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Corte dei conti, sez. giurisd. per la Regione Lombardia, 4/3/2008 n. 135
Sulla responsabilità per danno erariale, derivante dalla percezione di tangenti nell’ambito di operazioni di approvvigionamento, di un dipendente di una società totalitariamente partecipata da una s.p.a. con azioni quotate a cap. parz. pubblico

Sussiste la responsabilità per danno erariale, derivante dalla percezione di tangenti nell’ambito di operazioni di approvvigionamento, di un dipendente di una società totalitariamente partecipata da una s.p.a. con azioni quotate a capitale parzialmente pubblico.
Muovendo dall’assunto dell’ammissibilità dell’assunzione o della detenzione da parte di enti pubblici di partecipazioni in società miste se di misura tale da assicurare al socio pubblico quel minimo di influenza sull’attività di attuazione dell’oggetto sociale che, sola, potrebbe giustificare il perseguimento delle "proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato", con riguardo a società a capitale pubblico del genere di ENI s.p.a., ENIPOWER S.p.A. e SNAMPROGETTI S.p.A., la Corte di Giustizia (e ribadito di recente: v. Corte di giustizia europea, Sez. I, sent. 6.12.2007, in causa C-464/04), ha chiarito, riferendosi alle imprese che operano nei settori del petrolio, delle telecomunicazioni e dell'elettricità, che "non può negarsi che l'obiettivo di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti di tali prodotti o la fornitura di tali servizi in caso di crisi, sul territorio dello Stato membro di cui si tratta, può costituire una ragione di pubblica sicurezza e, pertanto, giustificare eventualmente un ostacolo alla libera circolazione dei capitali ". In altri termini, per la Corte è ammissibile che il diritto interno permetta di garantire nello Stato membro considerato, in caso di minaccia effettiva e grave, un approvvigionamento minimo di energia e non vada oltre quanto necessario a tal fine.
Alla partecipazione pubblica minoritaria in una società mista (rectius, all’investimento di risorse pubbliche in una società in cui l’azionariato privato rappresenti più della metà del capitale sociale) dev’essere comunque sotteso un interesse pubblico. Interesse, questo, il cui soddisfacimento non può consistere nella sola creazione di utilità riducibili ad un mero ritorno di carattere imprenditoriale. Nel caso di specie, alla luce della ricostruzione compiuta dalla Corte di Giustizia, un valido motivo di ordine superindividuale appare da ravvisare nella (riconosciuta) necessità, per gli Stati membri, di aver cura del legittimo interesse pubblico alla sicurezza degli approvvigionamenti di energia in caso di crisi.

Vi è il dubbio che, in ambito societario, l’azione erariale intestata al PM contabile sia di dubbia compatibilità con l’azione di responsabilità prevista dal diritto comune (art. 2393 c.c.). Ciò, in particolare, laddove la società sia a capitale misto, cioè in parte pubblico e in parte invece privato.
E’ evidente che l’alternativa fra azione sociale di responsabilità prevista dagli artt. 2393 e ss., c.c. e azione pubblica di responsabilità intestata al PM contabile è, in realtà, un’alternativa fra azioni oggettivamente diverse e non comparabili. La seconda, infatti, per un verso non può tendere a risultati che vadano al di là del reintegro della sfera patrimoniale di pertinenza del (solo) soggetto pubblico, sicché in caso di vittorioso esperimento da parte del PM contabile i suoi effetti non potranno riverberarsi favorevolmente che su detto soggetto. Di contro, detta azione si contraddistingue non soltanto perché il suo esperimento risulta obbligatorio per il PM contabile, ma anche perché in nessun momento essa risulta, in senso tecnico, rinunciabile o transigibile .
Onde evitare il rischio di frustrazione in fatto dell’interesse pubblico alla salvaguardia delle risorse finanziarie pubbliche, deve essere esperita l’azione erariale nei confronti di amministratori e dipendenti di società a partecipazione pubblica. Il punto fermo è infatti l’esclusività della giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica, sancita dall’art. 103, c. 2, Cost., quale trova riscontro anche nel diritto vivente più recente, e in specie nelle decisioni della Corte costituzionale (sent. n. 272 del 2007) e delle SS. UU. della Corte di Cassazione (da ultimo, sent. n. 22059 del 2007). Pertanto, quando vi è di mezzo la partecipazione (in misura non marginale) di un socio pubblico, il diritto comune delle società in parte (variabile, ma comunque significativa) non si applica per legge (conformemente a quanto del resto previsto dalla stessa relazione al codice civile, che reca in proposito una formula aperta).
Dunque, il metro da utilizzare ai fini del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice contabile, specie dopo le recenti univoche prese di posizione delle SS.UU. della Corte di Cassazione, si è evoluto, in radice, dall’applicazione secondo una tecnica di tipo selettivo ad una di tipo, viceversa, attrattivo, e quindi esclusivista.
Se il p.m. contabile può esplicare l’azione erariale, nel caso di società a capitale in parte pubblico, e quindi misto, nei limiti della sola quota di danno di pertinenza del socio o dei soci pubblici, risulta evidente che, nel caso di specie, il Giudice contabile non potrebbe riconoscere il diritto al risarcimento, conseguente alla condanna, dell’ENI S.p.A., dell’ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A.. Non in favore di ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A., anzitutto, perché in tal modo si favorirebbero in ultima analisi anche gli azionisti privati della società da cui esse sono "controllate", con la conseguenza che l’esercizio dell’azione erariale non soltanto finirebbe con il procurare un esito utile a vantaggio di soggetti diversi da quelli a garanzia dei quali solamente può produrre effetti, ma anzi potrebbe procurarlo - paradossalmente - persino a dispetto di un’eventuale volontà contraria di questi beneficiari (appunto, gli azionisti privati). Detto altrimenti, ove si ritenesse consentito a questo Giudice di riconoscere il diritto al risarcimento, conseguente alla condanna, in favore di ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A., ne conseguirebbe il sostanziale esproprio – a danno degli azionisti privati presenti nel capitale delle società azioniste di ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A. – del diritto di rinunciare o transigere, per la quota che li concerne, la relativa pretesa.


Materia: pubblica amministrazione / responsabilità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE

PER LA REGIONE LOMBARDIA

composta dai seguenti magistrati:

Dr. Giuseppe Nicoletti Presidente

Dr. Antonio Caruso Componente

Dr. Massimiliano Atelli Componente relatore

VISTI il regio decreto 13 agosto 1933, n.1038, il decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito dalla legge 14 gennaio 1994, n.19 e la legge 14 gennaio 1994, n. 20; gli artt. 1, comma 174, della l. n. 266 del 2005 e 2901 c.c.;

VISTI gli atti ed i documenti di causa;

UDITI nella pubblica udienza del giorno 30.1.2008 il relatore, dr. Atelli, il Pubblico ministero, nella persona del dr. Chiarenza;

ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nel giudizio iscritto al n. 24243 del registro di segreteria ad istanza della Procura regionale per la Lombardia contro XXXX, nato a il, residente in, non costituito.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione depositata in data 17.4.2007, la Procura attrice ha esercitato l’azione erariale nei confronti di XXXX, nato a il, residente in, instando per la sua condanna al pagamento, in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze, dell’ENI S.p.A., dell’ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A., della somma di € 706.922,00, a titolo di riparazione del danno derivante dalla percezione di illeciti compensi e retribuzioni, di rilevante entità.

Le condotte contestate attengono al compimento di una serie di atti di corruzione nelle forniture di ENIPOWER e nella successiva fase di esecuzione dei contratti, concordando sistematicamente con società fornitrici percentuali (fino al 5 %) dell’importo di contratti sia in Italia che all’estero, al fine di ottenere sia l’aggiudicazione dei contratti che agevolazioni nella successiva fase dell’esecuzione degli appalti.

In particolare, sarebbe stato riscontrato che il Xxxx forniva, a favore delle società corruttrici, informazioni riservate concernenti le gare, allo scopo di procurarne l’aggiudicazione alle imprese favorite con il minore ribasso possibile, assicurando, in fase di esecuzione dei contratto, una omissione o un affievolimento del controllo che lui stesso era tenuto ad effettuare in qualità di Project Manager delle commesse (ordinanza 5 agosto 2004, pag. 8 e 9, int. Xxxx del 29 luglio 2004, pag. 5, in cui specifica che il pagamento delle tangenti era spesso correlato al pagamento degli stati di avanzamento dei lavori – SAL, e pag. 11). Benché le gare venissero svolte, per tutte le società del gruppo ENI, compresa ENIPOWER, dalla consorella SNAMPROGETTI, e quindi i dati delle gare non fossero, a suo dire, in suo diretto possesso, il Xxxx, da avviso della Procura, poteva procurarsi la disponibilità dei dati tecnici occorrenti per favorire le imprese corruttrici da SNAMPROGETTI, in quanto ENIPOWER, committente finale, attraverso il proprio Project Manager (nella specie, l’odierno convenuto), poteva fare osservazioni sulle offerte tecniche in sede di gara e sull’andamento dei lavori, cosa che non faceva mai a danno delle imprese che avevano pagato.

Va sul punto specificato che, in esecuzione dell’appalto di servizi affidato in via diretta, SNAMPROGETTI S.p.A. ha gestito per conto dell’ENIPOWER S.p.A. le procedure d’appalto per la realizzazione di centrali. In base a detto contratto, alla SNAMPROGETTI S.p.A. erano demandati tutti gli adempimenti procedurali previsti dalla normativa di settore, ma ENIPOWER S.p.A. si era riservata, in quanto contraente finale, di svolgere, attraverso i suoi rappresentanti, le trattative commerciali con i possibili fornitori e di interagire con la SNAMPROGETTI S.p.A. nelle varie fasi dell’attività negoziale.

Nell’ambito di una relazione intersoggettiva di questo tipo, il convenuto rivestiva, come si è già accennato, il ruolo di Project Manager della commessa. Tale figura, secondo quanto risulta in atti, è il rappresentante della committente (ENIPOWER) e svolge una serie d’attività durante lo svolgimento del progetto, intervenendo in più fasi. In particolare, per quanto qui rileva, il Project Manager, con l’ausilio delle strutture interne ad ENIPOWER S.p.A. preposte (ACQUISTI - APPALTI ed altre), partecipa in modo determinate alle valutazioni tecniche in fase di approvvigionamento e cura gli aspetti tecnici ed economici in fase di esecuzione dei contratti (varianti e penali).

Tutto ciò premesso, si contesta al convenuto di aver stipulato un duplice accordo illecito sia per favorire l’aggiudicazione dell’appalto relativo alla centrale di Brindisi a favore della Nuova Magrini Galileo, previa corresponsione di una tangente pari all’1,5 % dell’intera commessa, sia per agevolarla nell’introduzioni di varianti in corso d’opera, ricevendo ulteriori € 20.000,00 per la fornitura, in variante, di 7 interruttori SF6 – 420 KV per un importo complessivo di € 528.000,00.

Sulle controprestazioni offerte in cambio delle tangenti ricevute, Xxxx è stato ad avviso della Procura molto esplicito, avendo ammesso che la contropartita era, a seconda del tipo di intervento nelle sue possibilità, sostanzialmente la comunicazione di dati riservati riguardanti le gare ovvero il mancato controllo o l’affievolimento del controllo in sede di esecuzione del contratto (int. cit., pag. 11), con riferimento alla quale erano stati concordati – a fronte di un’offerta molto al ribasso - possibili recuperi e dunque margini di profitto (int. 11 agosto 2004, pag. 12).

Detti recuperi, ad avviso della Procura attrice, si sarebbero realizzati, nel caso di specie (concernente un appalto di fornitura per i siti di Ravenna e Brindisi), nel seguente modo: dapprima, si sarebbe provocata la sospensione dell’aggiudicazione in favore di ANSALDO ENERGIA (della quale erano ormai maturati i presupposti), non già per nuove ed impreviste esigenze tecniche ma per la presunta insufficienza del budget previsto (in realtà, scientemente ridotto, all’improvviso, proprio al fine di imprimere uno stop alla procedura); indi, attraverso una modifica del progetto iniziale, sollecitata (in luogo del più promettente re-bid con i fornitori proposto dall’ing. Merli in data 6.2.2002) dall’odierno convenuto - all’esito della quale Snamprogetti S.p.A. ha predisposto una nuova richiesta d’offerta, in relazione alla quale le società già partecipanti alla gara in argomento hanno formulato la loro nuova migliore offerta – che ha determinato un significativo aumento dell’importo di tutte le offerte ad eccezione di quella presentata dalla Nuova Magrini Galileo che, di fatto, è rimasta pressoché invariata, ed ha così potuto ottenere l’aggiudicazione dell’appalto in quanto estremamente conveniente. Circostanza, questa, destinata secondo la Procura attrice ad assumere una particolare valenza alla luce delle successive modifiche, apportate in fase esecutiva, che hanno elevato l’importo del contratto ad € 6.055.702,39, con una lievitazione pari al 50,52% del prezzo d’aggiudicazione.

Tutto ciò premesso in ordine ai comportamenti addebitati, per quanto attiene alle singole poste di danno di cui la Procura attrice rivendica il risarcimento, per complessivi € 706.922,00, vengono distinti in citazione:

1) il danno diretto di € 284.622,00 conseguente all’accordo illecito stipulato dal Xxxx con la Nuova Magrini Galileo, in relazione all’aggiudicazione dell’appalto di fornitura, pari alla differenza tra la migliore offerta dell’Ansaldo Energia (€ 3.738.378,00) e quella formulata dalla Nuova Magrini Galileo e tradotta nell’ordine di acquisto (€ 4.023.000,00), prezzo "spuntato" da quest’ultima società per effetto del documentato intervento nelle procedure di gara, a suo favore, operato dal Xxxx, mediante una condotta illecita e dolosa espressamente finalizzata a farle ottenere l’aggiudicazione del contratto, previa corresponsione di una ricompensa pari all’1,5 % del suo valore (€ 60.345,00);

2) un’ulteriore quota di danno diretto, quantificabile in € 20.000,00, pari alla tangente percepita per fare ottenere, in variante, l’accettazione dei citati 7 interruttori;

3) il danno ravvisabile nell’alterazione delle regole poste dall’ordinamento nazionale e comunitario a tutela della concorrenza e del mercato, con conseguente stipulazione di accordi contrattuali invalidi, o comunque inefficaci, in quanto illeciti, quantificato in € 402.300,00, pari all’utile di impresa (10 %).

All’udienza del 30.1.2008, la Procura attrice insisteva nella propria prospettazione accusatoria, ribadendo la sussistenza della giurisdizione di questa Corte.

Il convenuto non si costituiva.

Terminata l’udienza, la causa veniva trattenuta in decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.Premesso che nella specie si controverte in ordine alla sussistenza della responsabilità per danno erariale – derivante dalla percezione di tangenti nell’ambito di operazioni di approvvigionamento - di un dipendente (occupante nell’organigramma interno una posizione subvalente rispetto agli amministratori e al direttore generale) di una società totalitariamente partecipata da una s.p.a. con azioni quotate a capitale parzialmente pubblico, il Collegio ritiene di dover preliminarmente ribadire la sussistenza della giurisdizione di questo Giudice nei confronti di amministratori e dipendenti di persone giuridiche aventi le caratteristiche di ENIPOWER s.p.a., già affermata da questa Sezione nelle decisioni n. 448 del 2007 e 114 del 2006, e dalle SS.UU. della Corte di Cassazione, specie nelle sent. nn. 3899 del 2004 e 9096 del 2005.

Quanto alle ragioni, esse sono già state ampiamente sviluppate nella citata decisione n. 448, e debbono intendersi qui integralmente richiamate. E poiché il Collegio ritiene che le argomentazioni sviluppate in quella sede siano più che sufficienti, ai fini che qui interessano, a dare evidenza piena al radicarsi della giurisdizione di questa Corte in casi come quello per cui è causa, non reputa di dover dedicare altro che un cenno, nei termini che seguono, a profili cui avrebbe altrimenti riservato più ampia trattazione.

Nell’ampio e frastagliato arcipelago delle società a partecipazione pubblica vanno infatti distinti i casi nei quali, per le caratteristiche proprie del soggetto a forma societaria, non è in discussione la sua allocazione a pieno titolo fra i soggetti pubblici. E’ il caso, in primo luogo, delle società che ad avviso della Corte costituzionale (sent. n. 363 del 2003), in quanto costituite in base alla legge, affidatarie di compiti legislativamente previsti e per esse obbligatori, operanti direttamente nell’ambito delle politiche di un Ministero come strumento organizzativo per il perseguimento di specifiche finalità, presentano <<tutti i caratteri propri dell’ente strumentale, salvo quello di rivestire – per espressa disposizione legislativa – la forma della società per azioni>>.

Ma lo stesso è a dirsi per le società - partecipate da enti statali, regionali o locali – la cui relazione con l’ente o con gli enti pubblici soci si declini in concreto secondo la formula dell’in house providing, come noto ammissibile, secondo la giurisprudenza sia nazionale che comunitaria, quando: a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto aggiudicatario un "controllo analogo" a quello esercitato sui propri servizi; b) il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.

In ragione di queste caratteristiche, l’ente in house non può ritenersi "terzo" rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa (in giurisprudenza, del resto, è stata al riguardo eloquentemente evocata anche la figura della delegazione interorganica): non è, pertanto, necessario che l’amministrazione ponga in essere procedure di evidenza pubblica per l’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture (v. Cons. Stato, sez. II, n. 456 del 2007, e l’ampia giurisprudenza comunitaria in esso richiamata).

Sicché, rispetto alle società omologabili al tipo di cui alla citata sentenza n. 363 del 2003, così come rispetto a quelle c.d. in house, la soggezione alla giurisprudenza di questa Corte per quanto attiene alla responsabilità per danno erariale di amministratori e dipendenti non è evidentemente dubitabile. Si tratta, a tutti gli effetti, di plessi che sono parte integrante dell’apparato pubblico, e dunque non v’è alcun motivo di distinguerli dagli altri, sotto il profilo che qui rileva.

Maggiormente articolato appare il discorso ove si abbia riguardo, dal medesimo punto di vista, alle società a capitale misto (pubblico e privato).

In proposito, ad avviso di questo Collegio, va puntualizzato anzitutto che quando si discute di società a capitale misto ci si intende riferire alle società nelle quali un ente pubblico abbia assunto o detenga partecipazioni la cui misura sia tale da inverare l’idea che <<l’amministrazione svolge attività amministrativa non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato>>, giacché <<tali forme costituiscono nient’altro che lo strumento a tali fini utilizzabile ed utilizzato>> (così, Cass., SS.UU., ord. n. 19667 del 2003).

In altri termini, ritiene il Collegio che sia dubitabile l’ammissibilità dell’assunzione o della detenzione – si badi, in via diretta - da parte di enti pubblici di partecipazioni che, per la loro modestia (si pensi all’ 1 % del capitale sociale), risultino intrinsecamente inidonee ad assicurare al socio pubblico quel minimo di influenza nell’attività di attuazione dell’oggetto sociale che, sola, potrebbe giustificare (anche nell’ambito in cui risultavano un tempo applicabili gli artt. 2449 e 2450 c.c.) il perseguimento delle <<proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato>>. Ciò fermo restando che risulta invece pienamente ammissibile assumere o detenere una partecipazione, anche di assoluta modestia (per rimanere all’esempio fatto, anche l’ 1 %), se essa va ad inserirsi in un contesto che colora di senso e plausibilità questa scelta di allocazione di risorse pubbliche (si pensi all’ 1 % di capitale che risulti in concreto essenziale, nell’ambito di una fattispecie di <<controllo analogo>> congiunto, per assicurare il carattere totalitario della partecipazione pubblica riferibile a più enti soci: v. TAR Lazio, Roma, Sezione II ter, sent. 16.10.2007 n. 9988, che ha riconosciuto la sussistenza del <<controllo analogo>> congiunto anche con riferimento ad un Comune che possedeva appena lo 0,5 % del capitale sociale).

Se così è, all’investimento di risorse di proprietà pubblica deve corrispondere un interesse pubblico, che nelle società miste è destinato naturalmente a convivere con quello di cui è portatore l’azionista privato. Interesse, quest’ultimo, che se può avere l’effetto di escludere la piena appartenenza della società all’apparato pubblico propriamente inteso (sub specie di in house providing: v. da ultimo Corte di Giustizia, Sez. I, 6.4.2006 n. C-410/04), non fa invece in alcun modo venir meno la natura pubblica (né l’aspetto finalistico che vi è, come detto, sotteso) delle risorse investite dal socio pubblico.

Muovendo dunque dall’assunto dell’ammissibilità dell’assunzione o della detenzione da parte di enti pubblici di partecipazioni in società miste se di misura tale da assicurare al socio pubblico quel minimo di influenza sull’attività di attuazione dell’oggetto sociale che, sola, potrebbe giustificare il perseguimento delle <<proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato>>, va osservato che, con riguardo a società a capitale pubblico del genere di ENI s.p.a., ENIPOWER S.p.A. e SNAMPROGETTI S.p.A., la Corte di Giustizia ha come noto da tempo chiarito (e ribadito di recente: v. Corte di giustizia europea, Sez. I, sent. 6.12.2007, in causa C-464/04), riferendosi alle imprese che operano nei settori del petrolio, delle telecomunicazioni e dell'elettricità, che <<non può negarsi che l'obiettivo di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti di tali prodotti o la fornitura di tali servizi in caso di crisi, sul territorio dello Stato membro di cui si tratta, può costituire una ragione di pubblica sicurezza e, pertanto, giustificare eventualmente un ostacolo alla libera circolazione dei capitali>>, fermo restando che <<le esigenze della pubblica sicurezza, particolarmente in quanto autorizzano una deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei capitali, devono essere intese in senso restrittivo, di guisa che la loro portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni comunitarie. La pubblica sicurezza può essere quindi invocata solamente in caso di minaccia effettiva ed abbastanza grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività>>.

Il che va inteso nel senso che <<si deve quindi verificare se la normativa controversa relativa a queste … imprese permetta di assicurare nello Stato membro interessato, in caso di grave ed effettivo pericolo, un approvvigionamento minimo di prodotti petroliferi e di elettricità, nonché un livello minimo di servizi di telecomunicazioni e non vada oltre quanto necessario a tal fine>> (così, sent. del 13.5.2003, in causa C-463/00).

Il tema di fondo è quello della necessaria ricerca – in ogni Paese della Comunità europea (e non solo in Italia) - di un equilibrio tra il rispetto della concorrenza tra operatori economici, da una parte, e l'obiettivo della sicurezza dell'approvvigionamento, dall’altra.

Su questo piano, quel che il diritto comunitario vivente non ammette è la creazione di ingiustificati ostacoli al diritto di stabilimento dei cittadini di altri Stati membri, come pure alla libera circolazione dei capitali all'interno della Comunità (in quanto potrebbero intralciare o scoraggiare l'esercizio di tali libertà), in nome dell'obiettivo di garantire la sicurezza dell'approvvigionamento di energia in caso di crisi.

Questo assunto deve tuttavia essere meglio approfondito. La Corte di Giustizia ha infatti riconosciuto che l'approvvigionamento di energia costituisce un obiettivo di utilità pubblica e, così come la necessità di mantenere le infrastrutture di trasporto dei prodotti energetici, può rientrare in linea di principio tra i motivi imperiosi di interesse generale che giustificano una compressione del diritto di stabilimento e della libera circolazione dei capitali all'interno della Comunità. Occorre, però, è stato puntualizzato, che sia assicurato il carattere necessario e proporzionato dei provvedimenti in questione rispetto allo scopo da raggiungere.

In particolare, ha precisato la Corte (sent. 4.6.2002, nella causa C-503/99), <<come risulta anche dalla comunicazione del 1997, non possono essere negate le preoccupazioni che, a seconda delle circostanze, possono giustificare il fatto che gli Stati membri conservino una certa influenza sulle imprese inizialmente pubbliche e successivamente privatizzate, qualora tali imprese operino nei settori dei servizi di interesse generale o strategico>>.

Ciò perché <<non può negarsi che l'obiettivo perseguito dalla normativa controversa, ossia garantire la sicurezza degli approvvigionamenti di energia in caso di crisi, rientri nell'ambito di un legittimo interesse pubblico. Infatti, la Corte ha già individuato, tra i motivi di pubblica sicurezza che possono giustificare un ostacolo alla libera circolazione delle merci, l'obiettivo di garantire una fornitura minima costante di prodotti petroliferi (…). Lo stesso ragionamento vale per gli ostacoli alla libera circolazione dei capitali, in quanto la pubblica sicurezza compare anche tra i motivi giustificativi menzionati all'art. 73 d), n. 1, lett. b), del Trattato>>.

In altri termini, per la Corte è ammissibile che il diritto interno permetta di garantire nello Stato membro considerato, in caso di minaccia effettiva e grave, un approvvigionamento minimo di energia e non vada oltre quanto necessario a tal fine.

Ma se così è, la sicurezza degli approvvigionamenti di energia in caso di crisi, è aspetto che rientra nell'ambito di un legittimo interesse pubblico, tanto da poter giustificare, a seconda delle circostanze, il fatto che gli Stati membri conservino una certa influenza sulle imprese inizialmente pubbliche e successivamente privatizzate, qualora tali imprese operino nei settori dei servizi di interesse generale o strategico.

Il tema dell’influenza conservabile dagli Stati membri rileva sotto diversi punti di vista. Ad esempio, proprio l’influenza che per il tramite della partecipazione di controllo posseduta (tale dovendosi considerare, nel diritto interno, la partecipazione - in una società con azioni quotate - che superi la soglia del 30 % di cui all’art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998: v. sul punto la citata decisione n. 448 del 2007 di questa Sezione) lo Stato è ancora in grado di dispiegare in ENI s.p.a. (e dunque, di riflesso, nelle società da questa partecipate in misura rilevante o totalitariamente), ne determina la soggezione alle regole di evidenza pubblica.

Al riguardo, infatti, occorre ad avviso del Collegio evitare di compiere un’inversione logica, muovendo da quest’ultimo obbligo come se esso fosse la causa anziché l’effetto. Al contrario, siffatto obbligo discende da una ragione di ordine proprietario.

Sul ruolo della proprietà pubblica (in tutto o in parte) del capitale nelle «imprese pubbliche», del resto, il diritto comunitario e, sulla scia del primo, quello interno, sono estremamente chiari: in particolare, le imprese pubbliche sono quelle su cui le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante <<perché ne sono proprietarie>>, e questa influenza dominante è presunta quando le amministrazioni aggiudicatrici, direttamente o indirettamente, riguardo all'impresa, alternativamente o cumulativamente <<detengono la maggioranza del capitale sottoscritto>>.

Di qui, un assetto nel quale, se l’influenza dominante è da presumere nei casi in cui le amministrazioni aggiudicatrici, direttamente o indirettamente, riguardo all'impresa, alternativamente o cumulativamente detengano <<la maggioranza del capitale sottoscritto>>, negli altri casi essa può comunque sussistere, pur non potendosi presumere, ma dovendosene al contrario dare la prova (prova di cui non v’è peraltro bisogno nei casi in cui la partecipazione pubblica in società con azioni quotate si attesti al di sopra del 30 %, alla luce dell’art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998: v. sent. n. 448, cit.).

Stando così le cose, il riferimento all'influenza dominante esercitabile perché dette amministrazioni delle imprese in discorso <<sono proprietarie>> va logicamente interpretato come relativo (anche) a situazioni nelle quali le prime detengono meno della <<maggioranza del capitale sottoscritto>> delle seconde. Detto altrimenti, si allude attraverso questa locuzione di derivazione comunitaria ai casi in cui v’è sì una proprietà pubblica del capitale, ma essa non corrisponde alla <<maggioranza del capitale sottoscritto>>. Tale allocuzione allude, cioè, alla fattispecie della società mista (quotata o meno che sia) con partecipazione pubblica minoritaria sì, ma tale comunque (per la sua misura) da garantire un’influenza dominante al socio pubblico.

Del resto, anche la Corte costituzionale – nel pronunciarsi (sent. n. 466 del 1993) sulla spettanza alla Corte dei conti, nei confronti delle società per azioni derivate dalla trasformazione dell'I.R.I., dell'E.N.I., dell'I.N.A. e dell'E.N.E.L., del potere di controllo di cui all'art. 12 della legge n. 259 del 1958 – ha affermato che esso va esercitato fino a quando permanga, rispetto al capitale delle stesse società, la partecipazione esclusiva <<o maggioritaria dello Stato>> (laddove in società quotate ad azionariato fortemente diffuso anche una partecipazione superiore al 30 % deve essere evidentemente considerata <<maggioritaria>>, in quanto di controllo).

Alla luce di queste considerazioni, il senso della norma oggi rinvenibile (quanto al diritto interno vigente) nell’art. 3, comma 28, del d.lgs. n. 163 del 2006, appare allora quello di far discendere, in capo alla società mista (quotata o meno che sia) con partecipazione pubblica minoritaria sì, ma tale comunque (per la sua misura) da garantire un’influenza dominante al socio pubblico, l’obbligo di ricorso all’evidenza pubblica, per gli approvvigionamenti. Il fondamento di siffatto obbligo riposa, dunque, su una radice di ordine proprietario.

Va a questo punto ribadito che alla partecipazione pubblica minoritaria in una società mista (rectius, all’investimento di risorse pubbliche in una società in cui l’azionariato privato rappresenti più della maetà del capitale sociale) dev’essere comunque sotteso un interesse pubblico. Interesse, questo, il cui soddisfacimento non può consistere nella sola creazione di utilità riducibili ad un mero ritorno di carattere imprenditoriale (cfr. Cons. giust. amm.va Regione siciliana, sent. n. 197 del 2007).

E nella specie, alla luce della cennata ricostruzione compiuta dalla Corte di Giustizia, un valido motivo di ordine superindividuale appare da ravvisare nella (riconosciuta) necessità, per gli Stati membri, di aver cura del legittimo interesse pubblico alla sicurezza degli approvvigionamenti di energia in caso di crisi.

2. Per ciò che attiene al merito, va acclarata anzitutto la sussistenza delle componenti strutturali dell’illecito amministrativo-contabile (condotta, evento dannoso, nesso causale, elemento psicologico).

In ordine all’elemento condotta (dolosa), ad avviso di questo Giudice la intervenuta intenzionale percezione da parte del convenuto di tangenti connesse alle procedure di aggiudicazione delle gare per cui è causa e alla esecuzione dei relativi contratti, a prescindere dalla assenza di un giudicato penale sul punto (non costituente, notoriamente, l’unico strumento probatorio rilevante in sede giuscontabile), è desumibile dalle dichiarazioni confessorie rese dallo stesso Xxxx in sede penale ad un pubblico ministero. Tali dichiarazioni, sia in quanto confessorie, sia in quanto rese ad un pubblico ufficiale, fanno fede fino a querela di falso su ciò che risulta dichiarato in presenza del PM.

Il Xxxx ha infatti confessato (v. interrogatori 24 e 29 luglio 2004; 11 e 12 agosto 2004), descrivendo l’intero sistema tangentizio, sia nelle sue finalità (favorire ditte in fase di aggiudicazione fornendo documenti riservati o interni; attenuare i controlli in sede di esecuzione dei contratti per favorire "recuperi" finanziari alle imprese aggiudicatarie a prezzi poco remunerativi), sia nelle modalità erogative della tangente (versamenti in conti esteri di liquidità in nero delle imprese corruttrici, emissioni di fatture fittizie per inesistenti consulenze da società di comodo).

Sulla scorta delle univoche e attendibili dichiarazioni confessorie del convenuto, rese come detto in sede penale innanzi ad un pubblico ufficiale e non smentite in questa sede giuscontabile, è dunque da ritenere accertata l’esistenza di un sistema tangentizio presso la ENIPOWER S.p.A. e SNAMPROGETTI S.p.A. – nel quale si collocano la condotte contestate all’odierno convenuto - volto ad introitare somme versate da parte di imprese partecipanti a gare ad evidenza pubblica in cambio di informazioni riservate (e di ulteriori comportamenti strategici di favoritismo), al fine di avvantaggiare le società corruttrici in sede di aggiudicazione, nonché, attraverso omissioni nei controlli, in sede esecutiva.

3. In ordine alle condotte contestate, come sopra descritte, il Collegio osserva che l’obbligo – gravante sulle imprese pubbliche - di utilizzare in ambito contrattuale procedure di affidamento governate da regole di diritto pubblico, vale a colorare in modo consequenziale, dal punto di vista giuridico, le condotte materiali tenute dagli autori dei comportamenti in questa sede contestati.

Nel caso che ne occupa, dette condotte materiali si sono risolte nella fornitura di informazioni utili per la formulazione delle offerte e nel mancato controllo o nell’affievolimento del controllo in sede di esecuzione del contratto di fornitura, con riferimento alla quale erano stati concordati – a fronte di un’offerta molto al ribasso - possibili recuperi e dunque margini di profitto.

Più in particolare, quanto alla condotta consistita nella fornitura di informazioni utili, si tratta, come già questa Corte ha avuto modo di affermare nella citata sentenza n. 448 del 2007, di comportamenti tutt’altro che privi di rilevanza giuridica.

E’ infatti di immediata evidenza che l’asimmetrica fornitura di informazioni (ad alcuni concorrenti e non ad altri, cioè) la cui conoscenza sia idonea ad influenzare anche grandemente la formulazione delle rispettive offerte da parte dei partecipanti alla gara costituisce comportamento vietato in quanto pone contemporaneamente a rischio due interessi giuridici, speculari, di rango primario, all’effettività della competizione fra concorrenti, propri (anche se sotto due profili diversi) della stazione appaltante così come delle imprese in competizione fra di loro.

Sono, questi due interessi speculari, quelli la cui lesione (possibile con un unico comportamento tenuto da uno stesso soggetto) produce quel danno alla concorrenza – già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (v. in particolare la sent. n. 447 del 2006 di questa Sezione) - che è, ad un tempo, pregiudizio per i soggetti pubblici e per il mercato.

Da questo punto di vista, è appena il caso di richiamare la recente decisione n. 401 del 2007 della Corte costituzionale, nella quale si è posto <<in rilievo l’aspetto della tutela della concorrenza che si concretizza, in primo luogo, nell’esigenza di assicurare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi (articoli 3, paragrafo 1, lettere c e g; 4, paragrafo. 1; da 23 a 31; da 39 a 60 del Trattato che istituisce la Comunità europea, del 25 marzo 1957).

Si tratta di assicurare l’adozione di uniformi procedure di evidenza pubblica nella scelta del contraente, idonee a garantire, in particolare, il rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza.

Sul piano interno, l’osservanza di tali principi costituisce, tra l’altro, attuazione delle stesse regole costituzionali della imparzialità e del buon andamento, che devono guidare l’azione della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost. Deve, anzi, rilevarsi come sia stata proprio l’esigenza di uniformare la normativa interna a quella comunitaria, sul piano della disciplina del procedimento di scelta del contraente, che ha determinato il definitivo superamento della cosiddetta concezione contabilistica, che qualificava tale normativa interna come posta esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione, anche ai fini della corretta formazione della sua volontà negoziale.

Va, inoltre, precisato che l’osservanza delle prescrizioni comunitarie ed interne di evidenza pubblica garantisce il rispetto delle regole dell’efficacia e dell’efficienza dell’attività dei pubblici poteri: la selezione della migliore offerta assicura, infatti, la piena attuazione degli interessi pubblici in relazione al bene o al servizio oggetto dell’aggiudicazione.>>.

La Corte non ha dubbi, in altri termini, sul fatto che nell’ambito della disciplina comunitaria risulti centrale <<l’esigenza di garantire la concorrenza e di acquisire la prestazione al prezzo più vantaggioso per l’amministrazione>> (in tal senso, già la sent. n. 40 del 1998).

Così stando le cose, ad avviso del Collegio particolare rilevanza è evidentemente destinata ad assumere la circostanza che, in conseguenza di una modifica del progetto iniziale, occasionata attraverso una contraddittoria riduzione del budget già stanziato e coevamente sollecitata (in luogo del più promettente re-bid con i fornitori proposto dall’ing. Merli in data 6.2.2002) dall’odierno convenuto - all’esito della quale Snamprogetti S.p.A. ha predisposto una nuova richiesta d’offerta, in relazione alla quale le società già partecipanti alla gara in argomento hanno formulato la loro nuova migliore offerta – si sia determinato un significativo aumento dell’importo di tutte le offerte ad eccezione di quella relativa all’offerta presentata dalla Nuova Magrini Galileo che, di fatto, è rimasta pressoché invariata, ed ha così potuto ottenere l’aggiudicazione dell’appalto in quanto estremamente conveniente. Circostanza, questa, che effettivamente è destinata ad assumere un particolare significato alla luce delle successive modifiche, apportate in fase esecutiva, che hanno elevato l’importo del contratto addirittura ad € 6.055.702,39, con una lievitazione pari al 50,52% del prezzo d’aggiudicazione.

Considerazioni non diverse vanno svolte, d’altra parte, in ordine alle ulteriori condotte contestate al Xxxx, riguardo al mancato controllo o all’affievolimento del controllo in sede di esecuzione del contratto, con riferimento alla quale erano stati concordati – a fronte di un’offerta molto al ribasso - possibili recuperi e dunque margini di profitto (int. 11 agosto 2004, pag. 12).

A fronte di simili condotte, il Collegio reputa credibile, per quanto in atti, la prospettazione accusatoria, secondo la quale quand’anche fosse dubitabile la responsabilità dell’odierno convenuto nel determinare lo stato di impasse esitato nella proposta di modifica del progetto iniziale (in luogo del più promettente re-bid, di cui si è detto), egli ne ha certamente approfittato per trarne utilità personali di natura illecita, sicché il suo apporto al processo di causazione del danno per cui è causa si qualifica senz’altro, nel minimo, in termini di occasionalità necessaria.

In particolare, il convenuto ha potuto approfittare del suo ruolo di Project Manager della commessa, cioé di rappresentante della committente (ENIPOWER), deputato a svolgere una serie d’attività durante lo svolgimento del progetto, partecipando in modo determinante, con l’ausilio delle strutture interne ad ENIPOWER S.p.A. preposte (ACQUISTI - APPALTI ed altre), alle valutazioni tecniche in fase di approvvigionamento, nonché curando gli aspetti tecnici ed economici in fase di esecuzione dei contratti (varianti e penali).

L’apporto del convenuto al processo di causazione del danno per cui è causa si è rivelato ad avviso del Collegio decisivo ai fini della lievitazione del 50,52% del prezzo d’aggiudicazione, a proposito della quale la Procura ha non a caso evocato, nell’atto di citazione, il problema dell’anomalia dell’offerta, regolato come noto da norme di diritto comunitario e di diritto interno, ispirate ad una logica ben precisa: <<il sub-procedimento di verifica dell’anomalia non tende a selezionare l’offerta che è più conveniente per la stazione appaltante: la ratio cui è preordinato l’indicato meccanismo di controllo consiste, invece, nell’assicurare la piena affidabilità della proposta contrattuale >> (così, Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 5697 del 2006).

E’ utile in proposito rammentare che, in ambito UE, il Consiglio ha prescritto, sin dalla direttiva 71/305, una precisa e dettagliata procedura di verifica delle offerte risultanti anormalmente basse proprio per consentire ai partecipanti alla gara che abbiano presentato offerte particolarmente basse di dimostrare la serietà di tali offerte.

In altri termini, secondo il diritto comunitario, laddove siano state presentate offerte troppo basse, è la loro serietà a venire in discussione, nel senso che essa va presuntivamente esclusa, a meno che l’offerente riesca a dare la prova contraria mediante apposite giustificazioni (v. Corte di Giustizia CE, sent. del 27.11.2001, in cause C-285 e C.286).

Il nodo della questione sta nel fatto che simili offerte contengono ribassi tali da assicurare all’impresa offerente l’aggiudicazione della gara, ma non in grado, ad aggiudicazione avvenuta, di assicurare all’imprenditore un profitto adeguato.

Ciò è dovuto, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, a quella che è stata definita <<naturale tendenza delle imprese concorrenti ad aumentare artificiosamente i ribassi e ad offrire, oltre il lecito, prezzi inferiori a quelli correnti, al fine di conseguire l’aggiudicazione della gara, salvo poi a realizzare ugualmente l’utile d’impresa tramite l’utilizzazione di materiali scadenti o l’uso di analoghi espedienti poco ortodossi, a discapito dell’interesse pubblico alla realizzazione dell’ottimale risultato in materia di esecuzione di opere pubbliche>> (ex multis, v. Cons. Stato, V Sez., n. 2873 del 17.5.2000).

Come ovvia conseguenza del mancato (o insufficiente) guadagno, si ha che spesso i lavori appaltati a questa tipologia di offerenti non vengono portati a termine nei tempi previsti, ovvero vengono eseguiti con materiali di scarto, ovvero ancora – come nel caso di specie - si ha che l’appaltatore procede alla richiesta di varianti in corso d’opera, con conseguente lievitazione dei prezzi tale da vanificare persino il risparmio realizzato dalla stazione appaltante aggiudicando all’offerta (apparentemente) più conveniente dal punto di vista strettamente economico.

Di qui, complessivamente, il corroborarsi della conclusione che l’indebita asimmetrica fornitura di informazioni (nel senso sopra chiarito) la cui conoscenza sia idonea ad influenzare anche grandemente la formulazione, la modificazione o il mantenimento delle rispettive offerte da parte dei partecipanti ad una gara, nonché gli ulteriori comportamenti contestati all’odierno convenuto (che, nel minimo, hanno facilitato la verificazione del danno erariale per cui è causa), costituiscono condotte vietate e fonte di danni (di vario tipo).

4. Quanto al danno, e alla sua quantificazione, va rammentato che, nel caso di specie, la Procura attrice ha rivendicato in citazione il risarcimento:

1) del danno diretto di € 284.622,00 conseguente all’accordo illecito stipulato dal Xxxx con la Nuova Magrini Galileo, in relazione all’aggiudicazione dell’appalto di fornitura, pari alla differenza tra la migliore offerta dell’Ansaldo Energia (€ 3.738.378,00) e quella formulata dalla Nuova Magrini Galileo e tradotta nell’ordine di acquisto (€ 4.023.000,00), prezzo "spuntato" da quest’ultima società per effetto del documentato intervento nelle procedure di gara, a suo favore, operato dal Xxxx, mediante una condotta illecita e dolosa espressamente finalizzata a farle ottenere l’aggiudicazione del contratto, previa corresponsione di una ricompensa pari all’1,5 % del suo valore (€ 60.345,00);

2) di un’ulteriore quota di danno diretto, quantificabile in € 20.000,00, pari alla tangente percepita per fare ottenere, in variante, l’accettazione dei citati 7 interruttori;

3) del danno ravvisabile nell’alterazione delle regole poste dall’ordinamento nazionale e comunitario a tutela della concorrenza e del mercato, con conseguente stipulazione di accordi contrattuali invalidi, o comunque inefficaci, in quanto illeciti, quantificato in € 402.300,00, pari all’utile di impresa (10 %).

Risulta dunque evidente che, nella specie, non si controverte in ordine ad un pregiudizio inferto ad un bene immateriale (quale invece rilevante, ad es., nella vicenda decisa da questa Sezione con la sentenza n. 414 del 2007).

In particolare, il danno per cui è causa è ritenuto sussistente dalla Procura:

1) nel primo caso, sotto forma di differenza fra la migliore offerta economica pervenuta e quella, diversa, risultata poi aggiudicataria;

2) nel secondo caso, sotto forma di maggior costo – quantificato avendo come parametro la misura della dazione illecita riscontrata – derivante dall’ampliamento dell’oggetto contrattuale, per effetto della fornitura in variante;

3) nel terzo caso, sotto forma di danno alla concorrenza, ravvisabile nell’alterazione delle regole poste dall’ordinamento nazionale e comunitario a tutela della concorrenza e del mercato, quantificato in misura pari all’utile di impresa (10 %).

Ciò premesso, il Collegio ritiene di non poter condividere l’identificazione delle poste di danno e la relativa quantificazione operata dalla Procura attrice, avendo il convenuto cagionato con dolo un (unitario) danno erariale, sub specie di (solo) danno c.d. alla concorrenza.

In proposito, si osserva quanto segue.

E’ noto che, in base agli artt. 30 e 143 del d.lgs. n. 163 del 2006, nella concessione di servizi o di lavori è ammissibile che venga stabilito in sede di gara <<anche un prezzo, qualora al concessionario venga imposto di praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e dell'ordinario utile di impresa…>>.

Dal canto suo, l’art. 158 del medesimo d.lgs. stabilisce che <<qualora il rapporto di concessione sia risolto per inadempimento del soggetto concedente ovvero quest'ultimo revochi la concessione per motivi di pubblico interesse, sono rimborsati al concessionario>>, fra gli altri, anche <<c) un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10 per cento del valore delle opere ancora da eseguire ovvero della parte del servizio ancora da gestire valutata sulla base del piano economico-finanziario>>.

Di qui, ad avviso di questo Giudice, la considerazione che l’ordinario utile di impresa è categoria non solo economica ma anche giuridica, e più precisamente normativizzata nella logica dell’id quod plerumque accidit (v. Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 5693/07),

Ora, è vero che, secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, l’utile economico che sarebbe derivato all’impresa dall’esecuzione dell’appalto va presuntivamente quantificato nel 10% dell’importo a base d’asta, come ribassato dall’offerta presentata (Cons. Stato, V, 8 luglio 2002 n. 3796, Cons. Stato, IV, 6 luglio 2004 n. 5012 e, da ultimo, Cons. Stato, VI, sent. n. 213 del 2008), e questo è senza dubbio un termine di riferimento utile anche ai fini della commisurazione della posta di danno in discussione, e tuttavia sarebbe implausibile affermare un’immedesimazione piena fra utile d’impresa – come sopra quantificato – e danno alla concorrenza. Ciò perché il secondo deriva appunto dall’alterazione delle regole poste dall’ordinamento nazionale e comunitario a tutela della concorrenza e del mercato, con pregiudizio per quest’ultimo e per la stazione appaltante, allo stesso tempo.

In quanto tale, nel caso di specie siffatto danno appare meglio identificabile in quella parte dell’utile di impresa (da calcolarsi avendo riguardo sia alla base d’asta che alle eventuali varianti) a cui non sarebbe corrisposta un’entrata per l’appaltatore e, correlativamente, un’uscita per la stazione appaltante, se l’iter di aggiudicazione (e, eventualmente, esecutivo) fosse rimasto immune da comportamenti illeciti perturbativi e la competizione al ribasso fra i partecipanti si fosse quindi svolta in modo leale e regolare. In concreto, fatto 100 per convenzione l’utile di impresa (da quantificarsi in ogni caso nei modi sopra descritti) della ditta che si sia effettivamente aggiudicata la commessa, il danno alla concorrenza andrà individuato in quella quota parte di 100 che la stazione appaltante avrebbe potuto non corrispondere all’appaltatore se la competizione al ribasso fra i partecipanti non avesse risentito di comportamenti illeciti che hanno falsato la competizione fra le imprese interessate.

Detto danno va quantificato, ad avviso del Collegio, nei termini di seguito esposti.

In primo luogo, va applicata la percentuale del 10 % di utile di impresa presuntivo sull’importo complessivo (non potendo rilevare dinanzi a questo Giudice, a titolo di parametro di riferimento, né il solo importo a base di gara né la sola offerta, per come eventualmente ribassata, dell’impresa risultata aggiudicataria) della commessa affidata alla Nuova Magrini Galileo, quale risultante all’esito delle modifiche, apportate in fase esecutiva, che hanno elevato l’importo del contratto ad € 6.055.702,39. Dal risultato così ottenuto, pari a € 605.570,00, va detratta, ad avviso del Collegio (in esplicazione del potere di valutazione equitativo e discrezionale di cui alla sent. n. 183 del 2007 della Corte costituzionale), una percentuale dell’ 80 %, corrispondente presuntivamente, secondo ragionevolezza, all’utile d’impresa che sarebbe stato conseguibile da qualsivoglia impresa all’esito di una competizione leale e aperta fra più concorrenti. Al risultato per tal via ottenibile, pari ad € 181.671,00, vanno sommati anche € 1.090.026,40, rappresentanti la maggior spesa - quantificata nel 20 % di € 6.055.702,39, previa detrazione dell’utile d’impresa, come sopra quantificato - sopportata da ENIPOWER s.p.a., quale conseguenza della falsata competizione fra le imprese concorrenti e della consequenziale lievitazione degli oneri nella fase esecutiva.

L’importo complessivamente corrisposto dalla stazione appaltante all’aggiudicataria consta infatti di una parte di utile d’impresa e di una residua parte corrispondente alla somma delle spese sopportate per l’esecuzione della commessa. E poiché occorre convenire che solo la prospettiva di un consistente vantaggio indebito può indurre un imprenditore, o chi agisce nel suo interesse, ad assumersi i rischi connessi al compimento di atti delittuosi che, diversamente, sarebbero privi non solo di giustificazione economica, ma anche di qualsiasi plausibile ragione (Cass. SS.UU., sent. n. 98 del 4.4.2000), ritiene il Collegio che i maggiori costi che ne derivano in capo alla stazione appaltante – quantificati nei termini sopra indicati, e da ritenere inclusivi dell’importo delle somme corrisposte a titolo di dazioni illecite - incidano in pari misura sulla quota di utile d’impresa e sulla quota diversa da questa.

Resta peraltro fermo che, ove fosse stata allegata dal soggetto che ha subito il pregiudizio un’eventuale condanna inflittagli dal giudice amministrativo, passata in giudicato, a risarcire il danno cagionato alla ditta seconda classificata per effetto dell’aggiudicazione illegittimamente disposta in favore della Nuova Magrini Galileo (danno, questo, la cui ampiezza è funzione, come noto, dello stato di esecuzione dell’intervento o della fornitura: v. Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 213 del 2008, cit.), anche questo danno sarebbe stato addebitabile al convenuto.

5. A questo punto, rammentato che nella vicenda per cui è causa non si controverte in tema di danno diretto da lesione di un bene immateriale, una puntualizzazione si impone – ad avviso del Collegio - in ordine all’identificazione del soggetto titolare del credito al risarcimento, ove, come nel caso di specie, quest’ultimo sia riconosciuto sussistente dal giudice contabile in materia di società a capitale pubblico.

Sul punto, va notato che, in citazione, la Procura attrice ha invocato la condanna del convenuto in favore in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze, dell’ENI S.p.A., dell’ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A., senza alcuna specificazione.

Si pone pertanto, in proposito, la necessità di stabilire se in capo a tutti i predetti soggetti sussista la legittimazione alla titolarità del credito per cui in questa sede si controverte, e, in caso di risposta affermativa, a che titolo ciascuno di essi possa eventualmente vantarla.

Non si tratta, all’evidenza, di revocare in dubbio la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti nel caso di danno arrecato a società a capitale misto, bensì soltanto di definirne la portata, e, soprattutto, le modalità applicative.

Del resto, come ribadito in più occasioni anche dalla Corte di Cassazione, non v’è oggi più dubbio che la PA svolga attività amministrativa non solo quando eserciti pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegua le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato.

E queste considerazioni valgono, come ha osservato la giurisprudenza, anche quando i pubblici servizi sono realizzati con ricorso ad altre forme o istituti propri del diritto privato, quali le S.p.a., purchè con impiego di denaro proveniente dalla generalità dei contribuenti o dai fruitori dei servizi medesimi.

Laddove siano di natura pubblica le risorse finanziarie di cui un soggetto si avvalga, dunque, ivi si radica la giurisdizione della Corte dei conti, irrilevante essendo la qualificazione formale (società o altro schema organizzativo) e gli strumenti attraverso cui si realizzano i fini pubblici assegnati.

Secondo la Cassazione, "non a caso, del resto, l’art. 1 L. n. 20/1994 fa riferimento al "comportamento" degli amministratori e dipendenti pubblici soggetti a giudizio di responsabilità, nonché al "fatto dannoso" ed al "danno": è, dunque, l’evento verificatosi in danno di un’amministrazione pubblica il dato essenziale dal quale scaturisce la giurisdizione contabile, e non, o non più, il quadro di riferimento (diritto pubblico o privato) nel quale si colloca la condotta produttiva del danno stesso".

Deve, pertanto, ribadirsi che sono attribuiti alla Corte dei conti i giudizi di responsabilità amministrativa, per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore dell’art. 1 ultimo comma L. n. 20 del 1994, anche nei confronti di amministratori e dipendenti di enti pubblici economici e società, considerata l’irrilevanza giuridica – ai fini del riparto di giurisdizione – delle "modalità della condotta del soggetto agente", laddove siano pubbliche "le risorse finanziarie di cui esso si avvale".

Il che, aggiunge il Collegio, è coerente con il condiviso assunto che in nessun caso l’adozione di forme privatistiche (per l’organizzazione del soggetto, per la sua attività, o per ambedue le cose) potrebbe avere l’effetto di trasformare il denaro ‘pubblico’ – in ragione del suo provenire dalla finanza pubblica – in denaro non ‘pubblico’, del cui buon uso sia come tale consentito disinteressarsi.

Il revirement della Corte di Cassazione affonda le sue radici concettuali in un processo evoluzionista lucidamente precorso dalla dottrina più sensibile, che da tempo tendeva a svalutare "la distinzione tra attività di diritto pubblico ed attività di diritto privato. Non ha più rilevanza la natura pubblica o privata del soggetto agente. L’attività amministrativa non si qualifica più tale perché posta in essere da una pubblica amministrazione, ma può essere posta in essere anche da un soggetto privato. Dunque, proprio non si riesce più a capire come possa affermarsi che un ente pubblico economico o una SPA a totale o prevalente capitale pubblico che svolga un pubblico servizio ed in tale esercizio produca un danno all’erario non debba esser soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti.

Se il problema è quello di far salve le scelte di carattere imprenditoriale, tale salvezza è già assicurata dalla norma della L. n. 639, del 1996, che sancisce l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. D’altro canto è da tener presente che la stessa Corte di cassazione, nella citata sentenza delle sezioni unite 27 gennaio 2000, n. 71, ha distinto, come si è visto, l’attività consistente nello svolgimento di un servizio pubblico, che è caratterizzata da un elemento funzionale, e cioè dal soddisfacimento diretto dei bisogni di interesse generale, dall’attività puramente imprenditoriale, caratterizzata unicamente dal perseguimento di fini di lucro. Ora, tale distinzione dovrebbe operarsi, non solo a proposito del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, ma anche a proposito del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e Corte dei conti. Non è infatti logicamente ammissibile, dopo tale precisazione, che si consideri attività imprenditoriale pura e semplice anche quella che consiste nell’espletamento di un pubblico servizio, soltanto ove si tratti della giurisdizione della Corte dei conti".

Tutto ciò premesso, ritiene il Collegio che la giurisdizione di responsabilità della Corte dei conti in materia di società a capitale pubblico si ponga in alternativa rispetto al sistema di diritto comune regolato dalla recente novella al c.c. Il canone di determinazione della giurisdizione evolve infatti, in radice, dall’applicazione secondo una tecnica di tipo selettivo (quella, per lungo tempo adoperata dalla Suprema Corte, tendente a distinguere fra atti espressione dell’attività d’impresa e atti espressione di potestà pubblicistiche) ad una di tipo, viceversa, attrattivo, e quindi esclusivista.

In proposito, peraltro, ad avviso del Collegio va precisato quanto segue.

Viene sovente (e ancora di recente) affacciato il dubbio che, in ambito societario, l’azione erariale intestata al PM contabile sia di dubbia compatibilità con l’azione di responsabilità prevista dal diritto comune (art. 2393 c.c.). Ciò, in particolare, laddove la società sia a capitale misto, cioè in parte pubblico e in parte invece privato.

Sennonché, la questione va analizzata alla luce degli obiettivi cui le due azioni per loro natura tendono e delle rispettive conseguenti ricadute concrete.

L’azione di responsabilità oggi prevista dal diritto societario novellato denota caratteri marcati:

i) se esercitata in modo vittorioso, produce effetti a vantaggio dell’intera compagine sociale, dovendo il risarcimento essere devoluto alla società in quanto tale;

ii) è ex lege rinunciabile dal soggetto che l’ha esperita;

iii) dopo il suo esperimento, è ex lege (anche) transigibile.

In base all’art. 2393-bis, c.c., l’azione sociale di responsabilità può essere esercitata anzitutto dalla società in quanto tale. È questa l’ipotesi più naturale, ma non l’unica. Questa norma ammette infatti il suo esercizio anche da parte dei soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo, mentre nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, tale azione può essere esercitata dai soci che rappresentino un ventesimo del captale sociale o la minore misura prevista nello statuto. Anche in questo particolare caso, peraltro, l’azione resta ad ogni modo rinunciabile e transigibile da parte di chi l’ha preposta (art. 2393-bis, co. 6, c.c.), cioè di una minoranza qualificata di soci o perfino di un unico socio, se detentore di una quota del capitale sociale almeno pari alle soglie percentuali testé indicate.

Se davvero siffatta norma fosse applicabile alle società a partecipazione pubblica, ne deriverebbe che il socio pubblico detentore di almeno un quinto del capitale sociale, o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, di almeno un ventesimo del capitale sociale, sarebbe legittimato ad esercitare l’azione sociale di responsabilità i cui effetti in caso di esito vittorioso, andrebbero a vantaggio della società in quanto tale, e, quindi, dell’intera compagine sociale. Sino alla definizione del giudizio che allo scopo venisse instaurato, l’azione esercitata dal socio pubblico rimarrebbe però – ex lege – rinunciabile e transigibile.

Così stando le cose, appare evidente che l’alternativa fra azione sociale di responsabilità prevista dagli artt. 2393 e ss., c.c. e azione pubblica di responsabilità intestata al PM contabile è, in realtà, un’alternativa fra azioni oggettivamente diverse e non comparabili.

La seconda, infatti, per un verso non può per sua natura tendere a risultati che vadano al di là del reintegro della sfera patrimoniale di pertinenza del (solo) soggetto pubblico, secondo una logica tutta istituzionale del particulare, sicché in caso di vittorioso esperimento da parte del PM contabile i suoi effetti non potranno riverberarsi favorevolmente che su detto soggetto. Di contro, coerentemente con l’intestazione ad un organo pubblico conformato in guisa di pubblico ministero operante presso un plesso giudiziario, detta azione si contraddistingue non soltanto perché il suo esperimento risulta obbligatorio per il PM contabile, ma anche perché in nessun momento essa risulta, in senso tecnico, rinunciabile o transigibile (diverso è il caso, ovviamente, in cui cessi la materia del contendere per la competa rifusione – ad iniziativa dell’invitato o del convenuto – del danno stimato dalla Procura nell’invito a dedurre o nella citazione).

Identiche ragioni impediscono, poi, di ravvisare nell’art. 2395 c.c. lo strumento attraverso il quale attribuire una legittimazione (che sarebbe in definitiva di ordine endosocietario) all’azione di responsabilità esperibile dal p.m. contabile. Questa impostazione si risolverebbe infatti in una contraddizione in termini, non potendosi ripudiare lo schema (avversato) della concorrenza fra azione civile e azione erariale al prezzo di identificare nella sostanza quest’ultima con la prima, finendo così, consequenzialmente, con il far scontare tutti i limiti della prima alla seconda, sì da stravolgerne in modo irrimediabile la stessa natura. Al contrario, l’azione erariale ha lo spazio applicativo proprio che gli è riconosciuto direttamente dall’art. 103, comma 2, Cost., senza che vi sia bisogno, e, allo stesso tempo, senza che risulti consentito, di esplicarla sotto le vesti o in luogo dell’azione di cui all’art. 2395 c.c.

Egualmente, ancora, sarebbe fonte di perplessità postulare (in via alternativa) uno schema nel quale l’azione erariale risulti esperibile nei (soli) confronti del socio pubblico per l’eventuale mancato esercizio dell’azione sociale di responsabilità nei confronti del management, giacché potrebbe per tal via addivenirsi allo schema, un po’ paradossale, dell’esercizio obbligatorio di un’azione pubblicistica di responsabilità avverso gli autori del mancato esercizio di un’azione discrezionale (giacché ex lege rinunciabile e/o transigibile) di diritto privato.

Onde evitare il rischio di frustrazione in fatto dell’interesse pubblico alla salvaguardia delle risorse finanziarie pubbliche, ad avviso del Collegio va dunque ribadita l’esperibilità dell’azione erariale nei confronti di amministratori e dipendenti di società a partecipazione pubblica, anche in considerazione dell’intrinseca debolezza della tesi avversa, elaborata in nome di un’indimostrata prevalenza dell’azione di cui all’art. 2393-bis, c.c., fondata su un’applicabilità in via generalizzata del codice civile data sovente per scontata quasi si trattasse di un esito naturale e immanente anche nell’ambito che qui interessa.

Il punto fermo è infatti l’esclusività della giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica, sancita a chiare lettere dall’art. 103, comma 2, Cost., quale trova riscontro anche nel diritto vivente più recente, e in specie nelle decisioni della Corte costituzionale (sent. n. 272 del 2007) e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (da ultimo, sent. n. 22059 del 2007).

Questa esclusività non può però essere, per così dire, a geometria variabile, e quindi, in ultima analisi, dipendere dalle forme nelle quali la PA scelga di attuare la propria azione. Resta vero, infatti, che <<l’amministrazione svolge attività amministrativa non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato>>, giacché <<tali forme costituiscono nient’altro che lo strumento a tali fini utilizzabile ed utilizzato>> (così, Cass., SS.UU., ord. n. 19667 del 2003).

Se un soggetto pubblico assume o mantiene una partecipazione in una società – investendovi delle risorse (evidentemente, pubbliche, sul piano dominicale) - lo fa in nome di un interesse pubblico, per la cura del quale esso viene in tal modo a svolgere un’azione <<disciplinata (…) in parte dal diritto privato>> (così, ancora Cass., SS.UU., ord. n. 19667 del 2003).

E sul punto il Collegio ritiene di dover richiamare l’attenzione sull’idea – fatta propria dalla giurisprudenza amministrativa in tema di attività extra moenia delle società partecipate da enti territoriali gerenti servizi pubblici locali, ex art. 113 del TUEL – secondo la quale l’impegno extraterritoriale non è ammissibile ove comporti in concreto una distrazione di risorse e mezzi in grado di arrecare un pregiudizio allo svolgimento del servizio pubblico locale, giacché esiste un vincolo teleologico al soddisfacimento dei bisogni della collettività locale, superabile caso per caso soltanto subordinatamente alla dimostrazione che in tal guisa viene soddisfatta una specifica (e non generica, quale sarebbe quella secondabile mediante la semplice produzione di utili) esigenza della medesima collettività. Ciò assume una speciale valenza, ad avviso di questo Giudice, perché la medesima giurisprudenza ne ha tratto il corollario che il discorso non cambia laddove la società a partecipazione pubblica sia quotata in borsa e, pertanto, debba essere logicamente sensibile alle esigenze anche dei privati investitori, perché anche in tal caso non può essere considerata del tutto aliena alle finalità pubblicistiche ed agli interessi pubblici della realtà territoriale che ha proceduto alla sua costituzione (Cons. Stato, sez. V, sent. n. 4586 del 2001).

Così stando le cose, allora, come al soggetto pubblico che abbia risentito del danno cagionato da amministratori o dipendenti non è dato di costituirsi parte civile nel processo penale, cioè non è dato di avanzare la tradizionale domanda di risarcimento del danno asseritamente subito (ben altro è, infatti, l’azione, innominata e dall’evidente minor portata pratica, presupposta dall’art. 538, comma 2, c.p.p.: v. sent. n. 272 del 2007, cit.), così per il socio pubblico di una società di capitali non vi è libertà di scelta, nell’an e nel quantum, in ordine alla eventuale responsabilità degli amministratori e dipendenti di detta società.

E, per vero, proprio la posizione di questi ultimi appare quella che meglio consente di evidenziare taluni profili meritevoli di attenzione.

Infatti, a proposito del tema che ne occupa, occorre ad avviso del Collegio guardarsi dal rischio di cadere in semplificazioni concettuali. Così sarebbe, ad esempio, laddove si riducesse la vicenda della giurisdizione della Corte dei conti sulle società a capitale pubblico al solo piano dei rapporti fra azione erariale e azione sociale di responsabilità di cui all’art. 2393 c.c.

Sennonché, è noto che quest’ultima non risulta esperibile nei confronti di qualsivoglia dipendente della società, bensì nei riguardi dei soli direttori generali (art. 2396 c.c.). Al di fuori dell’ambito inerente amministratori e direttori generali, dunque, l’azione erariale non avrebbe comunque, neppure in astratto, possibilità di interferenza (e tantomeno si porrebbe un rischio di duplicazione) con l’azione sociale di responsabilità di cui all’art. 2393 c.c.

E’ esattamente quanto accade nel caso di specie, ove l’autore del comportamento penalmente rilevante produttivo di danno erariale non era né amministratore né direttore generale della società che ha risentito in via immediata del pregiudizio, bensì un dipendente occupante nell’organigramma interno un ruolo subvalente rispetto a quest’ultima figura.

Ma se, è il caso di ribadirlo, per figure di questo tipo una questione di possibile interferenza (o un rischio di duplicazione) fra azione erariale e azione sociale di responsabilità di cui all’art. 2393 c.c. non è prospettabile neppure in via astratta, il danno erariale che essi abbiano cagionato (nella specie, addirittura mediante condotte consistenti in illeciti penali) in ogni caso resta e deve essere risarcito. A tal fine, ritiene il Collegio che, così come l’ente pubblico non dispone – ex art. 103, comma 2, Cost. - di un’azione risarcitoria vera e propria (ben altro, come si è accennato, è infatti l’azione presupposta dall’art. 538, comma 2, c.p.p.) nei confronti dei propri dipendenti che gli abbiano cagionato un danno, allo stesso modo non ne disponga – per intero o pro quota - la società a capitale (in tutto o in parte) pubblico.

Resta da precisare che giurisdizione della Corte dei conti sulle società a capitale pubblico attiene, di norma, a danni causati da comportamenti puntuali, o da una serie di comportamenti puntuali, tenuti da dipendenti o da amministratori (quali erano, ad es., quelli in ordine ai quali Cass., SS.UU., sent. n. 3899 del 2004 ha affermato la giurisdizione di questo Giudice). Oltre ai comportamenti penali rilevanti (come quelli di cui al presente giudizio), anche una scelta imprenditoriale di amministratori o dirigenti di società a partecipazione pubblica, presumibilmente dannosa, potrebbe essere sindacata dal giudice contabile, esclusivamente con valutazione ex ante (e non ex post, in base al risultato ottenuto), attraverso l’esame, secondo le regole tecniche applicabili alla fattispecie, della congruità dell’istruttoria utilizzata per addivenire alla stessa, negli stessi rigorosi termini nei quali il diritto vivente ammette il sindacato della magistratura finanziaria sull’azione amministrativa (v. ex multis Cass., SS.UU., nn. 14488 del 2003 e 7024 del 2006).

Quanto, infine, al piano della responsabilità collegata alla gestione complessiva della società, cioè ai risultati raggiunti dai titolari di poteri di gestione, esso esula, salvo casi limite, dall’ambito nel quale il giudice contabile può esercitare il suo ministero.

Va a questo punto aggiunto che il prevalere – nei termini sin qui illustrati - del diritto pubblico sul diritto privato non potrebbe essere considerato un inedito, e quindi inammissibile, stravolgimento del diritto comune delle società. Opinare in tal senso, infatti, significherebbe negare l’evidenza del fatto che, quando vi è di mezzo la partecipazione (in misura non marginale) di un socio pubblico, il diritto comune delle società in parte (variabile, ma comunque significativa) non si applica per legge (conformemente a quanto del resto previsto dalla stessa relazione al codice civile, che reca in proposito una formula aperta).

Basti qui menzionare, per rimanere alla normativa più recente, l’art. 3, commi 12, 13 e 14, della l. n. 244 del 2007, il primo dei quali stabilisce che <<Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 1, commi 459, 460, 461, 462 e 463, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, le amministrazioni pubbliche statali che detengono, direttamente o indirettamente, il controllo di società, ai sensi dell'articolo 2359, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, promuovono entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, nelle forme previste dalla vigente normativa, anche attraverso atti di indirizzo, iniziative volte a:

a) ridurre il numero dei componenti degli organi societari a tre, se composti attualmente da più di cinque membri, e a cinque, se composti attualmente da più di sette membri;

b) prevedere, per i consigli di amministrazione o di gestione costituiti da tre componenti, che al presidente siano attribuite, senza alcun compenso aggiuntivo, anche le funzioni di amministratore delegato;

c) sopprimere la carica di vice presidente eventualmente contemplata dagli statuti, ovvero prevedere che la carica stessa sia mantenuta esclusivamente quale modalità di individuazione del sostituto del presidente in caso di assenza o di impedimento, senza titolo a compensi aggiuntivi;

d) eliminare la previsione di gettoni di presenza per i componenti degli organi societari, ove esistenti, nonché limitare la costituzione di comitati con funzioni consultive o di proposta ai casi strettamente necessari>>.

Quanto ai commi 13 e 14, il primo dispone che <<Le modifiche statutarie hanno effetto a decorrere dal primo rinnovo degli organi societari successivo alle modifiche stesse>>, e il secondo che <<Nelle società di cui al comma 12 in cui le amministrazioni statali detengono il controllo indiretto, non è consentito nominare, nei consigli di amministrazione o di gestione, amministratori della società controllante, a meno che non siano attribuite ai medesimi deleghe gestionali a carattere permanente e continuativo ovvero che la nomina risponda all'esigenza di rendere disponibili alla società controllata particolari e comprovate competenze tecniche degli amministratori della società controllante. Nei casi di cui al presente comma gli emolumenti rivenienti dalla partecipazione agli organi della società controllata sono comunque riversati alla società controllante>>.

Senza entrare nel dettaglio, queste tre norme (che non si applicano alle società con azioni quotate, ex art. 3, comma 16, della citata legge n. 244, ma che si applicano a tutte le società con azioni non quotate, ivi incluse quelle interamente partecipate da società con azioni quotate, come era ad es. SNAMPROGETTI s.p.a. all’epoca dei fatti qui in contestazione) dimostrano con estrema chiarezza che quando nel capitale di una società un azionista pubblico, e in particolare statale, detenga una partecipazione non marginale (ma comunque non totalitaria: si v. il riferimento espresso all'art. 2359, comma 1, numeri 1) e 2), del codice civile), in quella società non v’è per i soci (rectius, per tutti i soci) l’usuale libertà di determinazione del numero dei componenti il CDA, né quella di ripartire fra soggetti diversi gli uffici di presidente e di amministratore delegato, né quella di istituire la carica di vice presidente (perfino se fosse contemplata dallo statuto), né quella di attribuire compensi aggiuntivi all’eventuale vice presidente, né quella di prevedere gettoni di presenza per i componenti degli organi societari, ove esistenti, nonché di costituire comitati con funzioni consultive o di proposta anche al di fuori dei casi strettamente necessari. Ancora, in dette società non v’è per i soci (rectius, per tutti i soci) l’usuale libertà di nominare, nei consigli di amministrazione o di gestione, amministratori della società controllante, né vi è la possibilità – quando invece una simile ipotesi risulti per legge ammissibile – di attribuire ai nominati i relativi emolumenti, dovendo questi ultimi essere <<comunque riversati alla società controllante>>.

Ancora, l’art. 3, comma 44, della medesima l. n. 244, dispone fra l’altro che <<Il trattamento economico onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle pubbliche finanze emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, agenzie, enti pubblici anche economici, enti di ricerca, università, società non quotate a totale o prevalente partecipazione pubblica nonché le loro controllate, ovvero sia titolare di incarichi o mandati di qualsiasi natura nel territorio metropolitano, non può superare quello del primo presidente della Corte di cassazione. Il limite si applica anche ai magistrati ordinari, amministrativi e contabili, ai presidenti e componenti di collegi e organi di governo e di controllo di società non quotate (…)>>.

Alle libertà negate di cui sopra si aggiunge, dunque, anche la negazione della libertà – per le società non quotate a capitale interamente pubblico oppure misto (<<a totale o prevalente partecipazione pubblica>>), nonché per le loro controllate – di determinare senza vincoli di sorta le retribuzioni nell'ambito dei rapporti di lavoro dipendente o autonomo instaurati, così come gli emolumenti dovuti ai presidenti e ai componenti di collegi e organi di governo e di controllo.

Beninteso, il Collegio non intende esprimere sul punto alcun giudizio di valore, ma si limita a prendere atto del fatto che, nelle società miste del tipo qui considerato, con azionista statale, le libertà sopra individuate - che senza dubbio il diritto comune delle società riconosce ai soci - sono negate per legge.

Ulteriore dimostrazione può cogliersi, sempre con riguardo a società a partecipazione statale, sotto il profilo della trasparenza delle relazioni finanziarie fra gli Stati membri e, fra l’altro, le loro imprese pubbliche. Al riguardo, la recente implementazione della direttiva 2005/81/CE ha l’effetto di adeguare il quadro normativo comunitario alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, in base alla quale, a seguito della sentenza del 24 luglio 2003, relativa alla causa C-280/00 Altmark Trans GmbH, è stato affermato il principio che le compensazioni degli obblighi di servizio pubblico non costituiscono, a determinate condizioni, aiuti di Stato ai sensi dell'articolo 87, paragrafo 1 TCE.

Posto che la precedente direttiva 80/723/CEE imponeva la contabilità separata soltanto a carico delle imprese destinatarie di aiuti di Stato, la Commissione, coerentemente con il principio affermato dalla giurisprudenza comunitaria, ha adottato la nuova direttiva 2005/81/CE – che modifica la direttiva 80/723/CEE, come già novellata dalla direttiva 2000/52/CE della Commissione (recepita nel nostro Paese con il d.lgs. n. 333 del 2003) – sottoponendo all’obbligo di contabilità separata le imprese che, fruendo di diritti speciali o esclusivi riconosciuti dallo Stato o essendo incaricate della gestione di servizi d’interesse economico generale, ricevano "compensazioni in qualsiasi forma per prestazioni di servizio pubblico in relazione ai servizi", esercitando contemporaneamente anche altre attività.

In questi casi, dunque, il sistema di contabilità adottato dall’impresa pubblica non può essere, o meglio non può essere solamente, quello previsto dal diritto comune delle società (si v. ad es. il d.m. 6.10.2004, concernente la Cassa Depositi e prestiti).

Per tutti i motivi sin qui esposti, e per le altre ragioni – già richiamate – diffusamente sviluppate nella decisione n. 448 del 2007 di questa Sezione, la soggezione alla giurisdizione di questa Corte di amministratori e dipendenti di società (con azioni quotate e no) a partecipazione pubblica non totalitaria, lungi dal rappresentare l’unica nota distonica nell’ambito di un sistema per il resto integralmente e saldamente ancorato al diritto comune delle società, va considerata una (soltanto) delle strutture qualificanti di un sistema parzialmente (ma significativamente) diverso da quello di diritto comune, nel quale si esprime l’odierno statuto dell’impresa pubblica.

Ora, non v’è dubbio che l’<<impresa pubblica>> sia altro, sul piano normativo (v. direttive nn. 2004/18/CE e 2004/17/CE e d.lgs. n. 163/06) e sostanziale, rispetto all’<<amministrazione aggiudicatrice>>, e anzi è proprio il rapporto con quest’ultima a qualificare la prima, specie quando, ai fini che qui rilevano, l’influenza dominante esercitata dall’amministrazione aggiudicatrice, direttamente o indirettamente, poggi su una ragione di ordine proprietario.

In simili ipotesi, agli effetti della soggezione alla giurisdizione di questa Corte, e, quindi, della sottrazione (in parte qua) di dette imprese al diritto societario comune, tale ultima ragione risulta in ogni caso da sola sufficiente, giacché l’<<influenza>> in esse esercitata dai soci pubblici è considerata rilevante proprio in quanto in rapporto di stretta correlazione ai loro <<investimenti>> (cfr. Corte di giustizia europea, Sez. I, sent. 6.12.2007, in causa C-464/04), ovvero alle risorse finanziarie immobilizzatevi. La circostanza ha valore dirimente, giacché nel diritto interno il discrimen tra le due giurisdizioni (quella ordinaria e quella contabile) risiede <<unicamente nella qualità del soggetto passivo, e, pertanto, nella natura  – pubblica o privata  – delle risorse finanziarie di cui esso si avvale>>  (così, Cass., SS.UU., ord. n. 19667 del 2003, cit.).

Ancora, appare opportuno richiamare le recenti decisioni 1 marzo 2006 n. 4511 e 20 giugno 2006 n. 14101 delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, le quali hanno ulteriormente affermato che, ai fini del riconoscimento della giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, in ragione del sempre più frequente operare dell'amministrazione al di fuori degli schemi del regolamento di contabilità di Stato e tramite soggetti in essa non organicamente inseriti, è irrilevante il titolo in base al quale la gestione del pubblico denaro è svolta, potendo consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio, ma anche in una concessione amministrativa o in un contratto di diritto privato. Il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è, infatti, spostato dalla qualità del soggetto - che può ben essere un privato o un ente pubblico non economico - alla natura del danno e degli scopi perseguiti.

Esce dunque confermato, si ripete, che nel caso che qui rileva alla proprietà pubblica del capitale (almeno parziale, ma comunque tale da assicurare il controllo, alla luce dell’art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998) è sotteso un (latente, perché destinato ad attualizzarsi in caso di crisi energetica) <<legittimo interesse pubblico>>, e da essa deriva altresì l’obbligo di ricorso all’evidenza pubblica.

Al centro della vicenda vi sono, in ogni caso, le risorse finanziarie di provenienza pubblica e l’effettività della garanzia che ad esse l’art. 103, comma 2, Cost., intende assicurare attraverso il ministero giurisdizionale della Corte dei conti. Rispetto a questo piano, il radicarsi dell’obbligo, per la società mista, di fare ricorso alle regole di evidenza pubblica è destinato dunque ad assumere rilievo nell’ambito degli effetti. Il suo rilievo è però netto: così come le norme sopra richiamate negano alla società mista una completa libertà di strutturazione e di organizzazione interna, le disposizioni dalle quali deriva l’obbligo di selezionare i contraenti mediante procedure di evidenza pubblica negano alla società mista una completa libertà di (scegliere le proprie modalità) di azione.

Da questo punto di vista, la sussistenza in capo alle società miste dell’obbligo, nei (molti) casi previsti in primo luogo dalla normativa comunitaria, di fare ricorso alle procedure di evidenza pubblica, davvero dimostra l’assoluta compenetrazione fra interesse pubblico (<<ad un'utilizzazione razionale del pubblico denaro attraverso la scelta dell'offerta migliore>>) e tutela della concorrenza, perché, rovesciando i termini dell’impostazione tradizionale, la normativa comunitaria impone di seguire una procedura di impronta pubblicistica (anche) per l’affidamento di commesse il cui corrispettivo, in quanto a carico di una società mista, gravi in ultima analisi, almeno in parte, su risorse provenienti/messe a disposizione da (soci) privati.

In termini economici, accedere ad una commessa significa accedere al relativo corrispettivo, ed è per questo che va garantita l’effettività della regola di concorrenza e di miglior impiego delle risorse pubbliche, quando detto corrispettivo provenga dalla finanza pubblica (intesa in senso ampio). Se, però, questa provenienza è solo parziale, come nel caso delle società miste, allora diviene di palmare evidenza quel fenomeno di <<attrazione>> o <<trascinamento>> per cui anche l’accesso alla quota parte del corrispettivo non proveniente dalla finanza pubblica finisce per essere governato dalla procedura di impronta pubblicistica.

Fenomeno di <<attrazione>> o <<trascinamento>>, questo, che vale dunque a rendere chiara la capacità contaminante – nell’economia della singola vicenda contrattuale e, naturalmente, ai fini dell’assoggettamento della stessa ad un determinato gruppo di regole di duplice ma ormai inseparabile ispirazione (pubblicistica e, insieme, concorrenziale) – della quota parte di risorse di provenienza pubblica cui ha accesso l’aggiudicatario della commessa, per il tramite del corrispettivo dovutogli, nel caso in cui il committente sia una società mista.

Di qui, ad avviso di questo Giudice, la necessità di ribadire come, specie dopo le recenti univoche prese di posizione delle SS.UU. della Corte di Cassazione, il metro da utilizzare ai fini del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice contabile si sia evoluto, in radice, dall’applicazione secondo una tecnica di tipo selettivo ad una di tipo, viceversa, attrattivo, e quindi esclusivista.

E se così è, l’azione che, delle due, è stata dall’ordinamento conformata, in via astratta, come cedevole (perché il suo esercizio e la sua coltivazione, cos’ come il loro contrario, sono rimesse all’insindacabile volontà del soggetto legittimato) deve fare un passo indietro rispetto all’altra. Da ciò potranno derivare formule applicative anche articolate. In particolare, ad esempio, potrebbe darsi non soltanto l’ipotesi che l’azione erariale, esercitata in quanto obbligatoria, abbia avuto esito vittorioso in sede contabile, producendo effetto a vantaggio del socio pubblico, mentre la (residua parte) dell’azione sociale di responsabilità – in tal caso esperibile ex art. 2393-bis, co. 6, c.c. e per una somma calcolata deducendo dal complessivo danno la quota di risarcimento di pertinenza del socio pubblico e perseguita dinanzi al giudice contabile – se esperita, sia stata successivamente rinunciata o transatta, ma anche il (più radicale) caso che quest’ultima non venga neppure esperita, non ostando come noto il diritto privato all’adozione di comportamenti anche economicamente autolesivi, giusta il superiore principio di autoresponsabilità.

Seguendo questo percorso argomentativo, se il p.m. contabile può esplicare l’azione erariale, nel caso di società a capitale in parte pubblico, e quindi misto, nei limiti della sola quota di danno di pertinenza del socio o dei soci pubblici, risulta evidente che – nel caso di specie – questo Giudice non potrebbe riconoscere il diritto al risarcimento, conseguente alla condanna, in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze, dell’ENI S.p.A., dell’ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A., come richiesto dalla Procura attrice.

Non in favore di ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A., anzitutto, perché in tal modo si favorirebbero in ultima analisi anche gli azionisti privati della società da cui esse sono <<controllate>>, con la conseguenza che l’esercizio dell’azione erariale non soltanto finirebbe con il procurare un esito utile a vantaggio di soggetti diversi da quelli a garanzia dei quali solamente può produrre effetti, ma anzi potrebbe procurarlo – paradossalmente – persino a dispetto di un’eventuale volontà contraria di questi beneficiari (appunto, gli azionisti privati). Detto altrimenti, ove si ritenesse consentito a questo Giudice di riconoscere il diritto al risarcimento, conseguente alla condanna, in favore di ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A., ne conseguirebbe il sostanziale esproprio – a danno degli azionisti privati presenti nel capitale delle società azioniste di ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A. – del diritto di rinunciare o transigere, per la quota che li concerne, la relativa pretesa.

Analoghe considerazioni – avuto riguardo alla composizione della compagine azionaria di ENI s.p.a. all’epoca dei fatti – impediscono d’altra parte di riconoscere il diritto al risarcimento, conseguente alla condanna, in favore di ENI s.p.a.

Non rimane, perciò, altra soluzione che intestare il diritto al risarcimento, conseguente alla condanna, in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in quanto azionista di ENI s.p.a., socio unico di ENIPOWER S.p.A. e di SNAMPROGETTI S.p.A.

Quanto alla misura del risarcimento, essa va ragguagliata all’entità della partecipazione detenuta dal socio pubblico creditore nella società controllante quelle che in concreto e in via immediata hanno subito il danno per cui è causa. Nella specie, al Ministero dell’Economia e delle Finanze va quindi riconosciuto un risarcimento pari ad una quota del totale sopra quantificato in € 1.271.697,40, da calcolarsi applicando la percentuale corrispondente alla misura esatta (superiore al 30 %) della partecipazione detenuta in ENI s.p.a. dal Ministero medesimo all’epoca dei fatti in contestazione.

La condanna alle spese segue la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, definitivamente pronunciando, condanna XXXX al pagamento in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze di una somma pari alla quota parte del totale complessivo di € 1.271.697,40 da calcolarsi applicando la percentuale corrispondente alla misura esatta (superiore al 30 %) della partecipazione detenuta in ENI s.p.a. dal Ministero medesimo all’epoca dei fatti in contestazione, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi dalla data della presente sentenza, oltre alle spese di giudizio, liquidate in complessivi €.........................;

Così deciso in Milano, nella camera di consiglio del 30.1.2008.

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

Dr. Massimiliano Atelli Dr. Giuseppe Nicoletti

 

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