’Amministrazione non ritenuto di dar seguito, concretando così la persistenza del difetto di diligenza e di buona fede nella relazione intercorsa con la Società aggiudicataria.

Va quindi presa in esame la doglianza relativa alla misura del risarcimento del danno per equivalente, richiesto in via subordinata dall’appellante.

Con riguardo al danno emergente, i primi giudici hanno rilevato come l’appellante non abbia offerto alcun principio di prova, ed hanno rigettato la domanda.

La situazione non è mutata in appello. La Società ritiene che l’esposizione delle vicende in contestazione possa esonerare dall’onere della prova circa i danni subiti, e pretenderebbe che il giudice provvedesse  alla loro quantificazione con criterio equitativo in applicazione dell’art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 80 1998. A tal fine si cita una pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. VI, ord. 5 agosto 2003 n. 4460.

La tesi va disattesa.

Va osservato in primo luogo che il ricorso a criteri  equitativi nella determinazione del danno si addice ad ipotesi nelle quali il pregiudizio non è conoscibile perché il fatto che ne avrebbe consentito la quantificazione non è avvenuto e non può più avvenire, sicché occorre procedere in via presuntiva secondo la regola dell’id quod pleunque accidit. A tale criterio non può farsi ricorso quando, invece, i fatti causativi del danno sono avvenuti e sarebbero suscettibili di dimostrazione. Nella specie la Società interessata è in condizioni di sapere e di quantificare l’onere sostenuto per pervenire alla determinazione del contenuto definitivo della concessione (sopralluoghi,  spese telefoniche, di cancelleria, remunerazione di dipendenti, ecc.), ed dunque non vi è ragione di pretendere l’esonero dall’osservanza di un canone fondamentale di ogni diritto processuale.

Il precedente citato dall’appellante, d’altra parte, afferma, secondo il testo trascritto nella memoria per l’udienza, che “può ritenersi assolto l’onere probatorio allorché il ricorrente indichi, a fronte di un danno certo  nella sua verificazione, taluni criteri  di quantificazione dello stesso, salvo il potere del giudice di vagliarne la con divisibilità attraverso l’apporto tecnico del consulente”. Nella specie l’appellante non ha ritenuto neppure di indicare i criteri che, almeno a suo giudizio, avrebbero potuto utilizzarsi per calcolare il danno emergente.

La seconda voce del danno è rappresentata dal lucro cessante, e a questo riguardo  i primi giudici lo hanno quantificato in un  valore pari al  10% dell’importo che la Società era disposta a corrispondere a titolo di canone per la concessione per la durata di quattro anni (57 milioni per 4 =  Euro 117.752,00; 10% = Euro11.775,00).

Secondo l’appellante tale criterio si risolverebbe in un risarcimento irrisorio, e sostiene che utile parametro di riferimento poteva individuarsi nel corrispettivo offerto da altra società quale canone di concessione per analoghi spazi pubblici per affissioni pubblicitarie, rapportato alle diverse dimensioni degli impianti oggetto della concessione qui in esame.

Il TAR ha correttamente respinto il criterio anzidetto, ponendo in evidenza che il valore in questione risultava del tutto estraneo al concetto di utile presumibile, poiché indicava l’onere che l’altra concessionaria si impegnava a corrispondere come canone per la concessione.

Ma altrettanto incompatibile con una quantificazione corretta del lucro cessante si rivela il criterio adombrato nell’atto di appello, con il quale si prefigura il complesso degli investimenti che la realizzazione della concessione avrebbe comportato nel quadriennio. Alcune delle voci di spesa elencate, infatti, debbono considerarsi meramente eventuali (ad es. il costo delle transenne e delle bacheche), altre riferite a incombenze esperibili anche con personale già alle dipendenze della Società, mentre l’importo dell’imposta comunale sulla pubblicità sarebbe stato in concreto sopportato dalla clientela.

In conclusione si rivela condivisibile il criterio individuato dai primi giudici nella misura del 10%  del canone che la Società si è impegnata a pagare come corrispettivo della concessione, posto che il canone è l’onere certo che sarebbe conseguito alla stipula., e l’utile che il danneggiato ha diritto di ricevere deve essere rappresentato dal valore aggiunto che è il frutto dell’attività imprenditoriale, detratti i costi effettivamente sopportati.

Va osservato, infatti, che sia la documentazione prodotta dall’appellante, sia l’eventuale esito di una consulenza tecnica d’ufficio costituiscono fattori inidonei a pervenire con apprezzabile certezza ad una quantificazione corrispondente al danno effettivamente subito, posto che si risolverebbero, in ogni caso, in proiezioni previsionali ricavabili da eventi trascorsi, e quindi inevitabilmente aleatorie.

Il ricorso alla liquidazione in via equitativa si rendeva dunque necessario, oltre che esplicitamente consentito, e, a tal fine, il criterio adottato si rivela esente da mende.

La giurisprudenza amministrativa, confortata dall’avviso della Corte di Cassazione (Sez. I civ. 1115 del 1995), ha ritenuto, infatti, che, sebbene sia previsto per l’ipotesi di esercizio da parte della amministrazione committente della facoltà di recesso, e quindi per pregiudizio da atto legittimo, la corresponsione del 10% come utile presunto possa essere utilizzato come parametro del lucro cessante dell’appaltatore anche nelle ipotesi di responsabilità risarcitoria per inadempimento (Cons. St., Sez. V, 8 luglio 2002 n. 3796).

La sentenza di primo grado va anche confermata per la parte concernente gli accessori del credito.

L’appello va quindi rigettato ma le spese possono essere compensate.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta,    rigetta l’appello in epigrafe;

dispone la compensazione delle spese;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Roma, nelle  camere di consiglio del  13  e 27 gennaio 2004 con l'intervento dei magistrati:

Agostino Elefante         Presidente

Rosalia Bellavia            Consigliere

Giuseppe Farina           Consigliere

Claudio Marchitiello     Consigliere

Marzio Branca             Consigliere est.

 

L'ESTENSORE                                  IL PRESIDENTE

F.to Marzio Branca                             F.to Agostino Elefante

IL SEGRETARIO

F.to Gaetano Navarra

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 15 marzo 2004

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

IL  DIRIGENTE

F.to Antonio Natale

 

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