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Consiglio di Stato, Sez. VI, 7/10/2008 n. 4829
Il divieto di cui all'art. 13 del DL n. 223/2006 (c.d. decreto Bersani) opera anche nel caso che la partecipazione dell'ente locale ad una società sia meramente indiretta.

Il divieto di cui all'art. 13 del DL n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2007, è stato interpretato dalla prevalente giurisprudenza amministrativa in modo conforme alla ratio del medesimo, che è quella, illustrata nell'incipit della citata disposizione, di "evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori ".
Non può, pertanto, considerarsi rilevante, ai fini della non ricorrenza del divieto previsto dalla citata disposizione "la circostanza che la partecipazione dell'ente locale alla società sia meramente indiretta, come nel caso di specie. Infatti, ammettere che i vincoli posti dalla norma speciale riguardino esclusivamente le partecipazioni dirette degli enti pubblici alle società di cui trattasi, varrebbe a sostenere che i vincoli stessi possano agevolmente essere aggirati mediante meccanismi di partecipazioni societarie mediate. Al contrario, anche nelle società c.d. di terzo grado, come nel caso in esame, individuandosi, con detta definizione, quelle società che non sono state costituite da amministrazioni pubbliche e non sono state costituite per soddisfare esigenze strumentali alle amministrazioni pubbliche medesime, rimane pur sempre il rilievo che l'assunzione del rischio avviene con una quota di capitale pubblico, con ciò ponendo in essere meccanismi potenzialmente in contrasto con il principio della par condicio dei concorrenti. L'interpretazione anzidetta trova ulteriore e indiretta conferma nel c.3 del medesimo art. 13 suindicato, laddove il legislatore ha previsto un regime transitorio, durante il quale le società pubbliche o miste dovranno dismettere in particolare le loro partecipazioni in altre società".
Tale interpretazione è l'unica che consente che la norma possa dispiegarsi coerentemente con la ratio della sua introduzione, impedendo che attraverso il collaudato meccanismo delle partecipazioni societarie essa non trovi applicazione in ipotesi del tutto analoghe a quelle oggetto di espressa previsione.


Materia: società / partecipazione pubblica

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 8469/2007, proposto da BALDASSINI TOGNOZZI PONTELLO COSTRUZIONI GENERALI SPA, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Aldo Pezzana e Stefano Vinti con domicilio eletto in Roma via Emilia n. 88, presso lo studio del secondo;

contro

AZIENDA SPECIALE MOLISE ACQUE, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Claudio Neri e Demetrio Rivellino con domicilio in Roma piazza Capo di Ferro n.13, presso la Segreteria Sezionale del Consiglio di Stato;

CONSORZIO COOPERATIVE COSTRUZIONI, in persona del legale rappresentante p.t., in proprio e quale mandataria ATI COSTRUZIONI FALCIONE GEOM. LUIGI SRL, FAVELLATO CLAUDIO SPA, ANTONIO E RAFFAELE GIUZIO SRL, ZURLO DOMENICO, rappresentati e difesi dall’Avv. Vincenzo Colalillo con domicilio eletto in Roma via Albalonga n. 7, presso l’Avv. Clementino Palmiero;

per la riforma

della sentenza del TAR Molise sede di Campobasso Sez. I, n.628/2007, resa tra le parti;

Visto l’atto di appello con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti intimate;

vista la memoria di costituzione della appellata amministrazione Azienda Speciale “Molise Acque” e  la memoria di costituzione del “Consorzio Cooperative Costruzioni”;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 20 Maggio 2008, relatore il Consigliere Fabio Taormina ed uditi, altresì, gli avvocati Pezzana, Neri, e l’avv.to Buccellato per Colalillo;

Ritenuto e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue:

FATTO

Con il ricorso di primo grado l’odierna appellante aveva chiesto l'annullamento della determinazione dirigenziale 22.2.2007, n. 033, con cui erano  state approvate le risultanze della gara indetta dalla Molise Acque per l’affidamento della progettazione definitiva e dell’esecuzione dell’acquedotto molisano centrale e dell’interconnessione con lo schema Basso Molise, con conseguente aggiudicazione definitiva;- del verbale della seduta pubblica del 16.2.2007, con il quale era stata dichiarata l’aggiudicazione provvisoria nei confronti dell’A.T.I. controinteressata;

- dei verbali relativi alle sedute riservate per la valutazione delle offerte tecniche;

- di ogni altro atto antecedente, preordinato, connesso e consequenziale;

Con successivo ricorso per motivi aggiunti era poi stata proposta impugnazione nei confronti:

- del verbale della seduta pubblica del 13.2.2007;

- dei verbali delle sedute riservate del 14 e 15.2.2007;

- dell’atto di nomina della Commissione giudicatrice e del Presidente;

- di ogni altro atto antecedente, preordinato, connesso e consequenziale.

Era stato altresì richiesto il risarcimento del danno per equivalente ai sensi dell’art. 7 della L. n. 205/2000.

Con il ricorso incidentale, la controinteressata aggiudicataria aveva a sua volta richiesto l’annullamento in parte qua del disciplinare di gara, nella parte in cui, con riferimento all’offerta tecnica, prescriveva che “la documentazione di cui alle lettere dalla a) alla h) devono essere costituite da un massimo di cinque pagine di formato A3 per ogni lettera”..

Con la decisione oggetto dell’odierna impugnazione, il Tar ha accolto il ricorso principale con conseguente annullamento degli atti gravati; ha rilevato che non poteva procedersi alla rinnovazione della gara, per l’impedimento ex lege rappresentato dalla disposizione di cui all’art. 246, 4° comma del D.Lgs. 12.4.2006, n. 163, ed ha in parte accolto la domanda di risarcimento del danno avanzata dall’odierna appellata, limitatamente ai costi subiti per prendere parte alla gara, da maggiorarsi degli interessi legali, sino al soddisfo. Ha dichiarato improcedibile il ricorso incidentale proposto dall’A.T.I. controinteressata.

In particolare, i primi giudici, hanno preliminarmente esaminato il ricorso incidentale e -rilevato che esso era (unicamente) teso a prevenire una specifica censura avanzata dalla originaria ricorrente, e che tale ultima censura era infondata nel merito- ne hanno dichiarato la improcedibilità.

Hanno di seguito vagliato le censure contenute nel ricorso principale e, dopo averne respinte numerose, hanno accolto (punto n. 15 della decisione appellata) quella relativa alla lamentata mancata produzione da parte dell’aggiudicataria odierna appellata delle dichiarazioni relative all’insussistenza di cause di esclusione cui all’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006, con riferimento ai procuratori del Consorzio Cooperative Costruzioni muniti di poteri di rappresentanza.

Ha sul punto comunque rilevato il Giudice di I grado che, avuto riguardo a tale riscontrata illegittimità, non poteva ravvisarsi l’elemento della colpa a carico dell’amministrazione, respingendo, sotto tale specifico aspetto, il petitum risarcitorio avanzato dall’odierna appellante.

Accolto con riferimento al suindicato motivo di censura il ricorso di primo grado, si è poi proseguito da parte del Tar Molise nell’esame delle ulteriori censure contenute nel ricorso di primo grado, afferenti, alla composizione ed ai poteri della Commissione di gara, ed all’operato della medesima.

Sono stati funditus vagliati anche tali profili di critica, per comodità espositiva raggruppati, ed è stata esclusa la fondatezza di numerosi di essi; è  invece stata accolta la doglianza afferente la lamentata circostanza che la commissione giudicatrice aveva proceduto alla valutazione dell’offerta tecnica, attribuendo un mero punteggio numerico, non accompagnato da alcuna motivazione/giustificazione.

Al riguardo, si è osservata da parte del Tar “l’assoluta insufficienza del giudizio espresso esclusivamente in termini numerici”… “ violazione di una certa gravità“.

E’ stato quindi ritenuto dal Tar, quanto a tale comprovata illegittimità, che  sussistessero “…gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito extracontrattuale, ravvisandosi in primo luogo una condotta illecita connotata da colpa, quanto meno sotto forma di negligenza, considerato anche il rilievo attribuito dalla giurisprudenza alla necessità di esplicare il punteggio, in assenza di criteri dettagliati precostituiti.”

Accolte tali doglianze contenute nel ricorso di primo grado, si è poi ritenuto di non potere disporre la reintegrazione specifica sotto forma di aggiudicazione dell’appalto alla ricorrente di primo grado vittoriosa o di rinnovazione della gara, ostando a tale soluzione il disposto di cui all’art. 246, 4° comma del D.Lgs. 12.4.2006, n. 163 (concernente, come è noto, le infrastrutture di interesse strategico, qual è pacificamente quella per cui è stata bandita la gara per cui è   causa). In particolare è stato respinto il rilievo mosso dalla Società ricorrente, secondo cui nel caso in esame non sarebbe stato possibile applicare la menzionata disposizione, avendo la “Molise Acque” disatteso la norma di cui all’art. 11, 10° comma del citato D.Lgs. n. 163/2006, secondo la quale “il contratto non può comunque essere stipulato prima di trenta giorni dalla comunicazione ai controinteressati del provvedimento di aggiudicazione ” – termine inderogabile per le infrastrutture strategiche, qual è quella di specie.

Si è infatti osservato, nella appellata decisione, che detta ultima norma, “avente natura sostanziale, è indirizzata alle stazioni appaltanti e non già al giudice, vincolato, nell’applicazione, a quella – di carattere processuale - contenuta nel citato art. 246, 4° comma del Codice dei Contratti pubblici, rispetto alla quale essa deve necessariamente recedere, di fronte all’interesse pubblico alla sollecita realizzazione delle opere di che trattasi, senz’altro prevalente su quello particolare delle società controinteressate”, rilevandosi altresì che “eventualmente la violazione del richiamato art. 11 potrebbe assumere rilievo in altra sede, ove se ne dovessero ravvisare i presupposti ed, in particolare, l’elemento soggettivo, quanto meno, della colpa grave, per l’individuazione del danno erariale”.

I primi giudici hanno pertanto unicamente disposto in favore della originaria ricorrente il risarcimento del danno per equivalente, rilevando che nella specie la stazione appaltante e l’A.T.I. originaria aggiudicataria avevano stipulato in data 19.3.2007 il contratto d’appalto rep n. 35557.

Hanno quindi  quantificato il quantum debeatur, rilevando che non potevano essere risarciti il mancato utile ed il mancato incremento del requisito tecnico ed economico, atteso che entrambi tali “voci” risarcitorie presupponevano la certezza dell’aggiudicazione, (elemento non ravvisabile con riferimento alla posizione della società odierna appellante.

Hanno in particolare rilevato che  “nel dubbio circa l’esito si sarebbe potuto conseguire in caso di corretto svolgimento della gara, nei modi sottolineati in ultimo, il danno suscettibile di risarcimento va quantificato nella misura delle spese e costi sopportati per la preparazione dell’offerta e per la partecipazione alla procedura di gara. Segnatamente, sono risarcibili i costi riferibili unicamente alla gara in parola debitamente documentati, non potendo per esempio risarcirsi lo stipendio corrisposto dalla Società ricorrente ai propri dipendenti a tempo indeterminato, in assenza di prova della sottrazione di tali dipendenti ad altri specifici compiti, essendo il relativo onere a carico della medesima, in applicazione dell’art. 2697 c.c..Sulle somme così quantificate dovranno essere corrisposti gli interessi, nella misura legale, dall’esborso fino al soddisfo, mentre non è dovuta la rivalutazione, mancando la prova ex art. 1224, 2° comma c.c. e risultando il tasso d’inflazione attuale inferiore a quello d’interesse legale.”

 La sentenza è stata (soprattutto con riferimento ai profili concernenti la statuizione risarcitoria) appellata dall’ originaria ricorrente vincitrice che ne ha parzialmente contestato  la fondatezza.

In particolare ha rilevato che,avendo i primi giudici accolto alcune (esclusivamente quella relativa alla violazione del disposto di cui all’art. 38 del d.lvo n. 163/2006) delle censure che criticavano l’ammissione dell’Ati originariamente aggiudicataria della gara, appariva illogico che, quanto a tale profilo, avessero poi  ritenuto insussistente il profilo della colpa in capo all’amministrazione appaltante.

Sotto altro aspetto, e quanto al profilo di accoglimento del ricorso di primo grado in ordine al quale il Tar, valutando la condotta dell’amministrazione appaltante, ha ritenuto sussistere gli elementi integrativi dell’illecito extracontrattuale (con riguardo alla assoluta assenza di motivazione dei giudizi espressi sulle offerte tecniche), ha evidenziato la contraddittorietà della mancata previsione della risarcibilità   anche della voce del lucro cessante.

Invero era errata la statuizione che aveva limitato il disposto risarcimento  alle spese e costi sopportati: la perdita di chance costituiva posizione attiva risarcibile, anche e soprattutto allorchè non si avesse avuto modo di dimostrare la certezza dell’aggiudicazione in ipotesi di rinnovazione della procedura di gara.

Ha all’uopo riproposto- al dichiarato fine di valutare la complessiva condotta dell’amministrazione appellante- le censure relative alla erroneità della decisione del seggio di gara di ammettere l’Ati originariamente aggiudicataria (motivi I e II del ricorso in appello) e quella relativa alla composizione del seggio di gara.

Ha poi  esaminato i capi della sentenza che hanno affrontato  la questione della ammissibilità e della quantificazione della pretesa risarcitoria criticando gli approdi cui erano pervenuti i primi giudici  e rilevando  che  anche  a cagione della circostanza che l’amministrazione  appaltante aveva disatteso la norma di cui all’art. 11, 10° comma del citato D.Lgs. n. 163/2006, parte appellante si era vista privare della tutela reintegratoria in forma specifica.

La sentenza pertanto doveva essere in parte qua riformata: a tale invocata statuizione doveva conseguire la concessione della piena tutela risarcitoria in favore dell’appellante, comprensiva del risarcimento per la perdita di chance. Ha provveduto  a quantificare l’importo risarcitorio graduandolo in relazione al possibile accoglimento delle singole censure contenute nel ricorso in appello.

L’appellata amministrazione  si è costituita chiedendo respingersi il ricorso in appello, ed evidenziando che esattamente il Tar aveva respinto numerose delle censure avanzate dall’appellante.

Con riferimento a quelle (unicamente due) accolte, esattamente il quantum risarcitorio era stato restrittivamente determinato, a cagione della circostanza che – proprio in relazione al lamentato vizio motivazionale nella attribuzione e determinazione dei punteggi- non era possibile stabilire che probabilità avrebbe avuto l’appellante di aggiudicarsi la gara.

Non era pertanto risarcibile la voce di danno rappresentata dalla c.d. “perdita di chance”.

Sotto altro profilo, l’amministrazione appellata aveva provveduto ad applicare disposizioni normative di ardua interpretazione, di guisa che nessun profilo di grave colpa era ravvisabile nella condotta da questa spiegata.

La controinteressata appellata (ed originaria aggiudicataria) si è costituita in giudizio  depositando una articolata memoria  chiedendo del pari di respingere il ricorso in appello perché infondato: esattamente invero il Tar aveva respinto le tre principali censure postulanti la doverosità della immediata esclusione dalla gara dell’aggiudicataria. Ed altrettanto correttamente aveva escluso la risarcibilità della “perdita di chance”, atteso che, la (riscontrata dal Tar) inattendibilità dei punteggi attribuiti dal seggio di gara rendeva impossibile  stabilire quale delle numerose (18) partecipanti alla gara avesse la maggiore chance di aggiudicarsela. A fortiori tale impossibilità attingeva la posizione della odierna appellante.

DIRITTO

L’appello è parzialmente fondato e deve essere parzialmente accolto, con conseguente parziale riforma della appellata sentenza, nei termini di cui alla motivazione che segue.

Appare in via preliminare fare presente che il Collegio condivide la impostazione della giurisprudenza amministrativa secondo cui spetta al giudice amministrativo individuare l'ordine di esame dei motivi dedotti dal ricorrente, sulla base della loro consistenza oggettiva, e del rapporto fra gli stessi esistente sul piano logico-giuridico, mentre, l'accoglimento di una censura, che sia in grado di provocare la caducazione dell'atto impugnato, fa venire meno l'interesse del ricorrente all'esame degli altri motivi da parte del giudice e la potestà di questi di procedere a tale esame, autorizzando la dichiarazione di "assorbimento". (Consiglio Stato, sez. VI, 05 settembre 2002, n. 4487 , ma anche in argomento, Sez. V, 29 ottobre 1992, n. 1095).

In particolare, si è condivisibilmente affermato che “è rimesso alla discrezionalità dell'organo giudicante l'ordine con il quale intenda procedere all'esame delle questioni sottoposte al suo esame. In particolare, nel processo amministrativo di tipo impugnatorio, nell'affrontare le diverse questioni prospettate dal ricorrente, il giudice adito deve procedere, nell'ordine logico, preliminarmente all'esame di quelle questioni o di quei motivi che, evidenziando in astratto una più radicale illegittimità del provvedimento impugnato, appaiono idonei a soddisfarne pienamente ed efficacemente l'interesse sostanziale dedotto in giudizio; per passare poi, soltanto in caso di rigetto di tali censure, all'esame degli altri motivi che, pur idonei a determinare l'annullamento dell'atto gravato, evidenzino profili meno radicali d'illegittimità.(Consiglio Stato, sez. V, 05 settembre 2006, n. 5108)

Tale aspetto, come meglio si vedrà in tema di individuazione dei criteri  di cui all’art. 35 comma II del d.lvo n. 80/1998, lungi dall’assumere rilievo esclusivamente processuale, assume portata nodale, con riguardo agli aspetti sostanziali della controversia.

Invero deve rammentarsi che l’odierna appellante ha – mercè il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ed il ricorso per motivi aggiunti in detta sede proposto – sottoposto alla cognizione del Tar due distinti gruppi di censure (è bene ribadire, sebbene il dato emerga dalla esposizione in fatto, che identico schema è stato seguito nel ricorso in appello) .  

Un primo gruppo  di censure attiene in via diretta alla posizione della contro interessata aggiudicataria: l’accoglimento di ciascuna singola doglianza facente parte di tale gruppo, postula che quest’ultima dovesse essere immediatamente esclusa dalla gara e che, conseguentemente, la selezione dovesse essere aggiudicata immediatamente alla odierna appellante.

Non v’è dubbio che – avuto riguardo all’interesse diretto ed immediato dell’appellante- essa fosse massimamente interessata all’accoglimento di una, o tutte, le censure aventi tale natura.

Ciò, in via teorica, avrebbe comportato (in disparte la questione della anticipata stipulazione del contratto rispetto al termine di legge di cui  all’art. 11, 10° comma del D.Lgs. n. 163/2006,  sulla quale pure ci si soffermerà):

la piena salvaguardia delle procedure di gara; la aggiudicazione della stessa in capo alla seconda classificata (id est: l’odierna appellante).

Su una di tali doglianze il Tar si è favorevolmente pronunciato, accogliendo il ricorso di primo grado (con statuizione in parte qua regiudicata) sia pur non ravvisando colpa in capo all’amministrazione (aspetto della richiamata decisione, quest’ultimo, gravato dalla odierna appellante).  

Senonchè, l’appellante, già nel giudizio di primo grado, ha devoluto all’attenzione del Tar, un secondo gruppo di censure (criteri e motivazione dell’attribuzione dei punteggi, nomina della commissione di gara e professionalità dei componenti del seggio di gara, etc). 

Essa ha riproposto tali doglianze in grado di appello.

L’accoglimento di una o tutte delle doglianze ascrivibili a tale gruppo, comporta un effetto ben più radicale: la elisione dell’intera procedura selettiva, almeno a partire dal segmento attinto dal vizio di illegittimità, comprensiva dell’aggiudicazione, con teorico onere di ripetizione delle operazioni di gara.

In simili ipotesi, infatti. ritiene giurisprudenza amministrativa che - in ossequio alla necessità di coniugare l'esigenza di ripristinare la legalità amministrativa, in conformità al pertinente accertamento giurisdizionale, con il principio di conservazione degli atti amministrativi-  laddove l'azione amministrativa “si articoli in diversi segmenti procedimentali, ciascuno connotato dall'emanazione di veri e propri provvedimenti (come ad esempio le esclusioni, nel caso delle procedure di affidamento di appalti pubblici), il vincolo derivante dalla statuizione di annullamento consiste nella riedizione della sola fase procedurale colpita dal "dictum" di illegittimità, fatto, comunque, salvo il potere di annullamento d'ufficio dell'intera procedura, e quindi nella ripetizione delle operazioni di gara affette dal vizio riscontrato in sede giudiziaria.”( ex multis, si veda Consiglio Stato, sez. IV, 28 febbraio 2005, n. 692, ma Consiglio Stato , sez. IV, 22 settembre 2003, n. 5356).

E’ bene rammentare che anche con riferimento ad una delle doglianze riconducibili a tale gruppo, il Tar si è favorevolmente pronunciato, accogliendo il ricorso di primo grado (con statuizione in parte qua regiudicata), ravvisando l’elemento della  colpa in capo all’amministrazione, e pur tuttavia limitando le voci risarcitorie alle spese ed ai costi dalla odierna appellante sopportati (aspetto quest’ultimo, della richiamata decisione, gravato dalla odierna appellante).   

L’appellante ha riproposto nell’odierno appello numerose delle doglianze, non accolte dal Tar, ascrivibili ad entrambi i “gruppi” come sopra classificati.

E’ palese che essa (avesse ed) abbia soprattutto interesse all’accoglimento di quelle facenti parte del primo gruppo: di ciò essa si è perfettamente resa conto, tanto che, nella articolata memoria conclusiva da ultimo depositata, ha distinto le “voci” e gli importi risarcitori richiesti, in relazione alle singole doglianze  delle quali ha postulato l’accoglimento, distinguendo in ordine ai “gruppi” di riferimento.

Senonchè – e qui riposa la particolarità della questione oggetto dell’odierno giudizio- si ha una netta divaricazione tra ciò che è pregiudiziale con riferimento all’interesse dell’appellante (giudizio affermativo sulla necessità di escludere l’aggiudicataria controinteressata e di aggiudicare alla seconda classificata la gara) e ciò che è pregiudiziale sotto il profilo logico e giuridico (giudizio declaratorio della illegittimità delle operazioni di gara con riguardo a segmenti temporalmente ed ontologicamente antecedenti all’aggiudicazione) .

La questione si riflette avuto riguardo al petitum “finale”, a natura risarcitoria e di specie “quantificatorio”, devoluto alla cognizione del Collegio.

E più in particolare, lo si anticipa, la compresenza di tali elementi non consente di ritenere comunque accoglibile tout court (sul merito delle singole doglianze ci si pronuncerà di seguito) la richiesta dell’appellante volta ad ottenere l’attribuzione del risarcimento dei danni in misura piena (mancato utile, impossibilità di fare valere nelle successive gare il requisito legato alla esecuzione dei lavori) con riguardo all’accoglimento delle censure postulanti la doverosa esclusione della controinteressata aggiudicataria dalla selezione e l’aggiudicazione a se stessa della gara.

Ciò perché, devolute al Tar  (e da questo accolte, almeno in parte,) censure postulanti una illegittimità coinvolgente operazioni di gara antecedenti all’aggiudicazione, e comprensive di segmenti a quest’ultima prodromici (addirittura, si è articolata senza successo in primo grado, e si è riproposta in appello una doglianza, concernente la nomina della commissione di gara ed i requisiti professionali dei componenti della medesima che, laddove accolta, determinerebbe la declaratoria di illegittimità di tutte le operazioni susseguenti)  di tale giudizio deve altresì tenersi conto in sede determinativa del quantum risarcitorio.

In via di principio, quindi, non può condividersi l’iter logico seguito dall’appellante nel ricorso in appello (e nella memoria conclusiva da essa presentata) volto a quantificare la propria richiesta risarcitoria obliando la circostanza che v’è comunque stato un giudizio di illegittimità coinvolgente operazioni di gara distinte dalla verifica dei requisiti partecipativi delle aspiranti, e  coinvolgente, allo stato, l’attendibilità dei piazzamenti dalle stesse conseguiti.

Ciò premesso, e con l’avvertenza che in relazione al superiore orientamento, ed alla stregua delle illegittimità denunciate, assume portata recessiva -in termini di importanza avuto riguardo al petitum- la singola partita disamina delle doglianze dedotte dall’appellante con riguardo all’ intero svolgimento della procedura selettiva, si può passare all’esame delle doglianze specificate nel ricorso in appello.

L’esame delle stesse si impone comunque, avuto riguardo al dettato normativo di cui all’art. 2055 co.II cc e 2056 cc, in relazione al disposto di cui all’art. 1227 cc ivi richiamato, postulante a fini di graduazione dell’importo risarcitorio, l’accertamento in ordine al grado della colpa.

Tale necessità è sempre stata  tenuta presente dalla giurisprudenza amministrativa che ha ancora di recente affermato che “l'azione di risarcimento conseguente all' annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell' elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l' ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all' organo amministrativo nonché delle condizioni concrete in cui ha operato l' Amministrazione, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del giudice della legittimità.”(Consiglio Stato, sez. IV, 01 ottobre 2007, n. 5052);

Con più specifico riferimento alla tematica devoluta alla cognizione della Sezione, si è condivisibilmente affermato che “in tema di risarcimento danni per illegittima aggiudicazione di una gara pubblica, ferma restando la permanente difficoltà di individuare un quid pluris rispetto alla stessa illegittimità dell'atto, la colpa dell'amministrazione deve essere valutata tenendo conto dei vizi che inficiano il provvedimento, della gravità delle violazioni imputabili all'amministrazione, anche alla luce del potere discrezionale da essa concretamente esercitato, delle condizioni concrete e dell'apporto eventualmente dato dai privati al procedimento.” (Consiglio Stato, sez. IV, 11 ottobre 2006, n. 6059).

Ciò premesso,e quanto alle critiche avanzate alla sentenza di primo grado riferibili al mancato accoglimento delle doglianze postulanti la necessità dell’immediata esclusione dalla gara della controinteressata aggiudicataria, ritiene innanzitutto il Collegio che meriti accoglimento il primo motivo del ricorso in appello e che debba conseguentemente essere riformato  il corrispondente capo della appellata decisione (punti 9 e 10 della sentenza).

Ivi si è negato che l’ATI aggiudicataria dovesse essere esclusa dalla gara a cagione del fatto che la mandante del raggruppamento di progettisti fosse la Acque Ingegneria SRL, (società interamente  posseduta dalla Acque SPA,a capitale prevalentemente pubblico locale). Si è negata, in particolare, l’operatività, nel caso di specie, del divieto di cui  all’art. 13 del DL n. 223/2006 conv. in legge  n. 248/2007. 

Invero – come esattamente rilevato nel ricorso in appello- la prevalente giurisprudenza amministrativa ha interpretato il divieto di cui all’art. 13 del DL n. 223/2006 conv. in legge  n. 248/2007 in modo conforme alla ratio del medesimo,  che è quella, illustrata nell’incipit  della citata disposizione, di “evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori “.

Di conseguenza, (si veda da ultimo, deliberazione Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi, e forniture n. 35/2007) si è condivisibilmente affermato che  “non  può considerarsi rilevante, ai fini della non ricorrenza del divieto previsto dalla citata disposizione “  la circostanza che la partecipazione dell’ente locale alla società sia meramente indiretta, come nel caso di specie. Infatti, ammettere che i vincoli posti dalla norma speciale riguardino esclusivamente le partecipazioni dirette degli enti pubblici alle società di cui trattasi, varrebbe a sostenere che i vincoli stessi possano agevolmente essere aggirati mediante meccanismi di partecipazioni societarie mediate. Al contrario, anche nelle società c.d. di terzo grado, come nel caso in esame, individuandosi, con detta definizione, quelle società che non sono state costituite da amministrazioni pubbliche e non sono state costituite per soddisfare esigenze strumentali alle amministrazioni pubbliche medesime, rimane pur sempre il rilievo che l’assunzione del rischio avviene con una quota di capitale pubblico, con ciò ponendo in essere meccanismi potenzialmente in contrasto con il principio della par condicio dei concorrenti. L’interpretazione anzidetta trova ulteriore e indiretta conferma nel comma 3 del medesimo art. 13 suindicato, laddove il legislatore ha previsto un regime transitorio, durante il quale le società pubbliche o miste dovranno dismettere in particolare le loro partecipazioni in altre società.”. (così, Deliberazione Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi, e forniture n. 35/2007).

Tale interpretazione appare al Collegio corretta e condivisibile: essa è l’unica che consente che la norma possa dispiegarsi coerentemente con la ratio della sua introduzione, impedendo che attraverso il collaudato meccanismo delle partecipazioni societarie essa non trovi applicazione in ipotesi del tutto analoghe a quelle oggetto di espressa previsione. E da ciò consegue che, posto che la gara in questione era stata bandita in epoca successiva alla entrata in vigore del c.d. “Decreto Bersani” e della legge di conversione,  la  Acque Ingegneria SRL neppure avrebbe potuto giovarsi  della disposizone di cui al III comma del citato articolo 13 (arg. ex art. 13 comma IV del DL n. 223/2006 predetto).

Essa rientrava pertanto nel divieto di cui alla più volte citata disposizione, anche in considerazione della circostanza che la società in oggetto non poteva dirsi  essere operante nei “servizi pubblici locali” svolgendo attività strumentale in favore dei soggetti preposti alla gestione del servizio (sulla distinzione in oggetto, tra le tante, Cassazione civile, sez. un., 30 marzo 2000, n. 72).

Né il rilevo svolto dalla contro interessata aggiudicataria a pag 3 della propria articolata memoria può svalutare le superiori considerazioni ed indurre ad un contrario divisamento, atteso che il termine di riferimento del divieto di cui all’art. 13 del DL 223/2006 deve essere unicamente la società partecipante alla gara, neutro apparendo il dato afferente all’attività svolta dalla società detentrice della partecipazione in quest’ultima.

La doglianza doveva quindi essere accolta, ed hanno errato i primi giudici nel disattenderla.

Per quanto si dirà di seguito in tema di individuazione dell’elemento psicologico della colpa, poi, l’accoglimento della medesima esonera il Collegio dal prendere in esame la ulteriore doglianza, afferente al medesimo tema, e del pari contenuta nel primo motivo del ricorso in appello, relativa  al possesso dei  requisiti economici in capo alla Tecnodaf e quella relativa alle lamentate carenze certificative della polizza fideiussoria presentata dalla controinteressata aggiudicataria e riproposta al motivo n. II del ricorso in appello.

Passando adesso all’esame delle doglianze non accolte dal Tar Molise e riproposte nel ricorso in appello, volte a censurare la conduzione della gara da parte dell’amministrazione, ritiene la Sezione meritevole di accoglimento quella contenuta nel quarto motivo dell’atto di impugnazione (e sintetizzata, nei termini essenziali, nella memoria conclusiva depositata dall’odierna appellante). 

L’appellante invero, ha omesso di riproporre in grado d’appello numerose censure attingenti procedura di nomina della commissione di gara, la posizione del Presidente della stessa, etc  che erano state disattese dal Tar; ha invece sottoposto alla cognizione della Sezione la doglianza relativa alla erroneità del capo n. 25 della decisione in epigrafe appellata

Ivi, i primi giudici hanno escluso la fondatezza della censura relativa alla composizione della commissione alla stregua del dato letterale contenuto all’art. 84 co. VIII del D-lvo n. 163/2006, facendo presente che (si riporta il passaggio di maggiore interesse dell’iter motivazionale ivi esposto) “nella specie i componenti della commissione – tutti funzionari dipendenti della “Molise Acque”, inquadrati giuridicamente nel livello D3 - svolgono le funzioni di capo ufficio, con la specifica responsabilità di aree.

Segnatamente, il geom Di Bernardo, avente un’anzianità di servizio dal 17.9.1990, è capo ufficio della zona orientale, il geom. Gallo, con anzianità dal 13.8.1978, è responsabile dell’Ufficio “Dighe e Controllo”, il perito industriale Giustiniani, avente un’anzianità risalente addirittura all’1.11.1977, è capo ufficio per la zona “Molise centrale” ed infine il perito industriale Ullo, con anzianità maturata dal 20.1.1978, è a capo dell’Ufficio zona occidentale.

Pertanto le funzioni svolte, che consentono di conoscere le strutture gestite dalla “Molise Acque”, confrontandosi con i problemi che di volta in volta ivi si presentano ed individuandone la soluzione più opportuna, rivalutate ulteriormente alla luce dell’anzianità maturata presso l’Azienda, per quasi tutti pressoché trentennale, li rendono del tutto adeguati a valutare un progetto relativo a quel genere di opere che gestiscono quotidianamente, qual è quello di specie.”

Ritiene il Collegio che, in parte qua, la appellata decisione non resista alle censure formulate nel ricorso in appello.

Invero il comma VIII dell’art. 84 del d.lvo n. 163/2006 (la cui rubrica è intestata Commissione giudicatrice nel caso di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa) così statuisce:“i commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i funzionari della stazione appaltante. In caso di accertata carenza in organico di adeguate professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e comprovate, i commissari diversi dal presidente sono scelti tra funzionari di amministrazioni aggiudicatrici di cui all'art. 3, comma 25, ovvero con un criterio di rotazione tra gli appartenenti alle seguenti categorie:

a) professionisti, con almeno dieci anni di iscrizione nei rispettivi albi professionali, nell'ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini professionali;

b) professori universitari di ruolo, nell'ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dalle facoltà di appartenenza”.

Con riferimento alle competenze tecniche e professionali che devono possedere i componenti delle Commissioni giudicatrici di gare aventi ad oggetto lavori,servizi, e forniture, la giurisprudenza amministrativa formatasi sotto l’usbergo della antevigente disposizione di cui all’art. 21 della legge n. 109/1994 e succ. mod. ha avuto modo in passato di evidenziare che “se nei componenti della commissione giudicatrice di un appalto concorso risiedono le competenze professionali per il vaglio economico e tecnico delle offerte, queste competenze sono anche idonee a valutare gli aspetti correlativi alle varie giustificazioni che possono essere addotte a sostegno della serietà dell'offerta sospettata di anomalia; pertanto, sussiste una discrezionalità tecnica nel vagliare l'adeguatezza dei chiarimenti forniti dall'impresa offerente e ciò che rileva è il possesso, da parte di cui conduce l'esame, dei requisiti professionali necessari.” (Consiglio Stato, sez. V, 28 giugno 2002, n. 3566).

Ne consegue, quindi, che “la composizione della commissione incaricata del vaglio delle offerte presentate per l'aggiudicazione di un contratto ad evidenza pubblica con il sistema dell'appalto concorso deve rispondere, per lo meno, a certi requisiti imposti dalla natura stessa dell'opera da eseguire, nonché dalla razionalità e logicità delle scelte compiute in relazione alle finalità perseguite; pertanto è illegittima la composizione della commissione stessa qualora tra i componenti della stessa prevalgano elementi privi di competenze tecniche specifiche.”(Consiglio Stato, sez. VI, 25 luglio 1994, n. 1261).

Più di recente, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il riferimento al possesso in capo ai commissari dei requisiti tecnici e della professionalità necessaria a formulare un giudizio pienamente consapevole, costituisca principio “immanente nell'ordinamento generale, che trascende il settore dei lavori pubblici, per rendersi operativo in qualsiasi gara, in quanto risponde ai criteri di rango costituzionale di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa; pertanto, pur in mancanza, nel settore degli appalti di servizi, di un'espressa disposizione concernente la composizione della commissione giudicatrice, questa, avendo anche in detto settore il compito di valutare la qualità del servizio offerto, deve essere composta, almeno prevalentemente, da persone fornite di specifica competenza tecnica o munite di qualificazioni professionali che tale competenza facciano presumere.” (Consiglio Stato, sez. V, 18 marzo 2004, n. 1408).

Pare al Collegio potere affermare che -senza per questo dovere ricorrere, con sistematicità  ad “indagini” sul possesso in capo ai commissari dei requisiti in parola- emerga dal condivisibile orientamento giurisprudenziale succitato, una “tensione” verso la necessità dell’affermazione di un principio che individui i commissari quali “periti peritorum” della materia sulla quale devono esprimere il loro delicato  giudizio e che il possesso dei  requisiti di cui si è discorso debba essere  valutato anche in relazione ai concreti aspetti sui quali i medesimi devono formulare il loro giudizio.

Ciò al fine di evitare che sussistano, a monte, elementi che inducano in via anticipata i consociati (ed i partecipanti alla gara, soprattutto) a dubitare dell’adeguatezza professionale di chi è chiamato a giudicare comparativamente le proposte aggiudicatorie 

Ovviamente, nella impossibilità di saggiare in anticipo  ed in concreto la preparazione specifica dei commissari, può farsi riferimento ad alcuni dati che, in via presuntiva, consentano una prognosi tranquillizzante sul punto.

Tali dati non possono che essere due: possesso di un titolo di studio adeguato, e pregressa esperienza nel settore.

Esigenze di economicità hanno suggerito al legislatore la previsione di un archetipo di composizione formato da funzionari delle stazioni appaltanti.

Come è agevolmente ricavabile dalla disposizione di cui al comma VIII dell’art. 84 del d.lvo n. 163/2006 il principio non è assoluto, ma deve essere coniugato con il dato afferente al possesso della necessaria professionalità (che costituisce “prerequisito” per la nomina, vien fatto di affermare).  

Orbene: il punto di fatto dal quale occorre prendere e mosse è rappresentato, nel caso di specie, dalla circostanza che quattro dei cinque commissari (l’eccezione è rappresentata dal Presidente)non possedevano alcun diploma di laurea.

Non avrebbero potuto progettare ciò su cui erano chiamati ed esprimere il proprio giudizio.

In disparte le acute osservazioni dell’appellante (pag 30 del ricorso in appello) circa la specificità delle valutazioni che i commissari erano chiamati a formulare (criteri proposti per risolvere le prescrizioni in materia ambientale imposte dal CIPE) ritiene il Collegio che  la sentenza appellata, nel richiamarsi esclusivamente alla pregressa attività lavorativa dei commissari abbia obliato la necessità della specificità della valutazione della professionalità di questi ultimi, in relazione al giudizio che erano chiamati a rendere (si trattava della costruzione di un nuovo acquedotto, e non già di strutture relative a quelli già esistenti e da essi, dipendenti dell’amministrazione appaltante ben conosciuti).

E’ condivisibile, pertanto la doglianza di cui al quarto motivo del ricorso in appello, anche in relazione al richiamato orientamento dell’ Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi, e forniture reso con la deliberazione n.142/2007 riportato a pag 31 del ricorso in appello. 

Peraltro – la materia riguarda pubblici concorsi e pertanto il principio è solo indirettamente trasponi bile al caso in esame – già in passato, a seguito della sentenza della Consulta n. 453/1990  che era intervenuta su alcune disposizioni legislative della Regione Siciliana, si era affermato in giurisprudenza (si noti, in particolare, il richiamo ad una valutazione da formularsi in termini di concretezza) che “ le commissioni esaminatrici di pubblici concorsi possono ritenersi legittimamente composte solo quando i membri chiamati a farne parte in qualità di esperto rivestano effettivamente tale qualità nelle materie oggetto d'esame; con la conseguenza che per essi il possesso del titolo di studio, di livello quanto meno pari a quello richiesto per l'ammissione al concorso, deve essere corroborato dal possesso di ulteriori titoli (di studio, di servizio o professionali) idonei a dimostrare la specifica competenza in concreto dell'esaminatore nelle materie delle prove concorsuali. (Cons.giust.amm. Sicilia  sez. giurisd., 18 ottobre 1996, n. 344).

Conclusivamente, sul punto, può affermarsi quanto segue: l’art. 84 del d.lvo 163/2006, in sostanziale continuità con l’art. 21 della legge n. 109/1994 e succ. mod e con la previsione regolamentare di cui  all’art. 92 del dpr n. 554/1999, laddove ha inteso prevedere che i commissari siano “selezionati tra i funzionari della stazione appaltante” non ha inteso privilegiare in senso assoluto il requisito dell’inserimento nell’organico dell’ente appaltante rispetto a quello del titolo di studio, come può evincersi dalle ulteriori previsioni normative delle citate disposizioni.

La valutazione prognostica sulla professionalità di chi giudica quindi, non può prescindere dalla concreta disamina di ciò che costituisce oggetto di giudizio, ed a tal fine il possesso del titolo di studio adeguato è elemento che garantisce a monte, sotto un profilo presuntivo, dell’adeguatezza della scelta.

Nel caso di specie, ed avuto riguardo anche ai temi oggetto del giudizio che i commissari dovevano formulare, la valutazione concreta in oggetto non soddisfa i requisiti di professionalità prescritti dalla norma (ed indizio in tal senso è anche rappresentato dalla dialettica sviluppatasi in seno all’ente appaltante circa la composizione della commissione di gara, riportata alle pagg. 32 e segg. del ricorso in appello e non contestata dall’amministrazione appellata).    

La sentenza ha errato laddove, ancorandosi unicamente  al dato letterale normativo non ha svolto una verifica concreta attualizzata,e  pertanto non resiste alla censura contenuta nel ricorso in appello: la doglianza avrebbe dovuto conseguentemente essere accolta, con conseguente riforma in parte qua della sentenza appellata.

Così  conclusa la disamina in ordine alle doglianze investenti la gara celebratasi, può procedersi a rassegnare le conseguenze che da tali statuizioni devono trarsi in relazione al petitum risarcitorio.

In sintesi, deve rilevarsi che, con riguardo alle statuizioni demolitorie rese in primo grado e regiudicate, ed a quelle contenute nel ricorso in appello, sono state accolte ben quattro doglianze di illegittimità riferentesi alla gara in oggetto.

Due di esse attengono alla esclusione della controinteressata aggiudicataria (una di queste, come esposto nella premessa in fatto, era stata accolta già dal Tar ed è rimasta inimpugnata); altre due (una delle quali, concernente il deficit motivazionale dei giudizi espressi, già accolta in primo grado ed inimpugnata) riguardano, in generale, la conduzione della gara e, come si è dianzi evidenziato la composizione del seggio di gara.

Occorre a questo punto interrogarsi su due distinti ma collegati aspetti al fine di provvedere in ordine alla domanda risarcitoria.

Il primo di essi, riguarda la sussistenza, o meno, della colpa dell’amministrazione (ed il grado di essa) nei termini richiesti mediante il ricorso in appello (ed esuberanti rispetto alla statuizione soltanto parzialmente ricognitiva di tale elemento resa dai primi giudici).

Il secondo, logicamente susseguente,e ricollegabile a quanto già parzialmente evidenziato nell’incipit della presente decisione, concerne l’entità della misura risarcitoria.

Quanto al primo, ritiene la Sezione che nel complessivo comportamento dell’amministrazione possa ben ravvisarsi l’elemento colposo. E che esso sia connotato del requisito della gravità.

Invero il Consiglio ha avuto modo in passato di evidenziare il ridotto onere dimostrativo che grava in subiecta materia sul privato, atteso che “fermo restando l'inquadramento della maggior parte delle fattispecie di responsabilità della p.a., tra cui quella in esame, all'interno della responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio sotto il profilo dell'elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di un'espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell'amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dal singolo caso. Il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà, di contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una disposizione, di formulazione incerta di fonti normative recenti di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.(Consiglio Stato, sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3981).

Non si ravvisano ragioni per discostarsi dal superiore orientamento.

La complessiva condotta dell’amministrazione deve essere valutata unitariamente e, con riferimento alle quattro doglianze oggetto di accoglimento, non ritiene la Sezione

che la possibile incertezza concernente la portata del disposto di cui all’art. 13 del cd. “decreto Bersani” scrimini la condotta dell’amministrazione appaltante in termini si scusabilità delle violazioni poste in essere (già il Tar, peraltro, con riguardo alla espressione dei punteggi in termini meramente numerici aveva espresso tale -condivisibile  in parte qua-  divisamento).

Ciò che il Tar non ha colto, viceversa, è la necessità di una valutazione complessiva e non parcellizzata dell’azione dell’amministrazione; e del pari ha immotivatamente (pag 18 della impugnata decisione) escluso che colpa potesse ravvisarsi quanto alla inosservanza della disposizione di cui all’art. 38 del d.lvo n. 163/2006 con riferimento ai procuratori del CCC muniti di rappresentanza e la doverosità che anche essi rendessero le prescritte dichiarazioni, avuto riguardo ai poteri ad essi attribuiti.   

Ma v’è di più.

E’ sintomatico (sebbene si tratti di un post-factum rispetto alle doglianze articolate nel ricorso di primo grado) di un approccio quantomeno disattento e  negligente dell’amministrazione, la riscontrata violazione da parte di questa del disposto di cui  all’art. 11 co. X del d.lvo n. 163/2006.

Il dato storico è incontestato.

Le “giustificazioni” addotte dall’amministrazione a tale condotta (si veda sul punto pagg. 3 e 4 della memoria depositata in appello) fanno riferimento ad una generica esigenza di “urgenza” (elemento questo, ricorrente di massima in ogni iniziativa delle pubbliche amministrazioni aventi ad oggetto contratti pubblici) e non appaiono in alcun modo scalfire la portata della violazione.

Pare al Collegio che essa connoti viepiù in termini colposi l’operato dell’amministrazione, sol che si consideri che quest’ultima, così procedendo, ha (in via astratta, per ciò che di seguito ci si accinge a chiarire) frustrato il diritto alla pienezza della tutela giurisdizionale dell’appellante nei termini già in passato evidenziati dalla Sezione, secondo cui “nel processo amministrativo la tutela risarcitoria, oramai accessibile in via generale dopo la l. n. 205 del 2000, può essere assicurata attraverso la reintegrazione in forma specifica, o attraverso il risarcimento per equivalente, ma questa modalità ha carattere sussidiario rispetto alla prima, che più puntualmente risponde al principio della effettività della tutela del cittadino nei confronti dell'attività provvedimentale o materiale della p.a., perciò il risarcimento per equivalente può essere riconosciuto solo in quanto il ricorrente abbia espressamente limitato la propria domanda a detta modalità risarcitoria.”.(Consiglio Stato, sez. VI, 05 dicembre 2005, n. 6960).

Sulla circostanza che ricorra nella complessiva azione spiegata dall’amministrazione l’elemento colposo, e che quest’ultimo sia grave, non ritiene la Sezione necessario vieppiù immorare: tanto si ritiene raggiunta la piena prova della sussistenza di tale elemento, peraltro, che si è omesso di approfondire l’esame delle ulteriori doglianze postulanti la immediata esclusione dell’aggiudicataria).   

Dalla considerazione che l’art. 2043 c.c. è norma  immediatamente precettiva, discende in via immediata la necessità di affermare che all’appellante pertenga la tutela risarcitoria.

I criteri quantificatori delle voci di danno esposti nel ricorso in appello, ed i presupposti da cui essi muovono, non sono tuttavia condivisibili in toto.

E’ in particolare da disattendere la convinzione espressa dall’odierna appellante (e sottesa all’articolazione delle proprie richieste) secondo cui essa avrebbe conseguito la piena restaurazione della propria aspettativa all’aggiudicazione della gara   ove – accolte le doglianze che comportavano la immediata esclusione della contro interessata aggiudicataria- l’amministrazione non avesse stipulato il contratto, in violazione dell’art. 11 del d. lvo 163/2006 (ostando alla reintegrazione in forma specifica -come puntualmente rilevato dal Tar Molise- la cogente disposizione di cui al comma IV dell’art. 246 del citato “codice dei contratti”).  

  E ciò, per un motivo assai semplice, che di seguito si ribadisce: la gara in oggetto è stata attinta da due vizi di legittimità (omessa motivazione dei punteggi e, ancora preliminarmente, composizione della commissione) che si pongono “a monte” dell’aggiudicazione; e che ad essa sono pregiudiziali.

Entrambi tali vizi erano stati devoluti alla cognizione del Tar dalla odierna appellante; uno di essi era già stato rilevato dal Tar . Un altro ha trovato accoglimento mercè la presente decisione.

La  esistenza di tali vizi  -che si pongono in termini pregiudiziali rispetto all’aggiudicazione- non può essere obliata.

Avuto riguardo al contenuto della presente decisione ( in relazione ai vizi devoluti alla cognizione della Sezione, ed a quanto già statuito dal Tar Molise)  appare destituita di fondamento la prospettazione, contenuta nel ricorso in appello ed a pag.12 della memoria conclusiva, secondo cui laddove (come è avvenuto) si fosse riscontrata la fondatezza di uno dei primi tre motivi di censura contenuti nel ricorso in appello, ciò avrebbe comportato  “l’aggiudicazione della gara in favore dell’appellante”.

Ciò perché si sono individuati vizi antecedenti al passaggio aggiudicatorio e rispetto a quest’ultimo preliminari.      

Invero costituisce costante approdo della giurisprudenza amministrativa quello secondo cui l'annullamento degli atti di gara legata ad irregolarità formali delle operazioni svolte, comporta il travolgimento dell'intera procedura e, quindi, l'impossibilità di prevedere l'esito della gara e di accogliere la domanda di risarcimento danni proposta dalla ricorrente, poiché la stessa trova ristoro nella nuova opportunità che le viene offerta, derivante dalla ripetizione della procedura.

Nel caso di specie, tuttavia, l’avvenuta stipula del contratto rende impossibile tale conclusione.

L’inattendibilità dei punteggi attribuiti, poi, rende impossibile la esatta definizione della chance violata in capo all’appellante, del pari inquantificabile secondo i consueti criteri (si veda Consiglio Stato, sez. VI, 03 aprile 2007, n. 1514) a cagione del riscontrato vizio di illegittimità della composizione della commissione.

Detta situazione di incertezza, tuttavia, non può ridondare in danno del danneggiato. Men che mai laddove essa sia dipesa da una grave negligenza posta in essere dall’amministrazione.

In simili ipotesi, la concorde giurisprudenza amministrativa consente il ricorso al criterio equitativo, essendosi condivisibilmente affermato che “ai fini della liquidazione del risarcimento dei danni il criterio equitativo ex art. 1226 c.c., soccorre nel solo caso di impossibilità o estrema difficoltà di dimostrare la misura esatta del danno subito per effetto dell'atto illegittimo posto in essere dall'amministrazione e non anche per dimostrare l'esistenza stessa di un danno risarcibile, sotto il duplice profilo del danno emergente e del lucro cessante.”(Consiglio Stato, sez. V, 21 aprile 2006, n. 2256).

Ritiene la Sezione che detto criterio equitativo possa applicarsi nel caso di specie.

E che esso possa saldarsi alla previsione di cui all’art. 35 comma II del d.lvo n. 80/1998 (si veda, in ordine alla compatibilità delle due citate disposizioni, Consiglio Stato, sez. V, 06 giugno 2002, n. 3181 laddove si è affermato che nel caso in cui la determinazione dei criteri per il risarcimento del danno a norma dell'art. 35 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, sia stata richiesta in alternativa alla liquidazione del danno in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., la ricorrente non può dolersi che il giudice abbia fatto la scelta nel secondo senso, rimessa, peraltro, al suo prudente ed insindacabile apprezzamento).

L’amministrazione dovrà pertanto risarcire il danno arrecato all’odierna appellante. La somma offerta dall’amministrazione determinata ex art. 1226 cc, dovà – nei limiti di seguito fissati dal Collegio - tenere conto degli  elementi determinativi che ci si accinge ad indicare.

Essa dovrà ricomprendere le spese sostenute dall’appellante per la partecipazione alla gara, nei termini individuati dal Tar Molise (punto n. 28.1 della appellata decisione, che merita integrale e piena conferma, difformemente da quanto sostenutosi nel ricorso in appello, anche con riferimento alla posizione dei dipendenti a tempo indeterminato della società predetta).

Terrà conto poi, nella quantificazione del complessivo importo risarcitorio, che il danno arrecato è stato cagionato da una condotta gravemente negligente-

Avrà riguardo altresì alla circostanza che comunque -anche in relazione ad operazioni attributive di punteggi inattendibili, ed ad opera di una commissione la cui composizione era attinta dal vizio di illegittimità rilevato dalla Sezione- l’appellante ebbe a classificarsi al secondo posto –e  che l’aggiudicataria sarebbe dovuta essere esclusa dalla gara-  e provvedere a calcolare, ex art. 1226 cc, avendo riguardo alla molteplicità (17, una volta esclusasi l’aggiudicataria) dei partecipanti alla gara medesima, la percentuale risarcibile dell’utile derivante dalla probabilità di aggiudicarsi la gara in capo all’appellante, e quella relativa al conseguente mancato incremento del requisito tecnico ed economico.  

Ritiene il Collegio che la concorrenza della superiori “voci determinative” conduca ad individuare, quale somma comprensiva dei danni tutti arrecati alla società appellante, una cifra determinata attualmente (con esclusione quindi, di rivalutazione ed interessi pregressi) in una percentuale dell’offerta oscillante tra il 4 % ed il 5% della medesima, da concretamente determinarsi in contraddittorio con l’appellante, da parte della soccombente amministrazione appellata.  

Alla stregua delle superiori argomentazioni l’appello deve essere parzialmente accolto, nei termini di cui alla motivazione che precede, con conseguente parziale riforma della appellata decisione.

Possono essere compensate  per un mezzo le spese processuali dei due gradi di giudizio e deve essere condannata l’amministrazione appellata al pagamento della restante parte in favore dell’appellante, che appare congruo  liquidare in €. 6000,00 oltre IVA e CPA.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie in parte, nei termini di cui alla motivazione l’appello, e per l’effetto in riforma dell’appellata sentenza condanna l’amministrazione appellata al risarcimento dei danni in favore dell’appellante da liquidarsi ai sensi dell’art. 35 del D.lvo n. 80/1998, secondo i criteri enunciati in motivazione.

Compensa per un mezzo le spese processuali dei due gradi di giudizio e condanna l’amministrazione appellata al pagamento della restante parte in favore dell’appellante, liquidandola in €. 6000,00 oltre IVA e CPA.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 20 Maggio 2008  con l’intervento dei Sigg.ri:

Giuseppe Barbagallo                   Presidente

Paolo Buonvino                            Consigliere

Domenico Cafini                          Consigliere

Aldo Scola                                    Consigliere

Fabio Taormina                            Consigliere Est.

Presidente

GIUSEPPE BARBAGALLO

Consigliere                                                     p. Segretario

FABIO TAORMINA                                               MARIA RITA OLIVA

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 7/10/2008

(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)

Il Direttore della Sezione

MARIA RITA OLIVA

 

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