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TAR Puglia, Lecce, sez. I, 24/2/2010 n. 622
Sull'obbligo del sindaco di rispettare il principio di pari opportunità tra uomo e donna anche nella scelta dei membri del consiglio di amministrazione di una società in house.


Un sindaco nell'ambito della procedura svolta per la nomina dei membri del consiglio di amministrazione e del collegio dei sindaci di una società in house interamente partecipata dal comune, deve osservare l'art. 51 Cost. sul principio di pari opportunità tra uomo e donna, riservando una aliquota dei membri da nominare (la cui consistenza deve a sua volta formare oggetto di valutazione in concreto, sulla base delle singole circostanze) al sesso femminile.

Materia: società / partecipazione pubblica

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima

ha pronunciato la presente

 

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 1484 del 2009, proposto da:

Rita Quarta, Angela Maria Spagnolo, Paola Povero, Antonio Rotundo, Antonio Torricelli, Paolo Foresio, Carlo Benincasa e Gianni Colucci, tutti rappresentati e difesi dall'avv. Valeria Pellegrino, presso il cui studio in Lecce, via Augusto Imperatore n. 16, sono elettivamente domiciliati;

 

contro

Comune di Lecce, rappresentato e difeso dall'avv. Elisabetta Ciulla, con domicilio eletto presso gli uffici del Municipio in Lecce;

 

nei confronti di

Carlo Mignone e Mauro Mazzotta, rappresentati e difesi dall'avv. Angelo Vantaggiato, presso il cui studio in Lecce, via Zanardelli n. 7, sono elettivamente domiciliati;

Lupiae Servizi Spa, non costituita;

Angelo Nocco, Andrea Criscolo, Francesco Candido, Alessandro Micati, Vittorio Trullo, Marcello Ferrara, Gianluca Borgia e Luigi Coclite, tutti non costituiti;

Giuseppe Tamborrino, rappresentato e difeso dall'avv. Fabio Patarnello, presso il cui studio in Lecce, via 47° Rgt. Fanteria n. 29, è elettivamente domiciliato;

 

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

dei Decreti in data 30 giugno 2009, nn. 9 e 10, adottati dal Sindaco del Comune di Lecce ed aventi ad oggetto, rispettivamente, "nomina di cinque componenti, di cui due supplenti, del Collegio Sindacale della Società Lupiae Servizi s.p.a., ai sensi dell'art. 50 comma 8 del T.U. 267/00" e "nomina dei componenti dell'Organo di Amministrazione della società Lupiae Servizi s.p.a., ai sensi dell'art. 50 comma 8 del T.U. 267/00"; nonché del parere in data 26 giugno 2009, n. 79164, adottato dal Dirigente del Settore Affari Generali ed Istituzionali del Comune di Lecce; di ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e/o consequenziale.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Lecce;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del sig. Carlo Mignone;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del sig. Mauro Mazzotta;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del sig. Giuseppe Tamborrino;

Viste le memorie difensive rispettivamente prodotte dalle parti costituite;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16/12/2009 il dott. Massimo Santini e uditi per le parti gli Avv.ti Valeria Pellegrino, Ciulla, Vantaggiato e Patarnello;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

 

FATTO

In data 23 marzo 2009 il Comune di Lecce ha bandito avviso pubblico per la nomina, rispettivamente, di tre membri del Consiglio di Amministrazione e dei cinque componenti (di cui due supplenti) del Collegio Sindacale della società a totale partecipazione pubblica “Lupiae Servizi” (d’ora in avanti, “la società”).

Le domande a tal fine pervenute sono poi state esaminate da un apposito collegio di valutazione il quale, dopo avere escluso quelle carenti dei requisiti formali previsti per la nomina in seno alla predetta società, ha ritenuto in prima istanza idonee trentotto candidature (di cui due donne) per il consiglio di amministrazione e trentanove (di cui due donne) per il collegio sindacale.

Con i decreti impugnati sono poi stati nominati i membri dei ridetti organismi, senza tuttavia che al loro interno fosse contemplata alcuna candidata di sesso femminile.

I ricorrenti, nelle loro rispettive qualità di consiglieri comunali, interponevano dunque gravame per violazione del principio delle pari opportunità tra uomo e donna di cui all’art. 51 Cost., art. 6 del decreto legislativo n. 267 del 2000, nonché artt. 2, 69 e 109 dello statuto comunale, nonché per difetto di motivazione ed eccesso di potere per contraddittorietà dell’azione amministrativa.

Si costituivano in giudizio il Comune di Lecce, nonché i sigg.ri Mignone, Mazzotta e Tamborrino, nella qualità di controinteressati (in quanto soggetti nominati all’interno dei predetti organi), per chiedere il rigetto del gravame. In particolare, si eccepiva la inammissibilità del ricorso: a) per difetto di giurisdizione, dal momento che il Sindaco del Comune di Lecce avrebbe provveduto alla scelta dei predetti membri in qualità di socio, ai sensi dell’art. 2449 c.c. (pure richiamato dallo statuto della società) e non di autorità pubblica; b) per difetto di legittimazione a ricorrere in capo ai ricorrenti, sia in quanto consiglieri comunali, sia in quanto i medesimi non sarebbero comunque beneficiari della normativa sulle pari opportunità; c) per mancata impugnazione della precedente deliberazione n. 25 del 22 aprile 2004, la quale, nel dettare indirizzi e requisiti ai fini della nomina e della revoca dei suddetti rappresentanti, nulla affermava con riguardo al rispetto del principio delle pari opportunità; d) ancora, per mancata impugnazione della delibera assembleare 30 giugno 2009 con la quale i suddetti soggetti sarebbero stati poi in effetti nominati. Si rilevava inoltre la infondatezza dello stesso: a) in ragione dell’ampio potere discrezionale di cui gode in materia il Sindaco, ai sensi dell’art. 50, comma 8, del TUEL, il quale travalicherebbe il principio delle pari opportunità; b) per la natura privatistica della società, cui non andrebbe dunque applicato il principio in esame: la stessa non sarebbe infatti inquadrabile tra gli “uffici pubblici” di cui all’art. 51 Cost.; c) per la mancanza di precettività in capo alla disposizione di cui all’art. 6 del TUEL, la quale richiederebbe per la sua concreta attuazione un adeguamento delle norme statutarie che, al momento in cui sono stati adottati gli atti gravati, non era ancora stato operato: in altre parole, in assenza di una norma statutaria (al tempo della adozione degli atti impugnati) in materia di pari opportunità tra uomini e donne, alcun obbligo avrebbe gravato sul Sindaco in ordine al rispetto di siffatto principio.

Alla pubblica udienza del 16 dicembre 2009 le parti costituite rassegnavano le proprie rispettive conclusioni ed il ricorso veniva infine trattenuto in decisione.

 

DIRITTO

1. Va preliminarmente affrontata la questione di giurisdizione

Si eccepisce al riguardo che il Sindaco del Comune di Lecce avrebbe provveduto alla scelta dei membri del consiglio di amministrazione e del collegio dei sindaci della società (interamente partecipata dal comune) in qualità di socio della stessa, ai sensi dell’art. 2449 c.c., e non di autorità pubblica. In tale veste, non sarebbe stato pertanto tenuto al rispetto del principio delle pari opportunità.

Per rafforzare tale tesi si allegano una serie di pronunzie giurisprudenziali che il collegio, tuttavia, non ritiene adattabili al caso di specie.

Ed infatti: da un lato, le decisioni del TAR Campania n. 2252 del 2008 e n. 1184 del 2008 riguardano organismi di diritto pubblico; dall’altro lato, quella affrontata dalla Corte di Cassazione (n. 7799 del 2005) concerne una ipotesi di “assoluta autonomia” tra società ed ente locale (tra i quali non sussiste “alcun collegamento”).

Nel caso di specie, al contrario, si tratta di una società “in house” (che è qualcosa di diverso rispetto all’organismo di diritto pubblico, connotandosi per una maggiore aderenza organizzativa rispetto all’ente pubblico controllante). Ed infatti, da un esame del suo statuto si rileva che la medesima:

a) è a totale partecipazione pubblica;

b) realizza la propria attività esclusivamente in favore dei soci (ossia il Comune di Lecce), ai sensi dell’art. 3 dello statuto;

c) è sottoposta a controllo sia “strutturale” (mediante nomina degli organi amministrativi e di controllo, rispettivamente ai sensi degli artt. 13 e 18 dello statuto) sia “funzionale” (sull’attività svolta, ai sensi dell’art. 4 dello statuto) da parte del Comune di Lecce. In altre parole, l’azionista pubblico esercita un controllo analogo a quello svolto nei confronti dei propri servizi.

Quanto alla proprietà delle azioni – e al di là del fatto che esse sono interamente possedute, al momento, dal Comune di Lecce – il loro eventuale trasferimento potrà essere operato, ai sensi dell’art. 6 dello statuto, “esclusivamente in favore di altri enti pubblici territoriali”.

Pertanto, come affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza 26 agosto 2009, n. 5082 (che sul punto ha tratto a sua volta ispirazione dalla sentenza della Corte di Giustizia 13 novembre 2008, in causa C-324-07, sulla vicenda “Coditel Brabant SA”), anche in caso di proprietà eventualmente ripartita tra più enti pubblici il controllo analogo, sebbene non esercitabile individualmente dai singoli soci pubblici, potrà comunque essere svolto in modo effettivo, ossia congiuntamente e facendo ricorso al criterio della maggioranza.

In buona sostanza ricorrono, nella specie, tutti i requisiti dell’in house providing e, in particolare, la mancanza di una relazione intersoggettiva, trattandosi piuttosto di delegazione interorganica: la società si pone infatti quale “longa manus” o, se si preferisce, quale mero plesso organizzativo dello stesso ente locale.

Sussiste in questo modo un rapporto non di autonomia tra i due soggetti (comune e società) quanto piuttosto, in chiave sostanziale, di subordinazione gerarchica: il modello dell’in house, infatti, implica che la società di gestione sia priva di una propria autonomia imprenditoriale e di capacità decisionali distinte da quelle della pubblica amministrazione di cui costituisce, come efficacemente descritto da parte della dottrina, un “prolungamento organizzativo”.

Gli estremi dell’ingerenza pubblica sono tali da considerare la società alla stregua di parte integrante dell’amministrazione controllante, la quale esercita i propri poteri (formalmente) di azionista mediante gli schemi di diritto amministrativo dell’autoritatività e della unilateralità: non si tratta di semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario, ma di un assoluto potere – come peraltro evidenziato dalla Commissione UE nella nota 26 giugno 2002 diretta al Governo Italiano – di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato.

In sintesi, mentre nella citata sentenza della Corte di cassazione si fa riferimento ad un rapporto di “assoluta autonomia” tra ente locale e società, le quali si trovano in una situazione priva di alcun “collegamento”, nel caso di specie si verifica il contrario, dovendosi parlare di due soggetti in posizione di stretta dipendenza funzionale e strutturale, ossia di subordinazione gerarchica.

In questa direzione, la società di cui si controverte è da qualificare alla stregua di “ente strumentale” del comune, con ogni conseguenza in merito alla natura sostanzialmente pubblicistica della medesima.

Ora, poiché – come affermato dalla giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Reggio Calabria, 9 maggio 2005, n. 387; Cons. Stato, sez. V, 12 agosto 2002, n. 5552) – il potere attribuito al sindaco di provvedere alla nomina, ai sensi dell’art. 50, comma 8, del decreto legislativo n. 267 del 2000, dei rappresentanti del comune presso enti, aziende ed istituzioni, sussiste innanzitutto nelle ipotesi di rapporto di “strumentalità” o “subordinazione” esistente tra il comune e l’ente nei cui confronti la nomina ha effetto, ne deriva che nel caso di specie il comune ha correttamente fatto ricorso – come si evince dal preambolo dei due atti gravati – a tale specifico potere.

Il comune ha in particolare agito, in occasione della nomina dei predetti organismi societari, non come socio ma come autorità pubblica preposta al controllo ed al coordinamento della società, a nulla rilevando il richiamo nella disposizioni statutarie della norma di cui all’art. 2449 c.c., la quale costituisce peraltro disposizione di carattere sostanziale e non processuale, o meglio decisiva ai fini del riparto di giurisdizione.

Risponde inoltre a canoni di coerenza e logicità il fatto che, se il rapporto tra i due enti deve essere ricondotto ad un modello organizzativo di dipendenza organica (simile a quello che normalmente si realizza nell’organizzazione burocratica di una pubblica amministrazione) e dunque di derivazione pubblicistica, allo stesso modo gli atti organizzativi, ossia quegli atti attraverso i quali tale rapporto va regolato (e tra questi le nomine dei membri della società), debbono essere concepiti secondo analoghi schemi di diritto pubblico.

Del resto, appare ormai radicata la tendenza a sottoporre alle regole del diritto amministrativo organismi formalmente privati ma sostanzialmente pubblicistici: e ciò per quanto riguarda il rispetto sia dei criteri di evidenza pubblica per la scelta dei contraenti, sia del principio di concorsualità per il reclutamento del personale (cfr. art. 18 del decreto-legge n. 112 del 2008). Pertanto, è da ritenere coerente con siffatto orientamento la scelta di procedere alla nomina dei membri degli organi di amministrazione e di controllo delle stesse società mediante l’utilizzo di schemi decisionali propri del diritto amministrativo, ossia attraverso l’adozione di atti provvedimentali ed autoritativi.

Da quanto sopra detto deriva che, poiché gli atti di nomina di cui al citato art. 50 sono pacificamente annoverati tra gli atti c.d. di alta amministrazione (cfr. TAR Puglia Bari, sez. II, 15 maggio 2006, n. 1759), le sottese posizioni eventualmente vantate dai singoli interessati avranno consistenza di interesse legittimo, con ogni conseguenza in termini di giurisdizione del GA.

Alla luce di quanto appena rilevato l’eccezione suddetta deve così essere respinta.

2. Si affronta ora l’ulteriore eccezione di inammissibilità concernente la legittimazione ad agire in capo ai ricorrenti, i quali tutti agiscono nella veste di consiglieri comunali.

Il collegio ritiene al riguardo di non avere motivo di discostarsi dagli indirizzi precedentemente espressi, sul tema, da questo stesso tribunale amministrativo.

È stato affermato, in particolare, che “oltre al tradizionale riconoscimento della legittimazione dei consiglieri comunali ad agire in giudizio ove vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ ufficio, deve riconoscersi loro un’analoga potestà nei casi in cui venga contestata sotto altri profili … la legittimità dell'azione degli organi politici dell’ente di appartenenza” (T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 21 febbraio 2005, n. 680). “I rimedi giurisdizionali, in tal caso, doppiano quelli politico-amministrativi, presupponendo come questi ultimi la medesima funzione di controllo, tipica del consiglio comunale e riguardante casi di vera e propria legittimità e non di mera opportunità politica latamente intesa” (T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 26 ottobre 2005, n. 1306).

L’orientamento appena segnalato si fonda in sintesi sui seguenti presupposti:

In primo luogo, l’abolizione del controllo dei controlli preventivi di legittimità per mano della novella costituzionale del 2001 indurrebbe a prefigurare, quasi in via di compensazione, un ampliamento del controllo in sede giurisdizionale, attraverso un più esteso riconoscimento della legittimazione a ricorrere dei consiglieri di minoranza.

In particolare, l’eliminazione dei controlli eteronomi – pur dovuta al sostanziale fallimento legato alla loro esperienza – non esclude secondo autorevole dottrina che, in un’ottica di riorganizzazione e riassestamento del sistema delle autonomie locali, non possano essere individuate “forme di controllo diverse ed ulteriori, purché per queste ultime sia rintracciabile in Costituzione un adeguato fondamento normativo o un sicuro ancoraggio a interessi costituzionalmente protetti” (cfr. Corte cost., sent. n. 29 del 1995). Fondamento che, nella specie, sarebbe senz’altro rinvenibile negli artt. 97, 113 e 125 Cost.

D’altra parte, se l’obiettivo è quello di reperire in questa fase di transizione istituzionale ulteriori modalità di sindacato (risultando impensabile che la suddetta eliminazione comporti altresì una indefinita sottrazione degli enti locali da qualsivoglia forma di controllo esterno), tra queste ben possono annoverarsi i rimedi esercitabili davanti agli organi di giustizia amministrativa.

Al collegio non sfugge l’esistenza di forme di controllo già codificate, quali quelle di cui all’art. 138 TUEL ed all’art. 120 Cost., quest’ultimo come procedimentalizzato dall’art. 8 della legge n. 231 del 2003. E tuttavia, l’applicazione di tali meccanismi – al di là della sussistenza o meno dei necessari presupposti per la loro attivazione – è così complessa da non potere consentire sistematicamente il ricorso ai medesimi per ogni fattispecie che presenti possibili profili di illegittimità.

Si vuole conseguentemente evitare – al di là della peculiarità del caso di specie – che si vengano a creare zone franche di illegittimità, soprattutto laddove determinati provvedimenti, per la difficoltà connessa alla individuazione dei potenziali diretti interessati, si rivelino di fatto scarsamente suscettibili di gravame.

In secondo luogo, ciascun consigliere comunale conserva uno specifico interesse personale ad impedire, con ogni mezzo consentito dall’ordinamento, a che l’organo politico di riferimento istituzionale non agisca, formalmente o sostanzialmente, in violazione di legge.

Un tale interesse risulta peraltro strettamente connesso con quello alla conservazione dell’ufficio, atteso che una sistematica, grave e persistente, violazione di legge, può essere causa di rimozione del sindaco e dunque di scioglimento dei consigli comunali, ai sensi dell’articolo 141 del decreto legislativo n. 267 del 2000.

Sicché, ciascun consigliere ha un proprio interesse, differenziato e attuale, a chiedere l’intervento delle autorità giurisdizionali, al fine di ripristinare la legalità nell'azione degli organi consiliari, inibendo così anche future violazioni connesse, consequenziali o dello stesso genere (Tar Lecce, prima sezione, 12 maggio 2006, n. 2573).

Nei termini anzidetti, il consigliere comunale: da un lato, non è equiparabile al quisque de populo; dall’altro lato, agisce a tutela (o meglio alla conservazione) della carica rivestita (c.d. ius ad officium).

In terzo ed ultimo luogo, mediante la pretesa alla legittimità dell’azione degli organi comunali il singolo consigliere agisce altresì a tutela della propria immagine, così coltivando l’interesse morale a ricorrere quale componente di una istituzione che – nel complesso – opera nel rispetto della legge (Tar Lecce, prima sezione, 12 maggio 2006, n. 2573).

Come affermato dalla giurisprudenza amministrativa, “deve riconoscersi l’interesse dei componenti un collegio amministrativo ad operare in una struttura che verso l’esterno si presenti con i necessari crismi di legittimità e quindi di credibilità; e ciò nel quadro dei principi generali indicati dall’art. 97 Cost.” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20 ottobre 1978, n. 1053).

Per tutte le ragioni sopra evidenziate, anche tale eccezione di inammissibilità non può trovare ingresso.

3. Si affronta ora l’eccezione di inammissibilità per mancata impugnazione della deliberazione n. 25 del 2004, contenente indirizzi applicativi circa le modalità di nomina dei membri degli organismi societari in questione.

Ad avviso del collegio, il silenzio operato dalla suddetta delibera in ordine al rispetto del principio di pari opportunità non costituisce ragione idonea a giustificare la sua omessa applicazione da parte dei competenti uffici comunali; e ciò dal momento che l’obbligo di cui si controverte deriva direttamente – come più avanti si avrà modo di osservare – da disposizioni costituzionali, legislative e statutarie. In altre parole, la deliberazione non è da ritenersi lesiva soltanto perché non contiene alcune riferimento al rispetto di siffatto obbligo.

Decisiva, poi, è la constatazione che alcuna deroga al medesimo principio viene anche solo genericamente affermata nel richiamato atto di indirizzo del 2004: il che conferma la validità della tesi sopra sostenuta circa la mancata volontà, in capo alla suddetta delibera, di obliterare siffatto obbligo.

Da quanto detto deriva il rigetto della dedotta eccezione di inammissibilità.

4. Con ulteriore eccezione di inammissibilità si contesta la mancata impugnazione della delibera dell’assemblea della società in data 30 giugno 2009, con la quale si prende atto della nomina dei suddetti soggetti anche ai fini della corresponsione dei relativi compensi.

La richiamata delibera assembleare costituisce tuttavia una mera presa d’atto rispetto al decreto di nomina, non aggiungendo alcunché in termini di effetti costitutivi (e dunque di lesività), e ciò dal momento che tali effetti sono stati già posti in essere dai due decreti sindacali.

D’altra parte, il potere di nomina è in capo al Sindaco, ossia all’azionista di maggioranza (comune di Lecce), non anche in capo alla assemblea che alcun potere esercita in tal senso, se non in relazione alla determinazione del compenso da attribuire.

Il c.d. provvedimento di “presa d’atto” non costituisce pertanto determinazione amministrativa impugnabile, atteso che si tratta di mera attestazione, o dichiarazione di scienza, circa l’esistenza di un provvedimento che rientra nella competenza di altri e che rileva, per quanto di interesse, ai soli fini degli emolumenti economici da corrispondere (cfr. T.A.R. Sicilia Palermo, 10 luglio 1985, n. 916).

Anche tale eccezione deve essere dunque disattesa.

5. Nel merito, il ricorso è fondato per le ragioni così gradatamente evidenziate.

Ritiene preliminarmente il collegio che, ricondotte le vicende di cui si discute nell’alveo della norma di cui all’art. 50, comma 8, del TUEL (nomina da parte del sindaco dei membri degli enti strumentali del comune, cfr. punto n. 1), il rispetto del principio delle pari opportunità, nel caso di specie, sia da ricondurre ad obblighi derivanti da un complesso di norme di matrice costituzionale, ordinaria e statutaria.

5.1. Si rammenta, in primo luogo, che l’art. 51 Cost., come novellato sul punto dalla legge costituzionale n. 1 del 2003, prevede al primo comma che “tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

Come efficacemente sostenuto dai primi commentatori della nuova disposizione, quella apportata dalla legge costituzionale del 2003 rappresenta non tanto una “modifica” quanto, piuttosto, una vera e propria “attuazione” del dettato di cui all’art. 51 Cost. (che a sua volta costituisce specificazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.).

Con particolare riferimento ad alcune locuzioni contenute nella predetta disposizione si osserva tra l’altro che:

a) il termine “Repubblica” deve essere letto alla luce della nuova formulazione di cui al primo comma dell’art. 114 Cost., in forza del quale “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Pertanto, tutti gli enti territoriali, compresi comuni e province, sono tenuti alla realizzazione dell’obiettivo indicato dalla norma;

b) con il termine “appositi provvedimenti” (frutto peraltro di uno specifico emendamento parlamentare) ci si intende riferire non solo ad atti legislativi ma anche a regolamenti ed atti amministrativi. Tale locuzione riguarda in altre parole la possibilità di attuare con qualsiasi strumento – legislativo oppure amministrativo – il principio delle pari opportunità. Come ben evidenziato in occasione dei lavori parlamentari relativi alla richiamata novella costituzionale del 2003, si prospetta in questo senso un campo d’azione articolato nelle fonti e nei soggetti che pongono in essere il ridetto principio: la norma costituzionale prefigura infatti una ampia e diversificata attività promozionale posta in essere dai soggetti della Repubblica, non necessariamente soltanto con atti normativi, e dunque “una grande varietà di soluzioni, perché naturalmente diversi possono essere gli approcci al problema e i modi di affrontarlo” (cfr. relazione di accompagnamento al disegno di legge costituzionale, nella quale si parla anche di “norma-ombrello”);

c) l’accesso viene riferito non solo alle cariche pubbliche ma anche ai “pubblici uffici”, per tale intendendosi sia le ammissioni che avvengono tramite pubblici concorsi, sia – e soprattutto – quelle che avvengono mediante “nomina” come nel caso di specie. Per quanto riguarda, poi, la locuzione “pubblici uffici”, essa deve riferirsi a tutti i soggetti dell’ordinamento che, a prescindere dalla veste formalmente assunta, sono comunque assimilabili – sulla base di indici di derivazione comunitaria (funzioni esercitate, interessi perseguiti e modalità di controllo decisionale) – ad una pubblica amministrazione in senso sostanziale (nel cui novero è inquadrabile anche la società di cui si controverte, per le ragioni che sono state evidenziate al punto n. 1): deve riferirsi in altre parole a tutti gli organismi che – come nel caso di specie – sono in concreto qualificabili alla stregua di enti strumentali del comune, e dunque ad esso subordinati.

La portata della disposizione di cui all’art. 51 Cost., immediatamente e concretamente applicabile nei rapporti intersoggettivi, determina in questo modo un particolare modo di essere e di agire in capo a qualsiasi soggetto pubblico, anche locale, rientrante nella definizione di cui all’art. 114 Cost.: quello ovverossia di provvedere, quale che sia l’oggetto dei singoli interventi, sulla base dei canoni della c.d. “democrazia paritaria”.

Detto in altre parole l’art. 51 Cost., per come formulato, vincola ormai le singole amministrazioni ed i propri rappresentanti istituzionali, anche a livello locale, ad agire nel rispetto del principio di pari opportunità.

Di conseguenza, ogni statuizione che non tenga adeguatamente conto del necessario “riequilibrio di genere” costituirà una violazione di siffatto obbligo costituzionale.

5.2. Coerentemente con tale impostazione, l’art. 2 dello Statuto del Comune di Lecce prevede che “il Comune …, nelle materie di competenza, adotta le misure necessarie … assicurando in ogni caso la parità e la pari opportunità fra i due sessi”.

Tale disposizione, in uno con quella di cui al citato art. 51 Cost., integra in altre parole un generale canone conformativo dell’azione del Comune e quindi dei suoi organi (e tra questi il Sindaco) in ogni campo di attività, ivi ricompresi gli atti di nomina degli amministratori e dei sindaci delle società partecipate (qualora siano qualificabili, come nella specie, alla stregua di enti strumentali del comune e dunque di amministrazioni in senso sostanziale).

5.3. Ne deriva da quanto sopra detto che:

a) gli organi del comune sono tenuti alla applicazione del principio di pari opportunità, ora costituzionalizzato dall’art. 51 Cost.;

b) tale principio dovrà essere tradotto mediante specifici provvedimenti amministrativi, e in primo luogo in occasione di qualsivoglia atto di nomina;

c) il principio in questione dovrà trovare applicazione anche in relazione alle nomine concernenti gli enti strumentali del comune, ivi ricomprese le società da esso partecipate che possiedono le medesime caratteristiche di quella in esame.

Le conclusioni cui si è appena pervenuti trovano ora conferma, tra l’altro, nella nuova formulazione di cui all’art. 1, comma 4, del decreto legislativo n. 198 del 2006 (Codice delle pari opportunità), come modificato sul punto ad opera dell’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 5 del 2010. tale disposizione prevede infatti che “l’obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività”.

5.4. Le statuizioni sopra riportate sarebbero di per sé sufficienti a suffragare la tesi sostenuta dai ricorrenti. Ritiene tuttavia il collegio che, per mero dovere di completezza espositiva, debba essere evidenziata, nella specie, anche la violazione dell’art. 6, comma 3, del TUEL.

Esso prevede, in particolare, che “gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti”.

La tesi di alcuni dei controinteressati è in particolare quella di assegnare alla norma sopra indicata natura “programmatica” e non immediatamente precettiva, come tale contenente una mera direttiva indirizzata ai soggetti titolari della potestà statutaria: la norma, in altre parole, per poter trovare concreta applicazione necessiterebbe di disposizioni integrative di livello statutario che nella specie tuttavia difettano (o meglio difettavano, al momento della adozione degli atti qui impugnati).

Il collegio ritiene di non poter condividere tale impostazione.

Ed infatti, come anche evidenziato dalla dottrina che ha avuto modo di confrontarsi sul tema più generale delle disposizioni programmatiche, non è corretto parlare di norme ad efficacia programmatica in contrapposizione a norme ad efficacia obbligatoria, e ciò in quanto ogni norma giuridica è per sua stessa natura obbligatoria, se non altro per il solo fatto di essere inserita in un ordinamento normativo che valga a qualificarla come tale.

Parlare di norma programmatica come di norma che, al pari di ogni programma, può essere o meno attuata, equivarrebbe a negare il concetto stesso di norma.

D’altra parte, tutto nel mondo del diritto è “programma”, e tanto dal momento che il diritto costituisce proprio la traduzione in termini normativi di programmi che si intendono realizzare.

In questa prospettiva le norme programmatiche (dette anche “di scopo”), pur limitandosi a prescrivere indirizzi da attuare “de futuro” nonché in assenza della definizione circa il contenuto ed i mezzi necessari alla loro realizzazione, lungi dal potersi ritenere sfornite di valore normativo entrano comunque a costituire l’ordine giuridico, dando vita altresì a pretese azionabili rivolte a chiedere le loro osservanza da parte degli organi cui è attribuita la relativa competenza.

All’idea di “direttiva” non è pertanto corretto assegnare un significato vago e indeterminato, come se le enunciazioni programmatiche formulate in sede legislativa avessero un valore condizionato alla volontà dei soggetti destinatari (nella specie, gli organi titolari del potere statutario).

Piuttosto, può affermarsi che nella disposizione programmatica è contenuta, in linea di massima, una valutazione che ha carattere di generalità, nel senso ossia che la realizzazione degli obiettivi che essa si pone necessita di successive “puntualizzazioni”.

Ma ciò non toglie che, pur in assenza di queste (pur doverose) puntualizzazioni, gli organi titolari del potere amministrativo sottostante siano del tutto sganciati dal rispetto dei fondamentali principi (id est, pari opportunità) contenuti nelle c.d. norme “di scopo”.

Con questo si vuole dire che non è corretto contestare l’efficacia vincolante di norme le quali, pur riconoscendo in modo preciso ed esplicito un determinato diritto, rinviano ad una futura azione normativa (qui di revisione statutaria) la determinazione di una loro disciplina meglio specificata. Ed infatti, prima di tale intervento normativo integrativo (o specificativo, se si preferisce) l’efficacia di dette norme programmatiche non rimarrà sospesa, occorrendo invece ricavare, dall’intero “sistema”, limiti e modalità connesse all’esercizio di siffatto diritto.

Ebbene, da una analisi del “sistema” complessivamente considerato non può che trarsi la conclusione – coerentemente a quanto affermato nei punti che precedono – circa la attuale cogenza del principio delle pari opportunità nei confronti di tutti i soggetti istituzionali che compongono l’ordinamento repubblicano ed in relazione a qualsivoglia tipo di provvedimento – normativo oppure amministrativo – che si intende adottare con riguardo ai diversi settori di intervento.

L’art. 6, comma 3, del TUEL, va dunque oggi letto, facendo ricorso all’interpretazione storico-evolutiva, attraverso la lente di ingrandimento dell’art. 51 Cost.

Del resto, è pacifico come la disposizione in esame delinei un “fine”, pur senza specificare come conseguirlo. Trattandosi di norma finalistica, è tuttavia da ritenere che detto obiettivo (il rispetto delle pari opportunità) debba essere comunque raggiunto anche in assenza delle prescritte disposizioni integrative ed attuative dello statuto comunale, non potendosi ammettere che tali scelte possano indefinitivamente condizionare o meglio sospendere l’effettivo rispetto di tale obbligo, ora di matrice anche costituzionale. Spetterà poi all’interprete (e prima ancora ai singoli responsabili istituzionali) stabilire di volta in volta se tale principio, tenuto anche conto delle singole circostanze del caso concreto, sarà stato adeguatamente rispettato.

In conclusione:

a) la norma di cui all’art. 6, comma 3, del TUEL, anche alla luce del novellato art. 51 Cost., non può avere carattere meramente sollecitatorio o comunque non cogente: essa non può essere intesa, in altre parole, alla stregua di “mera raccomandazione liberamente disattendibile”, pena l’inevitabile depotenziamento della medesima in termini di precettività;

b) la predetta disposizione costituisce al contrario una regola giuridicamente rilevante (la cui inosservanza costituirà violazione del principio delle pari opportunità), diretta a valere non solo in sede di revisione statutaria ma anche, in assenza di siffatto recepimento, in sede di nomina dei membri degli organi collegiali e degli enti strumentali delle amministrazioni locali. Essa costituisce pertanto una disposizione vincolante, quantomeno rispetto al fine specifico da raggiungere (riequilibrio della rappresentanza dei due sessi);

c) in assenza di una revisione statutaria nel senso sopra indicato, spetterà agli organi competenti valutare caso per caso le modalità attraverso cui ottemperare all’obbligo in questione, e ciò tenuto anche conto delle singole circostanze che caratterizzano il caso concreto.

Infine, considerato che la disposizione di cui all’art. 6 si riferisce agli enti “dipendenti” dal Comune, deve di conseguenza ritenersi che in seno a tale categoria debba annoverarsi anche la società in questione, data la sua dimostrata natura di ente strumentale della predetta amministrazione comunale (cfr. punto n. 1). Non è dunque fondata, in questa direzione, la tesi sostenuta dalla amministrazione comunale resistente circa l’inapplicabilità del principio in esame alla società stessa.

Ne deriva da quanto detto che il Sindaco del Comune di Lecce, nell’ambito della procedura svolta per le nomine di cui si controverte, avrebbe comunque dovuto tenere conto del principio delle pari opportunità, eventualmente riservando una aliquota dei membri da nominare (la cui consistenza doveva a sua volta formare oggetto di valutazione in concreto, sulla base delle singole circostanze) al sesso generalmente sottorappresentato, ossia quello femminile.

5.5. A tanto si perviene anche considerando la particolare natura del potere esercitato.

Ed infatti si può ritenere acquisito, nella giurisprudenza (cfr., T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 15 maggio 2006, n. 1759; Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 1995, n. 898; Cass., SS.UU., 16 aprile 1998, n. 38823), il principio secondo cui i provvedimenti di nomina quali quelli in esame, pur costituendo atti di alta amministrazione e seppure connotati da un tasso di discrezionalità particolarmente elevato, non sono tuttavia sottratti, come tali, al principio di legalità ed in primo luogo al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento: tra questi, quello delle pari opportunità tra uomo e donna di cui alle citate fonti costituzionali, legislative e statutarie.

E ciò tanto più ove soltanto si consideri che, nella specie, non solo erano state ritenute idonee un certo numero di rappresentanti del sesso femminile ma addirittura, alcune di queste, avevano ottenuto una valutazione superiore rispetto ad alcuni dei soggetti poi nominati quali membri dei due organi in questione.

5.6. L’unico motivo di gravame, per come complessivamente prospettato e considerato, deve dunque trovare accoglimento.

6. Per tutte le ragioni di seguito indicate il ricorso è fondato e deve essere accolto. Per l’effetto, vanno annullati tutti gli atti in epigrafe indicati; con l’ulteriore conseguenza che, in sede di riedizione del potere amministrativo, il Sindaco del Comune di Lecce dovrà provvedere alla nomina di rappresentanti del sesso femminile sulla base degli esiti già ottenuti nella pregressa fase di valutazione dei singoli candidati.

Data la novità e l’obiettiva complessità della questione, sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce, prima sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 1484/2009, lo accoglie e per l’effetto:

A) annulla il decreto del Sindaco del Comune di Lecce in data 30 giugno 2009, n. 9, il decreto del Sindaco del Comune di Lecce in data 30 giugno 2009, n. 10 ed il parere in data 26 giugno 2009, n. 79164, adottato dal Dirigente del Settore Affari Generali ed Istituzionali del Comune di Lecce;

B) ordina al Sindaco del Comune di Lecce di provvedere alla nomina di rappresentanti del sesso femminile, all’interno degli organi societari in epigrafe indicati, come da motivazione (punto n. 6).

Spese compensate

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 16/12/2009 con l'intervento dei Magistrati:

Aldo Ravalli, Presidente

Luigi Viola, Consigliere

Massimo Santini, Referendario, Estensore

 

L'ESTENSORE                     IL PRESIDENTE

                       

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 24/02/2010

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