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Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale, 12/12/2018 n. 2854
Parere sullo Schema di decreto legislativo recante Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155.

Materia: società / disciplina

Numero 02854/2018 e data 12/12/2018 Spedizione

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REPUBBLICA ITALIANA

Consiglio di Stato

Adunanza della Commissione speciale del 5 dicembre 2018


NUMERO AFFARE 01940/2018

OGGETTO:

Ministero della Giustizia.


Schema di decreto legislativo recante “Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”.

LA COMMISSIONE SPECIALE del 5 dicembre 2018

Vista la relazione trasmessa con nota prot.U.L. n. 10591.U, in data 16 novembre 2018, con la quale il Ministero della Giustizia ha chiesto il parere del Consiglio di Stato in merito allo schema di decreto legislativo indicato in oggetto;

Esaminati gli atti e uditi i relatori Giulio Veltri, Pierfrancesco Ungari, Daniela Di Carlo, Francesco Gambato Spisani, Giordano Lamberti, Giovanni Grasso, Antonella Manzione, Giuseppina Luciana Barreca, Roberto Proietti;


.. 1. PREMESSA

Con relazione trasmessa con nota prot.U.L. n. 10591.U, in data 16 novembre 2018, il Ministero della Giustizia ha rappresentato che lo schema di decreto legislativo in esame costituisce attuazione della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, pubblicata sulla G.U. n. 254 del 30 ottobre 2017, e tende a soddisfare l’esigenza di operare, in modo sistematico ed organico, la riforma della materia dell’insolvenza e delle procedure concorsuali.

L’esigenza di provvedere ad una riforma organica della materia dell’insolvenza e delle procedure concorsuali deriva, anzitutto, dalle modifiche normative che si sono succedute negli ultimi tempi ed, in particolare, da quella attuata con il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, le quali hanno comportato un notevole mutamento della normativa di base, costituita dal regio decreto 19 marzo 1942, n. 267, ed hanno accentuato il divario tra le disposizioni riformate e quelle rimaste invariate, che risentono ancora di un’impostazione nata in un contesto temporale e politico lontano da quello attuale.

Inoltre, la frequenza degli interventi normativi, di natura episodica ed emergenziale, intervenendo su disposizioni della legge fallimentare già modificate, ha generato difficoltà applicative e la formazione di indirizzi giurisprudenziali non consolidati, con un incremento delle controversie pendenti ed il rallentamento dei tempi di definizione delle procedure concorsuali.

Di conseguenza, si è avvertita l’esigenza di un intervento organico in materia, al fine di ricondurre a linearità l’intero sistema normativo, riformando sia le procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, che la disciplina sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento di cui alla legge 27 gennaio 2012, n. 3.


2. NORMATIVA COMUNITARIA E PRINCIPI DI DIRITTO COMMERCIALE INTERNAZIONALE

La riscrittura complessiva della normativa concorsuale dipende anche dalle sollecitazioni provenienti dall’Unione europea, come emerge, in particolare:

dal regolamento (UE) 2015/848 del Parlamento e del Consiglio del 20 maggio 2015, avente ad oggetto l’efficienza e l’efficacia delle procedure di insolvenza per il buon funzionamento del mercato interno in ragione delle sempre più crescenti implicazioni transfrontaliere;

dalla raccomandazione n. 2014/135/UE della Commissione del 12 marzo 2014, che ha posto il duplice obiettivo di garantire alle imprese sane in difficoltà finanziarie l’accesso a un quadro nazionale in materia di insolvenza che permetta di ristrutturarsi in una fase precoce e di dare una seconda opportunità in tutta l’Unione agli imprenditori onesti che falliscono;

dal regolamento delegato UE 2016/451 della Commissione, che stabilisce i principi e i criteri generali per la strategia d’investimento e le regole di gestione del Fondo di risoluzione unico;

dalla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 novembre 2016 in tema di quadri di ristrutturazione preventiva, seconda opportunità e misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza e liberazione dai debiti che prosegue sulla strada dell’intervento anticipato prima che l’impresa versi in gravi difficoltà e della ristrutturazione precoce per preservare le parti di attività economicamente sostenibili, ma anche della liquidazione dell’attivo se l’impresa non può essere salvata in altro modo.

A ciò va aggiunto che, in tema d’insolvenza, la Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL) ha elaborato principi della Model law, cui hanno aderito molti paesi anche in ambito extraeuropeo (tra cui gli Stati uniti d’America), il cui recepimento, in regime di reciprocità, consente il riconoscimento dei provvedimenti giurisdizionali emessi nei rispettivi paesi con conseguente vantaggio anche per gli imprenditori italiani operanti all’estero.


3. LA LEGGE DELEGA N. 155/2017

La legge 19 ottobre 2017, n. 155, recante "Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza", contenente la delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza, è finalizzata all’adozione di una disciplina utile per dare risposta alle sollecitazioni sopra evidenziate.

Tale legge reca i seguenti principi generali, che il legislatore delegato è tenuto a rispettare:

sostituire il termine «fallimento» con l’espressione «liquidazione giudiziale»;

introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l’attuale nozione di insolvenza;

adottare un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore e con caratteristiche di particolare celerità;

assoggettare ai procedimenti di accertamento dello stato di crisi o insolvenza ogni categoria di debitore, persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore esercente un’attività commerciale, agricola o artigianale , con esclusione dei soli enti pubblici;

recepire, ai fini della disciplina della competenza territoriale, la nozione definita dall’ordinamento dell’Unione europea di «centro degli interessi principale del debitore»;

dare priorità di trattazione alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore;

uniformare e semplificare, in raccordo con le disposizioni sul processo civile telematico, la disciplina dei diversi riti speciali previsti dalle disposizioni in materia concorsuale;

prevedere che la notificazione nei confronti del debitore degli atti delle procedure concorsuali e dell’atto che dà inizio al procedimento di accertamento dello stato di crisi abbia luogo obbligatoriamente all’indirizzo del servizio elettronico di recapito certificato qualificato o di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti;

ridurre la durata e i costi delle procedure concorsuali;

riformulare le disposizioni che hanno originato contrasti interpretativi;

istituire presso il Ministero della giustizia un albo dei soggetti destinati a svolgere, su incarico del tribunale, funzioni di gestione o di controllo nell’ambito delle procedure concorsuali, con indicazione dei requisiti di professionalità, indipendenza ed esperienza necessari per l’iscrizione;

armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza dl datore di lavoro con le forme di tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori.

Il Governo è stato delegato ad adottare il decreto legislativo entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge n. 155/2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 2017, n. 254.

In assenza di una disposizione di segno diverso, nel caso di specie deve ritenersi che la legge sia entrata in vigore il 15 novembre 2017, decorso l’ordinario termine di quindici giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, come stabilito dall’art. 10 delle disposizioni sulla legge in generale (preleggi) contenute nel codice civile.

Tuttavia, sotto il profilo della tempestività dell’esercizio della delega, va rilevato che – come evidenziato dal Ministero della Giustizia - il termine di trasmissione dello schema di decreto legislativo alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica, di sessanta giorni antecedenti la scadenza della delega, previsto dall’articolo 1, comma 3, secondo periodo, della legge di delegazione, ha natura ordinatoria e non perentoria, come si evince dal terzo periodo del medesimo comma, che prevede la proroga di diritto di sessanta giorni del termine per l’esercizio della delega qualora - a seguito dell’inoltro dello schema di decreto alle Camere - il termine per l’espressione del parere delle Commissioni parlamentari (pari a giorni trenta) scada nei trenta giorni antecedenti la scadenza del termine di scadenza della delega ovvero successivamente.


4. L’ITER DI ADOZIONE DEL DECRETO LEGISLATIVO

A seguito dell’emanazione della citata legge n. 155/2017, il Ministero della Giustizia ha redatto lo schema di decreto legislativo in esame, il quale ha costituito oggetto di deliberazione preliminare del Consiglio dei ministri in occasione della riunione dell'8 novembre 2018.

Lo schema di decreto legislativo è corredato da una Relazione tecnica, dall’Analisi tecnico-normativa (A.T.N.) e dall’Analisi di impatto della regolazione (A.I.R.).

Ai sensi l'articolo 17, comma 25, lettera a), della legge 15 maggio 1997, n. 127, ai fini dell’emanazione del decreto legislativo in questione, è necessario che il Consiglio di Stato esprima il parere previsto in caso di emanazione di testi unici, quale quello in esame.

Vanno, inoltre, acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, prima di sottoporre lo schema di decreto alla deliberazione finale del Consiglio dei ministri.

Il decreto legislativo è adottato dal Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.


5. LO SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO

Il decreto legislativo di attuazione della legge delega n. 155/2017 contiene un quadro normativo unitario, recante, anzitutto, principi giuridici comuni al fenomeno dell’insolvenza, destinati ad operare come punti di riferimento per le diverse procedure, pur mantenendo le differenziazioni necessarie in ragione della specificità delle diverse situazioni in cui l’insolvenza può manifestarsi.

In quest’ottica sono stati dettati i principi generali e sono state definite alcune nozioni fondamentali nella materia in esame. In particolare, la definizione di «crisi» non equivale all’insolvenza in atto, ma implica un pericolo di futura insolvenza; la definizione di «insolvenza», invece, conferma la nozione di comune esperienza in uso nel mondo giuridico; la tradizionale espressione «fallimento» è stata abbandonata, conformemente alla tendenza manifestatasi nei principali ordinamenti europei di civil law (tra cui quelli di Francia, Germania e Spagna), tesa ad evitare – secondo l’intenzione del legislatore delegato - l’aura di negatività e di discredito, anche personale, che generalmente si accompagna a quel termine.

La riconduzione della disciplina dell’insolvenza ad un quadro sistematico ha, come corollario, la semplificazione delle regole processuali applicabili, con conseguente riduzione delle incertezze interpretative ed applicative e maggiore uniformità agli orientamenti giurisprudenziali.

L’obiettivo principale è quello di soddisfare esigenze di certezza del diritto, anche allo scopo di migliorare l’efficienza del sistema economico per renderlo più competitivo.

Lo schema di decreto legislativo tende anche ad armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza dell’imprenditore con le forme di tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori, tenuto conto di quanto previsto dalla normativa europea ed, in particolare, dalla Carta sociale europea di Strasburgo del 3 maggio 1996, ratificata ai sensi della legge 9 febbraio 1999, n. 30, che si occupa dell’attuazione dei diritti e delle libertà oggetto della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; dalla direttiva 2008/94/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2008 relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso d’insolvenza del datore di lavoro; e dalla direttiva 2001/23/CE del Consiglio del 12 marzo 2001, come interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti.

La Parte prima del codicesi occupa di definire la materia propria della crisi d'impresa e la materia dell'insolvenza, esdebitazione e sovraindebitarnento, raggruppando in dieci titoli, per 373 articoli,le norme che paventano tutte le possibili soluzioni tese alla loro risoluzione, sia in via preventiva e stragiudiziale sia in via processuale e definitiva, in relazione ai soggetti delle varie procedure ed ai terzi che vi possono partecipare (Disposizioni generali artt. 1-11; Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi artt. 12-25; Procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza artt. 26-55; Strumenti di regolazione della crisi artt. 56-120; Liquidazione giudiziale artt. 121-283; Disposizioni relative ai gruppi di imprese artt. 284-292; Liquidazione coatta amministrativa artt. 293-316; Liquidazione giudiziale e misure cautelari penali artt. 317-321; Disposizioni penali artt. 322-347; Disposizioni per l'attuazione del codice della crisi e dell'insolvenza, norme di coordinamento e disciplina transitoria artt. 348-373).

Il testo unico contiene, nella Parte II, norme di coordinamento con le disposizioni vigenti, modificando alcune disposizioni del codice civile (Titolo II e del Titolo V del libro V, riguardanti la disciplina dell'impresa, del lavoro nell'impresa e la disciplina societaria) nonché, disposizioni di leggi giuslavoristiche e di coordinamento con la normativa penale di settore.

La Parte terza del codice, tratta delle garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire, con le modifiche agli articoli 3, 4, 5 e 6, del decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122.

Infine, la Parte quarta riguarda l'entrata in vigore del codice e la disciplina transitoria.

Lo schema di decreto legislativo sostituisce le attuali procedure concorsuali di cui al Regio Decreto 16/3/1942, n. 267 e successive modificazioni con istituti previsti ex novo o sostanzialmente modificati dalla riforma:

a) le procedure di allerta e composizione assistita della crisi ad iniziativa del debitore di natura non giudiziale e confidenziale, tese a realizzare una risoluzione anticipata della crisi;

b) le procedure di composizione concordata della crisi ad iniziativa del debitore, dei creditori e dell’autorità giudiziaria, tese ad affrontare con tempestività ed elasticità le crisi di impresa.

In tale ambito rientrano i piani attestati di risanamento; gli accordi di ristrutturazione dei debiti; gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzioni di moratoria; il concordato preventivo; la procedura di liquidazione giudiziale (ex fallimento) che sostituisce il fallimento, del quale conserva le caratteristiche essenziali, ma con lo scopo di pervenire ad una maggiore rapidità, elasticità ed efficienza.

L'abolizione delle diverse procedure concorsuali attualmente in vigore, comporta la nascita di un procedimento «unitario» di accertamento giudiziale della crisi e dell'insolvenza, nel cui ambito rientrano le iniziative di carattere giudiziale basate sulla prospettazione di una crisi o dell'insolvenza, fatte salve le disposizioni speciali riguardanti la prima o la seconda situazione.


6. OSSERVAZIONI SULL’ARTICOLATO

E’ doveroso premettere un non formale apprezzamento per il lavoro svolto, che ha richiesto, per la mole della normativa da coordinare e razionalizzare e la delicatezza della materia, uno sforzo intellettuale ed esegetico non indifferente.

In questa consapevolezza, la Commissione speciale intende fornire alcune osservazioni collaborative e non critiche

Di seguito, l’articolato verrà esaminato nelle sue linee portanti, in relazione ai suoi vari titoli e, nei casi in cui la Commissione ritiene di effettuare osservazioni o formulare suggerimenti, anche nei suoi singoli articoli.


TITOLO I (artt. da 1 a 11)

Art. 1 - Il titolo I della Parte I dello schema di decreto legislativo, contiene "Disposizioni generali" nelle quali è contemplato l'oggetto e l'ambito di applicazione della normativa (art. 1).

Al terzo comma dell’articolo 1 sono fatte salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di crisi di impresa delle società pubbliche “in quanto compatibili con quanto disposto dal presente codice”.

Al riguardo, al fine di evitare dubbi e criticità applicative, valuti l’Amministrazione l’opportunità di eliminare tale inciso, posto che l’eccezione inerente all’applicabilità delle disposizioni contenute in leggi speciali aventi ad oggetto le crisi di impresa delle società pubbliche, non sarebbero più tali se si intendesse prevedere la loro vigenza soltanto in caso di loro piena compatibilità con quanto previsto dal codice in esame.

Art. 3 - Gli articoli 3, 4 e 5prevedono obblighi e doveri dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi e dell'insolvenza (debitore, parti, autorità preposte).

Relativamente al ‘debitore’ è opportuno modificare la rubrica dell’articolo 3, sostituendo la parola “Obblighi” con la parola “Doveri”, per esigenze di omogeneità, tenendo conto che tale ultimo termine è utilizzato nella rubrica dell’art. 4, dedicato ai “Doveri delle parti”. Anche perché, in effetti, non sembra trattarsi di “obblighi” in senso tecnico.

Art. 9 – All’articolo 9, dopo la parola “disposto” aggiungere le parole “dal presente codice”.

Art. 10 - L'articolo 10richiama alcune regole poste dal codice dell'amministrazione digitale riguardo alle modalità di formazione e comunicazione dei documenti informatici, al fine di semplificare e velocizzare le comunicazioni e responsabilizzare i destinatari delle comunicazioni con la previsione che, nell'ipotesi di mancata istituzione o comunicazione del domicilio digitale, le comunicazioni sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria, con la conseguenza che, indipendentemente dall'avvenuta ricezione dell'avviso (onere del soggetto interessato) la procedura proseguirà il suo iter esplicando i suoi effetti.

A tal fine, il secondo comma stabilisce che “Gli organi di cui al comma 1 (organi di gestione, controllo o assistenza delle procedure disciplinate dal presente codice) assegnano un domicilio digitale, da utilizzare esclusivamente per le comunicazioni inerenti alla procedura …”.

Al riguardo, si suggerisce di chiarire cosa si intende con il termine ‘assegnano’, e precisare le modalità e le garanzie con le quali tali organi provvedono al riguardo, creando, assegnando e comunicano ai soggetti interessati i domicili digitali, oltre a chiarire a carico di chi rimangano le eventuali spese per la gestione del domicilio stesso.

Al terzo comma dell’articolo 10, sostituire le parole “Le stesse modalità si adottano”, con le parole “Si procede con le stesse modalità”.


TITOLO II (artt. da 12 a 25)

Art. 13 – In relazione alle ‘Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi’, l’articolo 13 definisce gli "indicatori di crisi" facendo riferimento agli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell'impresa e dell'attività imprenditoriale svolta dal debitore, che possono incidere sulla sostenibilità dei debiti per l'esercizio in corso o per i sei mesi successivi e sulla continuità aziendale, tenuto conto anche della presenza di significativi e reiterati ritardi nei pagamenti, di durata diversa in rapporto alle diverse categorie di debiti.

Il secondo comma dell’articolo 13 prevede l’elaborazione (con cadenza triennale), a cura del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, degli indici di cui al comma 1 che, valutati unitariamente, fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell'impresa.

A fronte di ciò, l’ultimo comma dell’articolo 13 prevede che l'impresa che non ritenga adeguati tali indici, in considerazione delle proprie caratteristiche, “ne specifica le ragioni nella nota integrativa al bilancio di esercizio e indica, nella medesima nota, gli indici idonei a far ragionevolmente presumere la sussistenza del suo stato di crisi.”.

A tale riguardo, considerata la delicatezza e le ricadute di tale procedura (ai fini della presunzione della sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa), la quale, in sostanza, consente all’impresa di evitare l’applicazione degli indici elaborati in via generale (dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili) e di configurare indici ‘personalizzati’ in rapporto alla propria specificità, si richiama l’attenzione sull’esigenza prevedere che tale previsione sia in linea con gli indici di natura finanziaria di cui all’art. 4, co. 1, lett. h), della legge n. 155/2017, da individuare considerando, in particolare, il rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, l'indice di rotazione dei crediti, l'indice di rotazione del magazzino e l'indice di liquidità.

Art. 18 - L'articolo 18 prevede una tempistica veloce della procedura di allerta, che inizia con l'audizione del debitore e degli organi di controllo societari, se esistenti. La norma dispone che si proceda alla loro convocazione ed audizione in via riservata e confidenziale.

Il terzo comma stabilisce che l’archiviazione è disposta, tra l’altro, quando l'organo di controllo societario, se esistente o, in sua mancanza, un professionista indipendente, ‘attesta’ l'esistenza di crediti di imposta o di altri crediti verso pubbliche amministrazioni (di importo pari a quello indicato dalla norma in commento) per i quali sono decorsi novanta giorni dalla messa in mora.

Con tale previsione si è voluto evitare che imprese in apparente difficoltà a causa del mancato pagamento da parte di debitori pubblici debbano subire conseguenze pregiudizievoli ulteriori a causa dei tempi delle procedure di liquidazione e di pagamento; in tali ipotesi, i sindaci o l’attestatore, assumendosene la responsabilità, potranno attestare l’esistenza anche di crediti non definitivamente accertati, quando, ad esempio, gli ostacoli all’accertamento e al pagamento siano di ordine meramente formale o derivino da contestazioni pretestuose o limitate solo ad una parte dell’importo che l’imprenditore assume essergli dovuto.

Tuttavia, per garantire maggiormente il buon esito della procedura, si suggerisce di prevedere che, in casi del genere, almeno quando l’attestazione provenga dal professionista indipendente, i crediti in questione debbano essere, in qualche modo, documentati, oltre che ‘attestati’.

Correlativamente, nell’ultima parte del medesimo comma 3, occorre stabilire che l'attestazione e la relativa documentazione sono utilizzabili solo nel procedimento dinanzi all'OCRI.

Artt. 19 e 20 – Al primo comma dell’articolo 19, sostituire le parole “solo a fronte di”, con le parole “in caso di”.

L'articolo 19tratta delle procedure di composizione concordata della crisi ad iniziativa del debitore, che mirano ad ottenere un accordo tra debitore e creditori al fine di superare la fase di criticità ed evitare il ricorso alla procedura giudiziaria. Sono previste delle misure protettive a tutela del debitore, per consentire la conclusione delle trattative in corso (art. 20), che può comportare l'effettiva composizione della crisi e la risoluzione delle criticità ovvero, può sfociare in una procedura concorsuale con eventuale deposito della documentazione predisposta ed utilizzata nell'ambito della procedura di allerta.

Il secondo comma dell’articolo 20 stabilisce che il procedimento è regolato dagli articoli 54 e 55 in quanto compatibili.

Al riguardo, al fine di evitare dubbi e problemi applicativi, valuti il legislatore delegato se eliminare tale inciso (“in quanto compatibili”) o stabilire quali regole si debbano seguire in caso di ‘incompatibilità’, dettando la disciplina alternativa, applicabile nei casi in cui non sia possibile rispettare quanto stabilito dagli articoli 54 e 55.


TITOLO III (artt. da 26 a 55)

Relativamente alle Procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza, l’articolo 27 stabilisce la competenza esclusiva per materia del tribunale e, quanto alla competenza territoriale, prevede che non tutti i tribunali siano competenti per ogni genere di procedimento: - per i procedimenti di regolazione della crisi o dell'insolvenza e le controversie che ne derivano, relativi alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione, è competente il tribunale sede delle sezioni specializzate in materia di imprese; - per tutti gli altri procedimenti e per le controversie che ne derivano è competente il tribunale del luogo in cui il debitore ha il centro degli interessi principali.

L’ultimo comma dell’articolo 27 stabilisce che “l’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo avviene nei limiti della dotazione organica del personale amministrativo e di magistratura.”.

Al riguardo, si invita il legislatore delegato ad eliminare tale disposizione per evitare di far sorgere il dubbio che l’applicazione pratica della normativa in esame, e quindi l’attuazione della legge, dipenda della dotazione organica degli uffici giudiziari interessati.

In linea con il principio della unitarietà delle procedure, l'articolo 48disciplina l'omologazione sia del concordato preventivo che degli accordi di ristrutturazione dei debiti, con delle differenze in caso di opposizione al contenuto degli accordi di ristrutturazione dei debiti per favorire gli eventuali creditori dissenzienti e gli altri soggetti comunque interessati.

L'esito della mancata omologazione di tali procedure determina l'apertura della liquidazione giudiziale.

Al comma 5, si prevede che “Il tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza di adesione da parte dell'amministrazione finanziaria quando l'adesione è decisiva ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all'art. 57, comma 1, e 60 comma 1 e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione è conveniente rispetto all'alternativa liquidatoria.”.

Al riguardo, si richiama l’attenzione del legislatore delegato sul rispetto del principio di uguaglianza, posto che si prevede di riservare ad uno dei creditori (l’amministrazione finanziaria) un trattamento diverso da quello previsto per gli altri creditori, in relazione all'adesione prevista ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all'art. 57, comma 1 (accordi di ristrutturazione dei debiti) e dell’art. 60 comma 1 (accordi di ristrutturazione agevolati).

In ogni caso, allo scopo di evitare equivoci e criticità applicative, si suggerisce al legislatore delegato di valutare la possibilità di riformulare come segue il citato quinto comma dell’articolo 48: “Qualora, anche sulla base delle risultanze della relazione di un professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento di uno o più creditori risulti più conveniente rispetto all'alternativa liquidatoria, il tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria, quando l'adesione è decisiva ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all'art. 57, comma 1, e 60 comma 1.”.

Gli articoli 53 e 54 sono dedicati alle misure cautelari e protettive che possono essere oggetto di richiesta unitamente alla domanda per l'accertamento della crisi o dell'insolvenza e a quella per l'accesso alle procedure regolatrici, le quali si determinano automaticamente in conseguenza della mera richiesta del debitore.

Il quinto comma dell’art. 54 prevede che “Il presidente del tribunale o il presidente della sezione cui è assegnata la trattazione delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza fissa con decreto l'udienza entro un termine non superiore a trenta giorni dal deposito della domanda. Con provvedimento motivato il presidente del tribunale, può fissare l'udienza di cui al primo periodo entro un termine non superiore a quarantacinque giorni dal deposito della domanda. All'esito dell'udienza, provvede con decreto motivato, da depositarsi entro i successivi dieci giorni, fissando la durata delle misure. …”.

Tuttavia, l’ultima parte del medesimo comma 5, collega la cessazione – apparentemente definitiva - degli effetti protettivi prodottisi a norma del comma 2, al fatto che l'udienza e il deposito del decreto non intervengano nei termini prescritti e, quindi, ad eventi indipendenti dalla parte interessata o dalla decisione giudiziale, ed anzi conseguente a un ritardo imputabile all’ufficio giudiziario.

Si suggerisce, pertanto, di rivedere tale soluzione per non incorrere o in un non liquet vietato al Giudice o in una sorta di rigetto o di revoca implicite o silenti di misure cautelari o protettive.


TITOLO IV (artt. da 56 a 120)

Il Titolo IV della Parte I del decreto si pone l’apprezzabile intento di sistematizzare la disciplina degli strumenti di regolazione della crisi il cui comune denominatore è rappresentato dalla presenza di una fase negoziale, più o meno accentuata. Trovano così collocazione tutte le tipologie di accordi tra debitore e creditori, oggi presenti nella legge fallimentare -ove sono stati introdotti anche a seguito di novelle- ovvero nella legge 27 gennaio 2012, n. 3, a sua volta successivamente modificata, che conseguentemente deve essere abrogata con decorrenza dall’entrata in vigore della nuova disciplina.

Esso si articola dunque in tre Capi: nei primi due sono disciplinati gli accordi di ristrutturazione, nel loro vario atteggiarsi, cui possono accedere, rispettivamente, soggetti astrattamente “fallibili” (Capo I, artt. 56-64) o meno (Capo II, artt. 65-83); il terzo è dedicato al Concordato preventivo (Capo III, artt. 84-120), alle cui misure protettive è necessario ispirarsi, nei limiti della compatibilità, come indicato dal legislatore delegante (art. 5, lett. c) della l. n. 155/2017). Essendo la parte più propriamente procedurale oggetto della disciplina unitaria di cui al Titolo III, è evidente la necessità di una lettura combinata delle norme, onde comprenderne appieno e nell’immediato lo sviluppo e gli effetti. A tale proposito, per migliorare l’armonia del testo e valorizzarne la portata innovativa, si suggerisce di valutare l’inserimento del richiamo esplicito alla corrispondente norma procedurale ogniqualvolta se ne ravvisi l’utilità in sede di declinazione dei contenuti sostanziali di ciascun istituto.

Come ben rappresentato nella A.I.R. acclusa al provvedimento (pag. 11 e seguenti), secondo un recente studio realizzato nell’ambito di un progetto di ricerca europeo coordinato dall’Università di Firenze la procedura fallimentare tende ad essere numericamente prevalente sul ricorso al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione, la cui appetibilità cresce in relazione alla maggior dimensione dell’azienda: nel campione esaminato, quelle che hanno avuto accesso al concordato sono mediamente circa 6 volte più grandi in termini di attivo di quelle sottoposte a procedura fallimentare, ma circa 4 volte più piccole di quelle che hanno proposto accordi di ristrutturazione. In sostanza, l’accesso alle procedure liquidatorie è inversamente proporzionale alla grandezza dell’impresa, a riprova che le opzioni di continuità si appalesano eccessivamente onerose, anche in termini formali. Non a caso, all’interno del ricorso al concordato il 70 % privilegia quello a fini liquidatori.

La nuova disciplina mira dunque ad invertire tale tendenza, semplificando il procedimento degli strumenti negoziali di risoluzione della crisi anche attraverso la compressione di costi e durata, così da evitare che ad essi si addivenga quando il livello di gravità è tale da vanificarne a priori le possibilità di esito non liquidatorio. Il raggiungimento dell’obiettivo appare ben misurabile, potendosi ancorare a parametri numerici futuri da comparare agli attuali, così da rendere scientificamente apprezzabile la richiamata valutazione di impatto (V.I.R.).

I principi di delega specifici cui si dà attuazione con le disposizioni del Titolo IV sono contenuti rispettivamente nell’art. 5 (“Accordi di ristrutturazione e piani attestati di risanamento”); 6 (“Procedura di concordato preventivo”) e 9 (“Sovraindebitamento”, la cui disciplina peraltro si spalma anche sul Titolo V del Codice).

Occorre ovviamente avere presenti anche i principi generali di cui agli artt. 1 e 2 delle delega. In particolare, avendo il legislatore richiesto al Governo di operare il coordinamento con le disposizioni vigenti <<anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme non direttamente investite dai principi e criteri direttivi di delega, in modo da renderle ad essi conformi, e adottando le opportune disposizioni transitorie>>, si rende necessario proporre una riformulazione dell’art. 110 del vigente Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, come modificato dal d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56) per renderlo coerente con la nuova disciplina dei contratti pendenti con le pubbliche amministrazioni. Ma di ciò parleremo con maggior dettaglio in relazione all’art. 95.

Il Capo I del Titolo IV, dunque, sotto la comune rubrica “Accordi”, disciplina, ripartendoli in due distinte sezioni, gli strumenti negoziali connotati dalla totale natura stragiudiziale e quelli caratterizzati invece dalla sottoposizione al vaglio del Giudice attraverso l’omologazione. Assurgono così ad oggetto di autonoma trattazione i cosiddetti “Accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento” (art. 56) già menzionati, ai soli fini di declinarne gli effetti sull’azione revocatoria, dall’art. 67, comma 3, lett. d), della L.F.

Si ritiene tuttavia che tale apprezzabile scelta sistematica possa essere maggiormente valorizzata mediante una diversa declinazione delle rubriche delle Sezioni di riferimento, onde renderle conformi alle scelte di categorizzazione anche sostanziale degli specifici strumenti negoziali di regolazione della crisi ad esse riconducibili. In particolare, avendo opportunamente contrassegnato i piani in esecuzione di accordi con riferimento alla loro natura stragiudiziale (Sez. I ,“Strumenti negoziali stragiudiziali”), sarebbe opportuno evidenziare il diverso elemento della necessaria omologazione in riferimento a quelli di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore (Sez. II). In tal modo, oltre a giustificare la riconduzione di entrambi sotto la comune egida di “accordi” all’interno del Capo I, se ne evidenzierebbe subito l’elemento fondamentale di distinzione: il vaglio di ammissibilità giuridica e fattibilità economica da parte del giudice, secondo l’espressione mutuata dalla giurisprudenza di legittimità e traslata nel codice per chiarire definitivamente la possibilità di incidenza anche nel merito dell’accertamento giudiziale. Si suggerisce pertanto di sostituire la rubrica della Sez. II con la dicitura <<Strumenti negoziali soggetti ad omologazione>>, con ciò peraltro diversificandola da quella sostanzialmente coincidente dell’art. 57, e nel contempo abbracciando tutte le tipologie di accordi (agevolati, art. 60; ad efficacia estesa, art. 61; di moratoria, art. 62; fiscali e su crediti contributivi, art. 63) inseriti all’interno della stessa.

Pur essendo noto che rubrica legis non est lex, infatti, nondimeno l’intitolazione, in difetto di opposti assunti, può costituire elemento utile ai fini dell’interpretazione corretta della legge, in particolare in un ambito nel quale, a prescindere dall’inquadramento dogmatico, la cui effettuazione esplicita è scelta interamente rimessa al legislatore, appare comunque opportuno eliminare elementi di ambiguità o intrinseca contraddizione.

Sempre a livello generale, si rileva come, diversamente da quanto avviene per gli strumenti previsti nel Capo II e nel Capo III, in relazione ai quali è espressamente chiarito il presupposto oggettivo che ne legittima l’accesso -ovvero lo stato di crisi e/o di insolvenza- non è dato riscontrare analoga indicazione negli artt. 56 e 57. Si ritiene pertanto opportuno provvedere al riguardo, anche allo scopo di prevenire possibili contrasti interpretativi, peraltro già affiorati in passato. Si suggerisce pertanto di inserire in entrambe le norma al comma 1 dopo la parola “imprenditore”, l’inciso <<in stato di crisi e/o di insolvenza>>, coerentemente con le scelte del Governo al riguardo.

L’art. 56, nel dettare la disciplina degli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento, individua quale soggetto legittimato ad accedervi l’imprenditore “anche non commerciale” (comma 1). Tenuto conto del nuovo ambito di applicabilità del codice (art. 1), espressamente esteso, in conformità con le indicazioni della delega, a qualunque tipologia di imprenditore che eserciti attività commerciale, industriale, artigiana o agricola, la precisazione parrebbe far pensare ad una valenza restrittiva dell’utilizzo della sola parola “imprenditore”, laddove non connotata dalla indicata specificazione, se ritenuta necessaria. Si suggerisce pertanto di espungere l’inciso.

L’art. 57 reca la disciplina degli “accordi di ristrutturazione dei debiti”, mutuando sostanzialmente quella oggi contenuta nell’art. 182 bis della L.F.

Per assicurare una lettura armonica del testo, che consenta l’immediata individuazione della disciplina procedurale applicabile, stante l’avvenuta unificazione della stessa, si suggerisce di inserire al termine del primo comma dopo la parola “crediti” la frase << e sono soggetti ad omologazione ai sensi dell’art. 44>>.

Al comma 3 si suggerisce di inserire l’aggettivo “integrale” in relazione al previsto pagamento dei creditori estranei, coerentemente peraltro con quanto riportato nel successivo comma 4.

Valuti il Governo se circoscrivere la portata dell’art. 58, comma 2, che consente di apportare modifiche sostanziali al piano anche successive all’omologazione, con ciò eliminando il vaglio giudiziale sulle stesse, fermo restando quello del professionista indipendente, onde evitare abusi nel ricorso alle stesse.

L’art. 61, riguardante gli “accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa”, li declina come una species autonoma caratterizzata dall’efficacia impositiva degli effetti a particolari condizioni anche ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria. Viene data in tal modo attuazione all’indicazione di cui all’art. 5, lett. a) della legge delega, laddove si prevede di estendere l’analoga disciplina derogatoria delle regole generali di cui agli 1372 e 1411 c.c., già contenuta nell’art. 186 septies in relazione ai soli intermediari finanziari e alle banche, agli accordi di ristrutturazione non liquidatori e alle convenzioni di moratoria conclusi con altre tipologie di creditori, purché rappresentino almeno il 75 % dei crediti di una o più categorie giuridicamente ed economicamente omogenee.

Il comma 5 della norma, tuttavia, contiene un regime diversificato che riprende in parte quello precedente, in quanto fa riferimento a creditori costituiti da istituti finanziari o banche che rappresentino almeno la metà dell’indebitamento complessivo dell’imprenditore: in tale ipotesi, che in relazione illustrativa viene esplicitata come aver “ribadito” la persistenza dell’istituto, non risulta tuttavia chiaro se valga comunque la percentuale del 75 % di cui ai commi precedenti, ovvero se si tratti di una scelta interamente derogatoria. Eccezionalmente, peraltro, in tale ipotesi viene ammessa l’applicabilità anche in caso di concordato liquidatorio. Valuti il Governo se ciò possa considerarsi compatibile con le indicazioni della delega di “estendere” il regime di efficacia imposta preesistente, laddove si è inteso in realtà mantenerne uno comunque diversificato anche nei presupposti, senza che ne vengano neppure esplicitate le ragioni in relazione illustrativa.

Tale relazione illustrativa, peraltro, salvo le scelte del legislatore intendano discostarsi in maniera esplicita dalle risultanze degli ultimi arresti giurisprudenziali in materia di accordi di ristrutturazione (cfr. Cass., n. 1182/2018, n. 9087/2018 e n. 16347/2018), andrebbe modificata anche in relazione al richiamo, contenuto nel primo periodo, all’apertura di una procedura concorsuale quale alternativa agli accordi di ristrutturazione che non vadano a buon fine a causa dell’opposizione di creditori di scarsa entità. Quanto detto allo scopo di evitare di reintrodurre elementi di contraddizione interna nell’approccio all’istituto, fornendo argomentazioni di segno opposto alle possibili scelte dell’interprete.

Per quanto infine si tratti di espressione mutuata dall’art. 182 septies, valuti il Governo se chiarire meglio, quanto meno in relazione illustrativa, la connotazione “in buona fede” riferita alle modalità di partecipazione alle trattative (comma 2, lett. a).

La tipologia di strumenti di regolazione della crisi prevista nel Capo II si caratterizza a parte subiecti, essendo riferita esclusivamente a quelli cui non si applica la disciplina del fallimento (oggi liquidatoria). Trattasi di due strumenti posti ora come alternativi tra di loro: la ristrutturazione dei debiti del consumatore (Sez. II, artt. 67-73), che sostituisce il vecchio “piano del consumatore” e il concordato minore (Sez. II, artt. 74-83), che prende il posto, invece, degli accordi del debitore, ma al quale il consumatore non può più accedere, diversamente dal passato. Un minimo nucleo di disciplina in comune è contenuto negli artt. 65 e 66, che costituiscono la Sez. I. In particolare, si prevede che per tutto quanto non specificamente previsto trovi applicazione il Titolo III, in quanto compatibile.

Presupposto dell’applicabilità di entrambi gli istituti è lo stato di “sovraindebitamento”, la cui definizione avviene ora, diversamente che in passato, mediante richiamo alla nozione di stato di crisi o di insolvenza in cui versino i soggetti elencati all’art. 2, comma 1, lett. c). Trattasi, in particolare, del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start up di cui al decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali.

Come già anticipato, il Codice assorbe la disciplina dei procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento contenuta nella legge n. 3 del 27 gennaio 2012, modificata dall’art. 18 del d. l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221. Si ricorda pertanto la necessità che tale legge venga abrogata contestualmente all’entrata in vigore della nuova disciplina. Trattasi, come noto, dell’estensione al nostro Paese del principio, di origine comunitaria, della cosiddetta seconde chance, che trova oggi enunciazione positiva nel regolamento europeo sulle procedure di insolvenza (cfr. “considerando” 10 Reg. 848/2015 UE), espressamente richiamato nelle relazioni di accompagnamento al testo, in particolare nella A.T.N. , per garantire una seconda opportunità agli imprenditori o ai consumatori che si distinguano per meriti e non abbiano causato il proprio dissesto. La scelta di far coincidere la nozione di sovraindebitamento con quella di crisi o di insolvenza, diversamente da quanto avviene con l’art. 6 della l. n. 3/2012, che provvede in maniera autonoma, impone un adattamento di concetti tipicamente disegnati su soggetti imprenditori (la crisi e l’insolvenza) a soggetti che, anche se eventualmente tali, vengono all’attenzione del legislatore quali persone fisiche in seria difficoltà economica. Quanto detto in particolare con riferimento alla figura del “consumatore”: per il quale si pone l’esigenza di obiettivare il più possibile tale situazione di difficoltà: allo scopo, nel fornirne la definizione (art. 1, lett. e), si ricalca testualmente quanto riportato nell’ art. 2, comma 1, lett. a) del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Codice del consumo. Elemento di discrimine ai fini dell’ammissibilità dell’inserimento nel piano dei debiti è il fatto che il soggetto li abbia contratti per <<scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta>>, perfino ove si tratti di socio di una delle società di persone di cui ai Capi III, IV e V del Libro V del codice civile.

L’indicazione appare in linea con gli arresti giurisprudenziali in materia, ancorché basati sulla ricordata diversa formulazione dell’art. 6 della l. n. 3/2012. In particolare, con la sentenza n. 1869 del 1° febbraio 2016 si è affermato che <<la prescritta destinazione dei debiti a scopi estranei rispetto all'attività d'impresa o di professione, precisata in negativo (e solo 'eventualmente svolta', cioè con riguardo al passato), permetta allora di rinvenirne la compatibilità innanzitutto con il consumatore sovraindebitato che non sia o non sia mai stato né imprenditore né professionista, con chi lo sia stato e però non lo sia tuttora ovvero con chi lo sia tuttora - nell'accezione dimensionale interna ai requisiti di accesso più generali di cui alla l. n. 3 del 2012 — ma non annoveri più tra i debiti attuali quelli un tempo contratti in funzione di sostentamento ad una di quelle attività. La dizione in esame, invero, enfatizza la finalizzazione delle obbligazioni e tuttavia, nonostante la sintesi della formula, consente di istituire un ulteriore collegamento implicito ancora negativo tra il debito e lo svolgimento in proprio delle predette attività, lasciando unicamente aperta la ricognizione della figura del consumatore, dunque la sua compatibilità rispetto al soggetto, anche professionista o imprenditore, indebitato ma per attività altrui, per le quali ovviamente, secondo un apprezzamento di merito, sia escluso un qualsivoglia rimando al perseguimento di operazioni che rivelino, oltre lo schema di sostegno solidaristico a terzi, un impiego del rischio così assunto in una dimensione partecipativa, per il comune interesse d'impresa o anche all'attività professionale>>.

Limitazioni soggettive all’accesso sono poi statuite all’art. 69 in termini di colpa grave, malafede o frode nel determinare la situazione di sovraindebitamento, oltre che nell’aver già fruito dell’esdebitazione nei 5 anni precedenti la domanda o comunque per due volte.

L’individuazione dei soggetti legittimati ad accedere agli strumenti de quibus mediante il mero richiamo all’art. 2, comma 1, lett. c), pur rispondendo ad apprezzabili esigenze di sintesi rischia, di creare possibili aree chiaroscurali sulle quali si ritiene opportuno richiamare l’attenzione del Governo.

In particolare, non risulta di immediata intellegibilità la volontà del legislatore delegato in relazione all’imprenditore agricolo, che figurando nominativamente –come del resto in passato – nell’elenco dei possibili fruitori delle procedure da indebitamento, separatamente dall’ “imprenditore minore”, parrebbe non essere assoggettato ad alcuna distinzione di disciplina in relazione al limite dimensionale. Quanto detto peraltro tenuto conto che anche in relazione ai piani attestati di risanamento, per i quali il Codice prevede espressamente l’applicabilità agli imprenditori “non commerciali” (v. supra, sub art. 56) ovvero agli accordi di ristrutturazione, ove si tratti di imprenditore “non minore”, non sussistono limitazioni all’accesso sulla base del quadro normativo proposto nel codice. E tuttavia in senso diametralmente opposto pare esprimersi la Relazione illustrativa che, nel rappresentare i contenuti dell’art. 65, concernente genericamente l’ambito di applicazione delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, vi ricomprende <<gli imprenditori agricoli, che, pur svolgendo attività imprenditoriale non sono soggetti alle procedure della crisi “maggiori”>>, tra le quali annovera sia i piani attestati che gli accordi di ristrutturazione, con ciò evidenziando una ritenuta alternatività tra i vari rimedi, quanto meno in relazione alle dimensioni dell’impresa. Ciò peraltro in apparente contrasto con l’esigenza, particolarmente sentita in giurisprudenza, di operare dei distinguo anche qualitativi all’interno delle attività dell’impresa agricola, tenuto conto dell’attuale formulazione del comma 3 dell’art. 2135 c.c., laddove le “attività connesse” con quelle correlate alla coltivazione del fondo assumano un rilievo decisamente prevalente e sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura, con onere della prova a carico di chi invochi l’esenzione (cfr. Cass., 8 agosto 2016, n. 16614). Ove, pertanto, non si intenda riferire la possibilità di accesso dell’imprenditore agricolo al concordato preventivo minore a prescindere dai suoi limiti dimensionali, si rende necessario integrare il comma 1 dell’art. 65 –ovvero, se preferibile, l’art. 2, comma 1, lett. c)- con suddetto richiamo alla dimensione dell’impresa; diversamente, si rende opportuno chiarire in relazione illustrativa le ragioni della scelta di favore operata nei confronti dello stesso rispetto ad altre tipologie di imprenditori non commerciali.

In relazione alle start up innovative, esse erano esonerate da qualsivoglia procedura concorsuale ad eccezione di quelle da sovraindebitamento già dall’art. 31 del d. l. n. 179/2012, scelta che il codice pare mantenere anche a regime, stante il richiamo testuale alla normativa in questione contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. c).

Il consumatore sovraindebitato può chiedere nel Piano che siano oggetto di ristrutturazione (“sistemazione”) anche i finanziamenti garantiti dal quinto dello stipendio, del TFR o della pensione, oppure garantiti da pegno (art. 67 c. 3). Viene così superato l’indirizzo restrittivo di parte della giurisprudenza secondo la quale, una volta intervenuta la cessione del quinto e dei crediti futuri in generale, le rate maturate successivamente fuoriescono definitivamente dal patrimonio del debitore o comunque per almeno tre anni.

Il Capo III infine è dedicato al concordato preventivo, ovvero uno dei principali strumenti di gestione della crisi d’impresa oggetto, a partire dal 2005, di molti interventi di riforma che ne hanno profondamente mutato i caratteri essenziali, allo scopo di incentivare questa soluzione negoziale rispetto alla soluzione liquidatoria fallimentare, vissuta invece come una sconfitta, non solo per l’imprenditore, ma anche per l’economia e l’intero indotto. Proprio questo mutamento ha portato al riconoscimento normativo della continuità aziendale, quale primaria esigenza da perseguire nella predisposizione di uno strumento di gestione della crisi. La continuità aziendale costituisce dunque l’obiettivo principe del concordato anche nella stesura attuale delle norme: l’art. 84, infatti, ammette la natura liquidatoria del concordato solo quando vi sia un apporto di risorse esterne tale da aumentare in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori. Questa soluzione pare rispondere anche alle esigenze indicate dal legislatore europeo che ha tracciato la strada della semplificazione e della razionalizzazione dei percorsi di ristrutturazione delle imprese, per evitare, con ogni mezzo a disposizione, di disperderne il valore aziendale e i posti di lavoro e penalizzare l’economia e l’indotto. Al comma 1 sostituire la parola “stipulato”, con la parola “stipulati” , onde evitare di riferire il participio al solo contratto di affitto, menzionato per ultimo.

Il terzo comma introduce, come stabilito dalla legge delega (art. 6, comma 1, lett. i), n. 2) il criterio della prevalenza: si è tuttavia inteso limitare l’ammissibilità del concordato in continuità ai soli casi in cui i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale, diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino. Valuti il Governo l’opportunità di riprodurre testualmente l’indicazione della delega, che facendo riferimento alla sola ipotesi, disciplinata dal legislatore delegante, di concordato misto con continuità aziendale e nel contempo la liquidazione dei beni non funzionali all’esercizio dell’impresa, parrebbe escludere l’esistenza di spazi di operatività di ulteriori entrate diverse dai cespiti conseguenti a vendita di beni, ancorché reimmessi, in base al piano e proposta di concordato, nel ciclo produttivo, andando così a supportare la continuità aziendale.

Il riferimento alla presunzione di prevalenza quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione derivino dall’utilizzo nell’attività di impresa almeno della metà <<dei lavoratori in forza al momento del deposito del ricorso>>, avendo riguardo ad un preciso momento storico, rischia di prestarsi a comportamenti fraudolenti. D’altro canto, appare anche poco chiara la ratio della scelta diversa effettuata al comma 2, laddove nell’individuare gli indici della continuità aziendale indiretta, si ha riguardo al mantenimento o alla riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso per i successivi due anni. Si suggerisce di mutuare la medesima formulazione: <<..derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti un numero di lavoratori

pari ad almeno la metà della media di quelli in forza negli esercizi precedenti>>, ovvero di esplicitare in relazione le ragioni del mantenimento dell’opzione diversificata.

Il quarto comma dell’art. 84 disciplina il cosiddetto quid pluris esterno di risorse necessarie ai fini dell’ammissibilità del concordato liquidatorio. La norma in parte riproduce il limite percentuale letteralmente indicato nella delega (art. 6, comma 1, lett. a) , risorse esterne che assicurino in ogni caso il pagamento di almeno il 20 % dell’ammontare complessivo dei creditori chirografari) ; in parte ne vuole accentuare la consistenza, prevedendo che esso <<deve incrementare di almeno il 10 % il soddisfacimento dei creditori chirografari>>. La norma non appare di immediata intellegibilità, potendo essere alternativamente letta come mirante a imporre: 1) una soddisfazione minima del 30% per i chirografari; 2) un intervento a incremento del patrimonio destinato ai chirografari pari al 10% dell’ammontare del credito di questi ultimi; 3) un intervento a incremento del patrimonio destinato ai chirografari pari al 10% dell’ammontare del patrimonio stesso; 4) oppure ancora un incremento del 10% della sola frazione di patrimonio che sarebbe destinata ai creditori chirografari nel riparto di una liquidazione giudiziale. La stessa relazione illustrativa, facendo riferimento all’incremento della misura del soddisfacimento dei creditori chirografari non consente di individuare in maniera inequivocabile la volontà del legislatore, che andrebbe pertanto riformulata in conformità. Tenuto conto che i concordati in continuità (anche diretta) sono al massimo il 30% del totale, come riferito nell’ analisi di impatto della regolazione, gli apporti esterni storicamente ricorrono soprattutto nella continuità diretta. Come rilevato in sede di audizione davanti alla 2^ Commissione permanente (Giustizia) del Senato dei direttori dell’OCRI e dell’ELab <<Venendo poi alla dimensione del passivo, il debito chirografario nei concordati liquidatori è pari in media a € 8,4 milioni (mediana 3,1)6. Le risorse esterne necessarie secondo questa interpretazione ammonterebbero quindi in media a circa € 840.000 e comunque a più di € 300.000 nella metà dei casi, rischiando di essere troppo significative per divenire appetibili. E’ chiara la preferenza legislativa per la liquidazione giudiziale, ma se il nuovo istituto non funzionerà compiutamente, nel breve periodo si avrà una sorta di eterogenesi dei fini perché le statistiche dimostrano che ad oggi il concordato preventivo è comunque più efficiente del fallimento>>.

Si suggerisce, pertanto, di riformulare la norma rendendo più esplicito quale delle quattro interpretazioni sopra citate, o eventualmente altra non considerata da questa Commissione, sia effettivamente corrispondente alla volontà normativa del Governo.

L’art. 87, 1° c., lett. d) richiede che il piano indichi “le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili”. Non figura più il riferimento alle azioni revocatorie, espressamente contemplate nell’art. 172 della L.F., ancorché limitatamente a quelle esperibili nei confronti dei terzi. Ove ciò non risponda ad una precisa scelta del legislatore, della quale non si è rinvenuta traccia nelle relazioni a corredo del provvedimento, si suggerisce di reinserire la relativa previsione. All’art. 91, comma 5, per esigenze di mero drafting, si suggerisce di eliminare la ripetizione della specificazione “di pubblicità”, in quanto il riferimento alle forme della stessa è già implicito nell’incipit della norma e nel richiamo all’art. 490 c.p.c.

All’art. 92, comma 1, nell’ottica della lettura “circolare” del nuovo assetto normativo, valuti il Governo se inserire il richiamo alle norme sulla nomina del commissario giudiziale laddove se ne va a declinare la qualifica di pubblico ufficiale (<<Il Commissario giudiziale, nominato ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. b) ..>>.

Di particolare rilievo gli artt. 95 e 97, relativi, rispettivamente, alle “Disposizioni speciali nel concordato in continuità” e ai “Contratti pendenti”.

La specialità del contenuto della prima disposizione rispetto all’altra, evidenziata già nella rubrica dell’articolo, suggerirebbe di invertirne la collocazione: la disciplina generale dei contratti pendenti dovrebbe, cioè, precedere quella speciale, appunto, concernente i contratti pendenti – ovvero anche i nuovi contratti – che si caratterizzano per avere come controparte una pubblica amministrazione. Nella stessa ottica, si suggerisce anche una modifica della rubrica dell’articolo che ne richiami il contenuto per come sopra esplicitato e nella sua globalità, stante che l’attuale pretermette totalmente il riferimento al concordato liquidatorio, per contro menzionato espressamente nell’ultimo capoverso del comma 2. A mero scopo collaborativo si propone: <<Disposizioni speciali per i contratti con le pubbliche amministrazioni>>, dicitura che si attaglia anche alla previsione della possibilità di partecipare a procedure di affidamento (comma 3 e seguenti).

Nel merito, la norma ha l’innegabile pregio di ridisegnare in maniera chiara la materia, ponendo così rimedio alle potenziali criticità conseguenti all’attuale formulazione dell’art. 110 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, relativo alle << Procedure di affidamento in caso di fallimento dell’esecutore e misure straordinarie di gestione>>. E’ evidente pertanto che gli aggiustamenti che si vanno a proporre necessitano, per poter essere efficaci, di una contestuale modifica di suddetto art. 110, che si suggerisce di inserire con articolo o comma dedicato tra le norme transitorie e finali: (<<L’art. 110 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, è sostituito dal seguente:

Art. 110 Procedure di affidamento in caso di liquidazione dell'esecutore o di risoluzione del contratto e misure straordinarie di gestione

1. Fatto salvo quanto previsto ai commi 3 e seguenti, le stazioni appaltanti, in caso di liquidazione giudiziale, di liquidazione coatta e concordato preventivo o di risoluzione del contratto ai sensi dell'articolo 108 ovvero di recesso dal contratto ai sensi dell'articolo 88, comma 4-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, ovvero in caso di dichiarazione giudiziale di inefficacia del contratto, interpellano progressivamente i soggetti che hanno partecipato all'originaria procedura di gara, risultanti dalla relativa graduatoria, al fine di stipulare un nuovo contratto per l'affidamento dell'esecuzione o del completamento dei lavori, servizi o forniture.

2. L'affidamento avviene alle medesime condizioni già proposte dall'originario aggiudicatario in sede in offerta.

3. Il curatore della liquidazione, autorizzato all'esercizio provvisorio, con espressa autorizzazione del giudice delegato, può:

a) partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto;

b) eseguire i contratti già stipulati dall'impresa fallita.

4. All’impresa ammessa al concordato con continuità aziendale o al concordato liquidatorio si applica l’articolo 95 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Tale impresa non necessita di avvalimento di requisiti di altro soggetto. L'impresa che ha presentato domanda di concordato a norma degli articoli 39, comma 3 e 44, comma 1, del medesimo codice, può eseguire i contratti già stipulati, su autorizzazione del giudice delegato.

5. L'ANAC, sentito il giudice delegato, può subordinare la partecipazione, l'affidamento di subappalti e la stipulazione dei relativi contratti alla necessità che il curatore o l'impresa in concordato si avvalgano di un altro operatore in possesso dei requisiti di carattere generale, di capacità finanziaria, tecnica, economica, nonché di certificazione, richiesti per l'affidamento dell'appalto, che si impegni nei confronti dell'impresa concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la durata del contratto, le risorse necessarie all'esecuzione dell'appalto e a subentrare all'impresa ausiliata nel caso in cui questa nel corso della gara, ovvero dopo la stipulazione del contratto, non sia per qualsiasi ragione più in grado di dare regolare esecuzione all'appalto o alla concessione, nei seguenti casi:

a) se l'impresa non è in regola con i pagamenti delle retribuzioni dei dipendenti e dei versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali;

b) se l'impresa non è in possesso dei requisiti aggiuntivi che l'ANAC individua con apposite linee guida.

6. Restano ferme le disposizioni previste dall'articolo 32 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, in materia di misure straordinarie di gestione di imprese nell'ambito della prevenzione della corruzione.>>)

Si evidenzia, rimettendola comunque alla valutazione del Governo, l’avvenuto inserimento di una clausola di rinvio alle previsioni dei commi 3 e seguenti nell’incipit della norma, così da risolvere i problemi di coordinamento tra il ricorso all’interpello, di cui al comma 1, e la possibilità di indire una nuova procedura ovvero di consentire l’esecuzione dei contratti già stipulati di cui ai commi successivi, non relegando quest’ultima a soluzione del tutto residuale, connessa in via esclusiva al rifiuto dei concorrenti in graduatoria di provvedere alle medesime condizioni già proposte dall’originario aggiudicatario.

Relativamente infine alla formulazione dell’art. 95 si suggerisce, sempre a scopo collaborativo:

al comma 1 valutare l’opportunità di mantenere o meno la congiunzione “anche”, stante che, come già precisato, la norma pare riferirsi esclusivamente ai contratti con pubbliche amministrazioni; al comma 2 sostituire l’aggettivo “pubblici” con la dicitura “ con le pubbliche amministrazioni”, peraltro più correttamente utilizzata al comma precedente, ovvero con un semplice richiamo allo stesso; al secondo periodo, dopo la parola “trasferiti”, inserire “,purché in possesso dei requisiti per la partecipazione alla gara e per la esecuzione del contratto”.

Al fine di coordinare la disciplina contenuta nel codice con le disposizioni di cui all’art. 48 del d.lgs. n. 50/2016, si suggerisce di sostituire il comma 5 con il seguente: “Fermo quanto previsto dal comma 4, l’impresa in concordato può concorrere anche riunita in raggruppamento temporaneo di imprese. Si applica l’articolo 48 d. lgs. 18 aprile 2016 n. 50”.

Sempre a scopo meramente collaborativo, si segnala la necessità di cogliere l’occasione per chiarire l’esatta accezione dell’espressione utilizzata al comma 5, lett. b), dell’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016 laddove si fa riferimento ai casi in cui nei riguardi di un operatore economico <<sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni>>, individuandolo in uno dei momenti precisi di cui alla nuova disciplina degli istituti ivi richiamati ( per quanto qui di interesse, in relazione al solo concordato liquidatorio, in quanto per quello con continuità la norma contiene esplicito rinvio all’art. 110).

In relazione all’art. 109, valuti il Governo l’opportunità di indicare la sorte, ai fini del computo del quorum, della posizione dei creditori non votanti.

In relazione all’ammissibilità al voto del creditore proponente o della società da lui controllata, controllante o sottoposta a comune controllo, nell’ipotesi di avvenuto inserimento in apposita classe (comma 6), si suggerisce di chiarire meglio in Relazione illustrativa le ragioni della ritenuta compatibilità con l’obbligo di escludere dal voto e dal computo delle maggioranze i creditori in conflitto di interesse, cui fa generico riferimento l’ultima frase del comma 5e (cfr. sul punto Cass., SS.UU.,27 luglio 2018, n. 17816). Quanto detto anche allo scopo di fornire una lettura armonica di un sistema nel quale la situazione di conflitto viene risolta talora con l’esclusione dal voto, talaltra con la suddivisione in classi.

Infine, a solo scopo collaborativo, si suggerisce di adeguare la relazione tecnica all’attuale stesura dell’articolato, essendo riportata in maniera erronea la sistemazione delle norme e la loro ripartizione in Capi e Sezioni.


TITOLO V (art. da 121 a 283)

L’art. 121 definisce i presupposti soggettivi e oggettivi della procedura che –sia pure nominalmente- sostituisce il fallimento, ponendo l’accento sulla finalità liquidatoria del patrimonio del debitore insolvente.

Nell’individuare l’ambito di applicabilità soggettivo (“Le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano agli imprenditori che non dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui all’art. 2, comma 1, lettera d) […]”) la disposizione si preoccupa di escludere il titolare dell’impresa minore come definita nell’art. 2, comma 1, lettera d), ma il testo non si esprime chiaramente in merito all’esclusione dell’imprenditore agricolo.

Si osserva pertanto che sarebbe preferibile aggiungere, dopo “imprenditori”, la specificazione contenuta nell’attuale art. 1 della legge fallimentare (“che esercitano un’attività commerciale”) ovvero quanto meno l’aggettivo “commerciali”, non essendo in discussione l’esclusione dell’imprenditore agricolo dalla procedura di liquidazione giudiziale.

Art. 124 - In riferimento al comma 3, lett. d), relativamente al contenuto ricorso (“Il reclamo si propone con ricorso, che deve contenere: […] d) l’indicazione dei mezzi di prova dedotti e dei documenti prodotti”), si suggerisce di eliminare l’espressione “dedotti” ovvero di sostituirla con quella attualmente contenuta nell’art. 26, comma 4, della legge fallimentare “di cui il ricorrente intende avvalersi”.

Sarebbe stato, inoltre, opportuno, anche se non indispensabile, mantenere la previsione, presente nel corrispondente art. 26, comma 1, della legge fallimentare, secondo cui il procedimento si svolge in camera di consiglio.

In ordine all’art. 125 di osserva quanto segue: L’art. 2, comma 1, della legge 19 ottobre 2017, n. 155, prevede, quale principio generale, alla lettera o) “istituire presso il Ministero della giustizia un albo dei soggetti, costituiti anche in forma associata o societaria, destinati a svolgere, su incarico del tribunale, funzioni di gestione o di controllo nell'ambito delle procedure concorsuali, con indicazione dei requisiti di professionalità, indipendenza ed esperienza necessari per l'iscrizione”.

Alla delega è stata data attuazione con le disposizioni del Titolo X, capo II (Albo degli incaricati della gestione e del controllo nelle procedure), artt. 356-358.

L’articolo 125 in commento, al comma 1 e 2 (1. Il curatore è nominato con la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, osservato l’articolo 358. 2. Si applicano agli esperti nominati ai sensi dell’art. 49, comma 3, lett. b, le disposizioni del comma 1 […] in quanto compatibili.”), non risulta coordinato con la previsione della legge delega e con i citati articoli 356-358 dello schema di decreto legislativo.

Esso, infatti, corrisponde alla disposizione attualmente contenuta nell’articolo 27 (Nomina del curatore) della legge fallimentare, nonché a quella dell’art. 28 (Requisiti per la nomina a curatore), per il tramite del rinvio effettuato all’art. 358 (Requisiti per la nomina agli incarichi nelle procedure), il quale ultimo accomuna, nella previsione dei requisiti per la nomina, gli incarichi di curatore, commissario giudiziale e liquidatore.

Orbene, l’articolo 28, ultimo comma (aggiunto dall’art. 5, comma 1, lett. b) d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132) prevede che sia “istituito presso il Ministero della giustizia un registro nazionale nel quale confluiscono i provvedimenti di nomina dei curatori, dei commissari giudiziali e dei liquidatori giudiziali”, oltre che l’annotazione dei provvedimenti di chiusura del fallimento e di omologazione del concordato e dell’ammontare dell’attivo e del passivo delle procedure chiuse.

In disparte le vicende di tale Registro, non ancora istituito (a seguito della disposizione transitoria dell’art. 23, comma 4, del citato d.l. n. 83 del 2015, nonché dell’introduzione dell’art. 15 ter, intitolato “obblighi di pubblicazione concernenti gli amministratori e gli esperti nominati da organismi giurisdizionali o amministrativi”, del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, come modificato dal d.lgs. 25 maggio 2016 n. 97, c.d. “decreto trasparenza”), è evidente la differenza di contenuto e di funzioni tra lo stesso e l’albo previsto dalla legge delega n. 155 del 2017.

Per mera completezza, si segnala che L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), con delibera nr. 1310 del 28 dicembre 2016  «Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016», in merito ha precisato che, al fine di favorire la reperibilità dei dati, è opportuno che nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito istituzionale del Ministero della Giustizia sia creata una sotto-sezione, all’interno di “Consulenti e collaboratori” denominata “Amministratori ed esperti”, cui collegare tramite link le sezioni del sito istituzionale contenente i dati previsti dall’art. 15-ter/1° e 3°c. del “Decreto Trasparenza”.

Il primo è destinato alla mera “registrazione”, appunto, dei dati suddetti; si tratta di uno strumento di attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, regolati dal citato d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato dal d.lgs. n. 97 del 2016. In particolare, quanto ai curatori, il registro contiene, tra l’altro, il relativo provvedimento di nomina, una volta che sia stato adottato, senza che il tribunale che attualmente pronuncia la sentenza di fallimento sia vincolato ad altri criteri di scelta, se non quelli del vigente art. 28 della legge fallimentare.

L’art. 356 prevede invece un vero e proprio albo professionale di tutti i soggetti “destinati a svolgere, su incarico del tribunale, le funzioni di curatore, commissario giudiziale o liquidatore, nelle procedure previste nel codice della crisi e dell’insolvenza”, lasciando intendere che la scelta debba essere compiuta esclusivamente tra gli iscritti all’albo.

Risulta pertanto lacunoso il coordinamento tra l’art. 125 e l’art. 356 dello schema di decreto legislativo, atteso che il rinvio del primo soltanto all’art. 358 (evidentemente dovuto alla corrispondenza tra tale previsione e l’attuale art. 28 della legge fallimentare, dettato però nel diverso contesto ordinamentale di cui sopra), potrebbe indurre in equivoco circa l’obbligo del tribunale di nominare il curatore tenendo conto dell’iscrizione all’albo, una volta che questo sia stato istituito.

Si suggerisce pertanto di aggiungere nell’inciso finale del comma 1 dell’art. 125 il rinvio anche all’art. 356. La disposizione dovrebbe essere riformulata nei seguenti termini “Il curatore è nominato con la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, osservati gli articoli 356 e 358”.

Potrebbe altresì risultare opportuna una disposizione transitoria inserita nel titolo X, analoga a quella prevista nell’art. 352 (Disposizioni transitorie sul funzionamento dell’OCRI), che faccia salva l’osservanza del solo art. 358 “sino alla istituzione presso il Ministero della giustizia dell’albo di cui all’articolo 356”.

Inoltre, si osserva che il citato art. 15 ter, comma 3 (“Nel registro di cui all'articolo 28, quarto comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, vengono altresì annotati i provvedimenti di liquidazione degli acconti e del compenso finale in favore di ciascuno dei soggetti di cui al medesimo articolo 28, quelli di chiusura del fallimento e di omologazione del concordato e quelli che attestano l'esecuzione del concordato, nonché l'ammontare dell'attivo e del passivo delle procedure chiuse”) del d.lgs. n. 33 del 2013 e succ. mod. presuppone che il Registro nazionale dei curatori, commissari giudiziali e liquidatori venga comunque istituito presso il Ministero della giustizia. Non potendosi ritenere che tale registro sia stato sostituito dall’Albo di cui agli artt. 356 e seg., il testo dell’art. 15 ter, comma 3, cit. andrebbe coordinato con la mancata riproposizione dell’art. 28, comma 4, della legge fallimentare nello schema del decreto legislativo recante il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

All’art. 130, in riferimento al comma 1 (“Il curatore entro trenta giorni dalla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, presenta al giudice delegato un’informativa sugli accertamenti compiuti e sugli elementi informativi acquisiti relativi alle cause dell’insolvenza e alla responsabilità del debitore ovvero degli amministratori e degli organi di controllo della società”) sembra preferibile eliminare l’aggettivo “informativi”, apparendo sufficiente ad identificare l’oggetto della “informativa” l’indicazione degli “accertamenti compiuti” e degli “elementi … acquisiti”, a seguito di tali accertamenti, relativamente “alle cause dell’insolvenza […]”.

All’art. 131 si suggerisce di scindere il comma 3 in due distinte disposizioni, separate dal punto od eventualmente con comma aggiunto, in modo che risultino i seguenti periodi:

Il prelievo delle somme è eseguito su copia conforme del mandato di pagamento del giudice delegato.”;

Per le somme non ritirate, nel periodo di intestazione “Fondo unico giustizia” del conto corrente il prelievo delle somme è eseguito su disposizione di Equitalia Giustizia s.p.a., in conformità a quanto previsto dall’articolo 2 del decreto legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181”.

Siffatta distinzione evidenzierebbe il diverso regime tra il periodo di vigenza del conto corrente intestato alla procedura di liquidazione ed il periodo successivo alla chiusura della procedura ed al versamento sul “Fondo unico giustizia”.

Si suggerisce inoltre di collocare l’ultimo inciso del comma 4 (“La disposizione acquista efficacia a decorrere dal novantesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del provvedimento del responsabile dei servizi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, da adottarsi entro un anno dall’entrata in vigore del presente codice, attestante la piena funzionalità dei sistemi di trasmissione”) in apposita disposizione inserita nel Titolo X (“Disposizioni per l’attuazione del codice della crisi e dell’insolvenza, norme di coordinamento e disciplina transitoria”), apparendo preferibile la collocazione in unico titolo di tutte le norme regolanti l’entrata in vigore e la decorrenza dell’efficacia delle singole norme.

All’art. 139, il comma 3 della disposizione riguardante il compenso dei componenti del comitato dei creditori (“Il giudice delegato, su istanza del comitato dei creditori, acquisito il parere del curatore, può stabilire che ai componenti del comitato dei creditori sia attribuito, oltre al rimborso delle spese, un compenso per la loro attività, in misura non superiore al dieci per cento di quello liquidato al curatore”) risulta eccentrico rispetto al titolo dell’articolo ed al contenuto dei primi due comma.

Si suggerisce pertanto, alternativamente, di:

modificare il titolo dell’articolo inserendo dopo la parola “sostituzione”, l’espressione “e compenso”, così riferendo quest’ultimo ai “componenti del comitato dei creditori” ed individuando compiutamente il contenuto della disposizione;

oppure

sopprimere il comma 3 dell’art. 139 ed inserire un comma 8, di identico contenuto, nell’art. 138 (Nomina del comitato dei creditori), che riguarda in generale lo statuto del comitato dei creditori o dei suoi componenti.

Se effettuata mediante soppressione del comma 3 dell’art. 139, la modifica comporterà anche la correzione del richiamo contenuto nell’art. 140, comma 6 (“I componenti del comitato hanno diritto al rimborso delle spese, oltre all’eventuale compenso riconosciuto ai sensi e nelle forme di cui all’art. 139, comma 3”).

All’art. 145 si suggerisce di mantenere la lettera della parte iniziale del corrispondente art. 45 della legge fallimentare (“Le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi […]”), in luogo di quella inserita nella disposizione in commento (“Le formalità necessaria per rendere opponibili ai terzi gli atti […]”).

Sebbene nella Relazione al Ministro si dica della salvezza di specifiche disposizioni di legge, la norma in commento non contiene la previsione corrispondente (vale a dire quella per cui “Sono fatte salve specifiche disposizioni di legge”), che potrebbe risultare opportuna.

All’art. 166 si segnala il refuso al comma 3, lett. e), rigo terzo (va eliminata la congiunzione “e” tra le parole “posti in essere” e “dal debitore”).

Gli articoli da 172 a 192 si occupano di prefigurare e regolare gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti giuridici pendenti, ponendosi in gran parte in linea di continuità con la normativa vigente.

Importa, nondimeno, osservare che, nelle ipotesi in cui i rapporti giuridici incisi dalla vicenda liquidatoria intercorrano con una amministrazione, un ente o un soggetto aggiudicatore, la disciplina in esame va ad interferire con la normativa relativa ai contratti pubblici, di cui al d. lgs. n. 50/2016 (e, segnatamente, con gli artt. 48, 80 e 110, che si occupano di regolare, in varia guisa, gli effetti delle vicende liquidatorie attivate, nelle varie fasi della procedura evidenziale, a carico delle imprese partecipanti, aggiudicatarie o contraenti, anche riunite in raggruppamento temporaneo).

Di tanto, del resto, il legislatore delegato si mostra perfettamente consapevole, laddove – peraltro, con esclusivo e limitativo riferimento alla sorte dei contratti di appalto – ha avuto cura di scolpire la salvezza delle “norme speciali in materia di appalti pubblici” (cfr. art. 186, comma 2, secondo alinea, della normativa in esame).

Occorre, in realtà, osservare che l’ambito oggettivo dei contratti pubblici non risulta, come è noto, limitato al solo tipo dell’appalto: il Codice disciplina, con eminente attenzione all’oggetto, molteplici e multiformi fenomeni negoziali, in grado di prefigurare la costituzione di “rapporti pendenti”, suscettibili di essere, come tali, incisi da sopravvenute vicende liquidatorie a carico dell’aggiudicatario privato.

Si tratta, segnatamente e senza pretesa di esaustività (cfr., in termini generali, gli artt. 1, 3 e 4 d. lgs. cit.):

a) degli “appalti pubblici di lavori” (art. 3, comma 1 lett. ll), aventi ad oggetto l’esecuzione dei lavori relativi alle attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro e manutenzione di opere, nonché l’esecuzione (anche comprensiva della progettazione esecutiva) di opere;

b) degli “appalti pubblici di servizi” (art. 3, comma 1 lett. ss);

c) degli “appalti pubblici di forniture” (art. 3, comma 1 lett. tt), aventi ad oggetto “l’acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l’acquisto a riscatto, con o senza opzione per l’acquisto, di prodotti” (per quanto, come è noto, l’espressione “appalto di forniture” sia dottrinalmente e scientificamente scorretta, ma ormai invalsa nell’uso di derivazione europea anche a seguito di non precise traduzioni delle direttive);

d) delle “concessioni di lavori” (art. 3, comma 1 lett. uu) e “di servizi” (art. 3, comma 1 lett. vv);

e) dei “concorsi di progettazione” (art. 3, comma 1, lett. ddd);

f) dei “contratti di partenariato” (art. 3, comma 1, lett. eee);

g) delle “locazioni finanziarie di opere pubbliche o di pubblica utilità”, aventi ad oggetto la prestazione di servizi finanziari e l’esecuzione di opere (artt. 3, comma 1, lett. ggg) e 187);

h) dei “contrati di disponibilità”, aventi ad oggetto la costruzione e la messa a disposizione, a favore dell’amministrazione aggiudicatrice, di un’opera di proprietà privata destinata all’esercizio di un pubblico servizio; artt. 3, comma 1 lett. iii) e 188);

i) dei “contratti di partenariato sociale”, rientranti nella comprensiva categoria del “baratto amministrativo” (art. 190);

j) della “cessione di immobili in cambio di opere” (art. 191);

k) degli “accordi quadro” (art. 3, comma 1 lett. iii).

Il quadro sommariamente delineato conferma che l’articolato insieme dei rapporti rientranti nel novero dei contratti pubblici non è sussumibile, come si è detto, nell’assorbente modello tipologico dell’”appalto”: per l’effetto, sia il generico riferimento ai “rapporti pendenti” (art. 172), sia la disciplina, parimenti comprensiva, dei “contratti di carattere personale” (art, 176), della “locazione finanziaria” (art. 177), dei “contratti ad esecuzione continuata o periodica” (art. 179), del “contratto di locazione di immobili” (art. 185) appaiono senz’altrosuscettibili di interferire con la disciplina pubblicistica. Né può essere a priori escluso che anche gli altri articoli – per esempio quelli relativi a contratti ad effetti reali – abbiano a prefigurare, in varia guisa, la evidenziata sovrapposizione.

Appare, per tal via, opportuno suggerire l’integrazione dell’articolato del Codice in esame, preferibilmente prevedendo (quale alternativa ad un puntuale rimando, volta a volta, alla derogatoria disciplina pubblicistica) una apposita disposizione di rinvio generico e generale alla disciplina speciale dei contratti pubblici, non limitata al contratto di appalto.

Resta, altresì, ferma, sotto distinto e concorrente profilo, l’ulteriore necessità di adeguare, anche sotto il profilo terminologico, le previsioni del d. lgs. n. 50/2016 che si richiamano alle procedure concorsuali e liquidatorie oggetto di nuova regolamentazione. Di ciò si è già data ampia e puntuale motivazione nel commento agli articoli 95 e 97 ove è stata suggerita la riformulazione dell’art. 110 del codice dei contratti pubblici e dell’art. 95 del presente codice.

Nessuna osservazione merita di essere formulata relativamente alla disciplina di cui al Capo II, relativa alla “Custodia e amministrazione dei beni compresi nella liquidazione giudiziale” (artt. 193-199) e al Capo III, relativa all’”Accertamento del passivo e dei diritti dei terzi sui beni compresi nella liquidazione giudiziale” (artt. 200-210), trattandosi di disciplina in gran parte riproduttiva, con i necessari adeguamenti ed aggiornamenti, della previgente disciplina delle procedure concorsuali.

Le norme contenute nel capo IV “Esercizio dell’impresa e liquidazione dell’attivo”, articoli da 211 a 239, corrispondono a quelle del capo VI della legge fallimentare, con identica rubrica, contenente gli articoli da 104 a 123. Di esse, soltanto quattro articoli hanno subito modifiche, ovvero l’art. 211 “Esercizio dell’impresa del debitore”, corrispondente all’art. 104 “Esercizio provvisorio dell’impresa del fallito”, l’art. 213 “Programma di liquidazione”, corrispondente all’art. 104 ter, con identica rubrica, l’art. 216 “Modalità della liquidazione”, corrispondente all’art. 107 “Modalità delle vendite”, e l’art. 231 “Rendiconto del curatore”, corrispondente all’art. 116, con identica rubrica. Gli articoli restanti rappresentano invece la riscrittura sostanzialmente conforme degli articoli corrispondenti: si tratta per la precisione degli articoli 212, 214, 215, da 217 a 230 e da 232 a 239, corrispondenti agli articoli 104 bis, 105, 106, da 108 a 115 e da 117 a 120 della legge fallimentare. Le osservazioni seguenti, pertanto, si limitano agli articoli modificati.

Il contenuto dell’art. 211 “Esercizio dell’impresa del debitore” si differenzia dal corrispondente art. 104, in cui si parla di esercizio “provvisorio” dell’impresa del “fallito”, con la terminologia che la riforma si propone di eliminare, per la previsione di un comma 1, con l’affermazione per cui “L’apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa quando ricorrono le condizioni di cui ai commi 2 e 3”. In proposito si osserva quanto segue.

La modifica, secondo la relazione (pp. 108-109), ha lo scopo di “incentivare –sempre che ciò sia possibile senza arrecare pregiudizio alle aspettative di soddisfacimento dei creditori- la prosecuzione dell'attività di impresa nel corso della liquidazione giudiziale”, e in tal senso si può dire conforme al principio generale di cui all’art. 2 comma 1 lettera g) della legge delega, per cui deve essere data priorità alle “proposte che comportino il superamento della crisi assicurando” appunto “la continuità aziendale”. Ha però un valore innovativo molto limitato, perché, come nel regime attuale del corrispondente art. 104 commi 1 e 2 della l. fallimentare, la prosecuzione dell’attività è subordinata, al momento dell’apertura della liquidazione ad una autorizzazione del tribunale contenuta nella relativa sentenza, da rilasciare se “dall’interruzione può derivare un grave danno” (art. 211 comma 2), e successivamente, ad un decreto del giudice delegato su proposta del curatore e parere favorevole del comitato dei creditori (art. 211 comma 3).

L’art. 211 mantiene il silenzio dell’art. 104 sul noto problema della possibilità per l’impresa in esercizio provvisorio di concludere ex novo ovvero di proseguire contratti pubblici, disciplinati dal codice dei contratti di cui al vigente d. lgs. 18 aprile 2016 n.50, né la legge delega contiene alcuna disposizione in proposito. Come già osservato, in materia dispone attualmente l’art. 110 comma 3 del d. lgs. 50/2016, nel testo che, per comodità, si riporta nuovamente: “Il curatore del fallimento, autorizzato all'esercizio provvisorio, ovvero l'impresa ammessa al concordato con continuità aziendale, su autorizzazione del giudice delegato possono: a) partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto; b) eseguire i contratti già stipulati dall'impresa fallita o ammessa al concordato con continuità aziendale”.

In proposito, la dottrina ha ritenuto non praticabile che il curatore autorizzato all’esercizio provvisorio possa essere ulteriormente autorizzato a partecipare ad una procedura ad evidenza pubblica, per il carattere sostanzialmente conservativo e liquidatorio dell’esercizio provvisorio stesso, volto a conservare il valore aziendale in vista della liquidazione e non ad assumere nuovi rischi, nonché per la precarietà dello stesso, che può cessare in ogni momento. Più praticabile invece è stata considerata la prosecuzione di contratti già in corso, considerato da un lato che si tratta di svolgere una più semplice valutazione di convenienza economica, e dall’altro lato che un’interruzione potrebbe arrecare un danno.

Identiche considerazioni si possono svolgere in termini di principio per l’esercizio dell’impresa in liquidazione, anche se per esso è scomparsa la qualifica di “provvisorio”; si segnala peraltro che la problematica, con riguardo limitato al concordato in continuità, è affrontata dall’art. 95 della bozza, e pertanto si rimanda alle osservazioni relative. Ci si limita in questa sede a suggerire l’aggiunta all’articolo in esame di un comma 9, per cui esso “non si applica ai contratti disciplinati dal codice dei contratti pubblici”, rinviando quindi alla disciplina speciale per essi stabilita.

L’art. 213 contiene la disciplina del “Programma di liquidazione”, che è più analitica rispetto a quella del vigente art. 104 ter della l. fallimentare, in coerenza con il criterio di cui all’art. 7 comma 2 lettera c) della legge delega, che vincola a specificare “il contenuto minimo” del programma stesso.

La maggior specificazione appare opportuna, in quanto rafforza la sanzione per il mancato rispetto del programma, che è la revoca del curatore della procedura, essendo evidente che valutare un mancato rispetto è tanto più facile quanto più preciso è il programma stesso. E’ comunque ovvio, e lo si precisa solo per chiarezza, che in procedure di valore economico e di complessità modeste potrebbero non esservi i presupposti per comprendere nel programma tutte le categorie di atti che l’art. 216 menziona. Opportuna appare anche la presunzione relativa di non utilità della attività di vendita dei beni per cui per sei volte il relativo esperimento sia stato infruttuoso.

La norma innova rispetto all’art. 104 ter anche nella parte in cui, nel quadro di un rafforzamento dei poteri dell’organo, prevede che il Giudice delegato autorizzi non più genericamente “gli atti conformi” al programma, ma “i singoli atti liquidatori” sempre in quanto ad esso conformi. Per mantenere la possibilità di uno svolgimento più celere e snello di procedure di modesta complessità, che nella pratica sono notoriamente la maggioranza, si suggerisce tuttavia di consentire espressamente al Giudice delegato di autorizzare gli atti “anche per categorie o tipologie”.

L’art. 216 prevede le “Modalità della liquidazione”, con formula più ampia di quella dell’art. 107 l. fallimentare, riferito alle sole “vendite”, e si caratterizza fondamentalmente, come risulta anche dalla Relazione (pp. 111-112) per due regole coordinate: la liquidazione avviene necessariamente “con modalità telematiche mediante il portale delle vendite pubbliche” (comma 4), ed ha luogo ordinariamente “tramite ,procedure competitive” (comma 2), salvo che il Giudice delegato disponga che essa avvenga nelle forme dell’esecuzione forzata disciplinata dal codice di procedura civile (comma 3).

In tal senso, l’articolo è conforme ai principi di cui all’art. 7 comma 9 lettere a) e b) della legge delega, per cui “L'obiettivo della massima trasparenza ed efficienza delle operazioni di liquidazione dell'attivo della procedura è perseguito: a) introducendo sistemi informativi e di vigilanza della gestione liquidatoria, caratterizzati da trasparenza, pubblicità e obblighi di rendicontazione; b) garantendo la competitività delle operazioni di liquidazione nell'ambito del mercato unitario telematico nazionale delle vendite…”.

La Commissione osserva però che il testo proposto non contiene una norma analoga a quella dell’art. 569 comma 4 del codice di procedura civile, che consente di non disporre la vendita con modalità telematiche nel caso in cui essa “sia pregiudizievole per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura”. Si tratta di scelta che si ritiene inopportuna, sia per ragioni pratiche di duttilità della procedura, sia per ragioni di principio, già evidenziate in dottrina. Infatti la disciplina della vendita telematica di cui al codice di procedura civile è contenuta anzitutto in una fonte subprimaria, il regolamento D.M. Giustizia 26 febbraio 2015 n.32, e non tiene conto delle peculiarità della vendita fallimentare, alla quale potrebbe risultare in pratica non applicabile. Sarebbe quindi necessario un coordinamento sul punto.

Da ultimo, l’art. 231, dedicato al “Rendiconto del curatore”, aggiunge ai contenuti di tale documento già previsti dal corrispondente art. 116 della l. fallimentare, ovvero alla “esposizione analitica delle operazioni contabili e dell’attività di gestione della procedura”, anche quella delle “modalità con cui ha attuato il programma di liquidazione e il relativo esito”. Ciò risulta conforme al principio di cui all’art. 7 comma 9 lettera c) della legge delega, nella parte in cui prevede che all’insolvente sia assicurata “l'informazione sull'andamento della procedura”, che secondo logica comprende l’informazione su quali beni siano stati liquidati e a quali condizioni. Si tratta di norma senz’altro opportuna, nel senso di responsabilizzare il curatore.

L’art. 240 riproduce l’istituto già contemplato dal vigente art. 124 l. fall., introducendo la non irrilevante novità che subordina l’ammissibilità dello strumento del concordato ad un apporto di risorse che incrementino il valore dell’attivo di almeno il 10%.

Si evidenzia che, al secondo comma, si prevede la possibilità di: a) suddividere i creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei; b) trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse, indicando le ragioni dei trattamenti differenziati dei medesimi. Al terzo comma si prevede, invece, che se la società ha emesso strumenti finanziari, i portatori di tali strumenti sono costituiti in classi.

Al riguardo, si segnala come non sia riprodotta, né richiamata, la disposizione dettata, sempre in tema di suddivisione in classi dei creditori, in tema di concordato preventivo all’art. 85, comma 5, in base alla quale: “la formazione delle classi è obbligatoria per i creditori titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l’integrale pagamento, per i creditori titolari di garanzie prestate da terzi, per i creditori che vengono soddisfatti anche in parte con utilità diverse dal denaro e per i creditori proponenti il concordato e per le parti ad essi correlate”.

Dal punto di vista formale, non appare inoltre miglior soluzione la collocazione dell’ultimo periodo del comma 4; che si riferisce alla peculiare ipotesi in cui il piano non preveda l’integrale soddisfazione dei creditori privilegiati. Nel periodo in questione si prevede che: “il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”; trattandosi di una regola generale relativa alla suddivisione in classi dei creditori, si suggerisce la sua collocazione tra le lettere a) e b), ovvero in un autonomo comma da inserire nell’articolo.


L’art 245 disciplina il giudizio di omologa analogamente al vigente art. 129 l. fall.

Si segnala che il comma 5, secondo periodo, potrebbe essere riformulato al fine di renderlo in sintonia con l’analoga disposizione dettata dall’art. 112 in riferimento al concordato preventivo, dove la possibilità di contestare la convenienza della proposta è esplicitamente attribuita al “creditore dissenziente appartenente a una classe dissenziente ovvero, nell’ipotesi di mancata formazione delle classi, ai creditori dissenzienti che rappresentano il venti per cento dei crediti ammessi al voto”.

Anche il riferimento al confronto con le “alternative praticabili”, per una maggior uniformità, potrebbe essere sostituito con l’espressione “rispetto alla liquidazione giudiziale”.

L’art. 248 nel regolare gli effetti del concordato, riproduce l’attuale art. 135 l. fall.

Si rimette alla valutazione del Ministero l’opportunità di inserire una disposizione analoga a quella prevista nell’art. 117, dettato per il concordato preventivo, in base alla quale: “Salvo patto contrario, il concordato della società ha efficacia nei confronti dei soci illimitatamente responsabili”

L’art. 250 ricalca l’art. 137 l. fall. vigente. Si segnala come, in riferimento alla risoluzione del concordato preventivo, sia la normativa vigente, sia l’art. 119 dell’articolato, facciano riferimento all’istituto generale dell’inadempimento, precisando, in sintonia con i principi generali del codice civile, che “il concordato non si può risolvere se l’inadempimento ha scarsa importanza”.

Si rimette al Ministero la valutazione circa l’opportunità di uniformare, anche dal punto di vista lessicale, il primo comma dell’articolo in commento (“se le garanzie promesse non vengono costituite o se il proponente non adempie regolarmente gli obblighi derivanti dal concordato, ciascun creditore può chiederne la risoluzione”) alla corrispondente disposizione dettata per il concordato preventivo.

Si segnala, inoltre, che l’articolo in commento, riproducendo la norma attualmente in vigore, circoscrive la legittimazione a chiedere la risoluzione ai creditori; mentre, in conformità con il criterio m) dell’art. 6 della legge delega (m) riordinare la disciplina della revoca, dell'annullamento e della risoluzione del concordato preventivo, prevedendo la legittimazione del commissario giudiziale a richiedere, su istanza di un creditore, la risoluzione del concordato per inadempimento;), in tema di concordato preventivo tale legittimazione deve essere estesa anche al Commissario.

L’art. 278 disciplina l’oggetto e l’ambito di applicazione dell’esdebitazione, istituto attualmente regolato dall’art. 142 l. fall., in riferimento al soggetto dichiarato fallito, e dalla l. 3/2012 in riferimento al sovraindebitamento del consumatore.

Uno dei tratti fondamentali che connota la riforma dell’esdebitazione è costituito dal superamento del limite che riservava l’istituto alle sole persone fisiche (v. art. 142 l. fall. e art. 14-terdecies l. 3/2012).

Il principio della legge delega, stabilito dall’art. 8, lett. c), l. 155/2017, è chiaro nell’indicare al legislatore delegato di “prevedere anche per le società l’ammissione al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, previo riscontro dei presupposti di meritevolezza in capo agli amministratori e, nel caso di società di persone in capo ai soci.” e ciò anche “all’esito della procedura di liquidazione”.

In coerenza con la legge delega, l’articolo in commento, che come detto regola in generale l’oggetto e l’ambito dell’esdebitazione, indipendentemente dal fatto che ad avvalersene sia il soggetto sottoposto a liquidazione giudiziale ovvero un altro soggetto, ne prevede la generale applicabilità a “tutti i debitori di cui all’art.1 , comma 1” e cioè al debitore, “sia esso, consumatore o professionista, ovvero imprenditore che eserciti, anche non a fini di lucro, un’attività commerciale, industriale, artigiana o agricola, operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo, gruppo di imprese o società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti pubblici”.

Al riguardo, si evidenzia il seguente aspetto che potrebbe suggerire un maggior coordinamento, incentivato dalla stessa legge di delega (art. 1, comma 2), con la disciplina vigente, non modificata dall’articolato in esame.

Nel caso di chiusura del fallimento per integrale ripartizione o per insussistenza dell’attivo, l’attuale art. 118 l. fall. dispone che il curatore provveda alla cancellazione della società dal registro delle imprese che, come noto comporta l’estinzione dell’ente (artt. 2312 e 2495 c.c.).

Anche l’art. 233 dell’articolato in commento prevede che: “nei casi di chiusura di cui al comma l, lettere c) e d), ove si tratti di procedura di liquidazione giudiziale di società e fatto salvo quanto previsto dall’articolo 234, comma 6, secondo periodo, il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese”.

Alla luce delle considerazioni che precedono si rimette al Ministero la valutazione circa l’opportunità di una maggior coordinamento tra l’applicazione dell’esdebitazione all’esito della procedura liquidatoria agli enti collettivi assoggettati ad una procedura di liquidazione giudiziale con le disposizioni che prevedono la cancellazione della società (cui segue l’estinzione) a seguito del decreto di chiusura della procedura.

In riferimento all’art. 279 valgono le considerazioni che precedono, specie ove si prevede una generalizzata possibilità di conseguire l’esdebitazione al momento della chiusura della procedura (“il debitore ha diritto a conseguire l’esdebitazione decorsi tre anni dall’apertura della procedura di liquidazione o al momento della chiusura della procedura, se antecedente”), che per le società, come già evidenziato, nei casi di cui alle lettere c) e d) dell’art. 233, comporta la cancellazione dal registro delle imprese.

All’art. 281, nell’ultima parte del quarto comma, dove si legge: “i quali possono proporre reclamo a norma dell’articolo 124”, si suggerisce l’inserimento della precisazione: “il termine per proporre reclamo è di trenta giorni”, in coerenza con l’analoga disposizione di cui all’art. 282, comma 3.


TITOLO VI e VII (artt. da 284 a 316)

All’art 284, comma 1, si suggerisce di sostituire l’espressione “con un unico piano” con quella di “con un piano unitario”, sia perché maggiormente rispondente alla funzione, appunto unitaria, del piano, sia perché l’istituto è così nominato al successivo comma 4 del medesimo articolo in commento; al comma 2, si suggerisce di inserire la preposizione “degli” dopo la parola “omologazione” e prima della parola “accordi”.

Al comma 3, si suggerisce di aggiungere, dopo la parola “passive”, la virgola al posto del punto e di seguito la seguente espressione: “salvo quanto previsto dal successivo art. 285, comma 1”. La ratio dell’inciso è quella di richiamare l’attenzione dei creditori in ordine all’eventualità che i piani di gruppo possano prevedere operazioni contrattuali e organizzative, ivi inclusi i trasferimenti di risorse infragruppo, necessarie per la continuità aziendale di talune soltanto delle imprese.

Al comma 4, si suggerisce di inserire la parola “reciprocamente” dopo la parola “piani” e prima della parola “collegati”, per ragioni di uniformità di definizione rispetto al comma 1 del medesimo articolo; sempre al comma 4, si consiglia inoltre di eliminare il punto dopo la parola “impresa”, aggiungere la virgola e proseguire con la seguente espressione: “nel rispetto di quanto previsto dal comma 3 del successivo art. 285, nonché gli eventuali vantaggi compensativi derivanti alle singole società di cui al comma 4 del medesimo art. 285.”. La ratio iuris è quella di richiamare l’attenzione dei creditori e dei soci, già all’atto della proposizione della domanda, in ordine ai vantaggi e ai limiti della liquidazione.

Al comma 5, si suggerisce per esigenze di uniformità di continuare a parlare di piano e di piani, anziché soltanto di piano al singolare. Pertanto, l’incipit del comma potrebbe essere così riformulato: “5. Il piano unitario o i piani reciprocamente collegati e interferenti di gruppo, rivolti ai rispettivi creditori, aventi il contenuto indicato nell'articolo 56, comma 2, devono essere idonei a …”;

si consiglia inoltre di aggiungere dopo la parola “ognuna”, la seguente espressione: ““salvo quanto previsto dal successivo art. 285, comma 1”; nonché di continuare a fare riferimento, in senso plurale, anche ai piani reciprocamente collegati e interferenti di gruppo, oltre che a quello unitario, al momento dell’attestazione da parte del professionista.

Sempre al comma 5, dell’art. 284, dopo la parola “imprese” si suggerisce di aggiungere la seguente espressione: “o nei registri delle imprese in cui è stata effettuata la pubblicità ai sensi dell'articolo 2497-bis del codice civile”.

All’art. 285 sii consiglia di cambiare la rubrica dell’articolo nel modo seguente: “Contenuto del piano unitario o dei piani di gruppo e azioni a tutela dei creditori e dei soci.”; al comma 1, dopo la parola “inclusi” e prima della parola “trasferimenti” manca l’articolo “i”; sempre al comma 1, dopo la parola “gruppo”, si suggerisce di aggiungere la virgola e inserire la seguente espressione: “secondo quanto previsto dal successivo comma 3.”;

Dopo il comma 4, si suggerisce inoltre di creare un comma 5 per inserirvi l’ultimo capoverso del comma 4: “Il tribunale omologa il concordato se esclude la sussistenza di un pregiudizio in considerazione dei vantaggi compensativi derivanti alle singole società dal piano di gruppo”. In questo modo si avrebbe simmetria espositiva rispetto ai precedenti commi 2 e 3, dove le contestazioni e l’omologazione sono disciplinate in modo separato per i creditori, quindi sembrerebbe opportuno che così fosse anche per i soci.

All’art. 286 al comma 4, è opportuno indicare per esteso l’Autorità cui ci si riferisce, e dunque la “Commissione nazionale per le società e la borsa-CONSOB” in luogo del solo acronimo.

All’art. 287, al comma 1, ultimo capoverso: dopo la parola “produttiva”, si suggerisce di aggiungere la seguente espressione: “dei vincoli partecipativi e contrattuali,”.

All’art. 289, al comma 1, dopo la parola “gruppo” e prima della congiunzione “e” sarebbe meglio aggiungere la seguente espressione: “sui vincoli partecipativi o contrattuali esistenti, sui collegamenti di natura economica o produttiva, sulla composizione dei patrimoni e sugli amministratori,”; sempre al comma 1, è opportuno indicare per esteso la CONSOB: “Commissione nazionale per le società e la borsa-CONSOB”.

All’art. 290, ai commi 2 e 3, la parola “società” andrebbe sostituita con quella di “impresa” o di “imprese”.

All’art. 292, al comma 1 è opportuno sostituire la disgiunzione “o” con la congiunzione “e” in relazione all’espressione “attività di direzione o coordinamento”, maggiormente rispondente al dettato codicistico.


TITOLI VIII e IX (artt. da 317 a 347)

All’art. da 317 a 347 - Gli articoli 317 e seguenti recano disposizioni in tema di rapporti tra procedimenti penali e procedure concorsuali, sotto il profilo dell’incidenza di misure cautelari reali e dunque dei sequestri penali su beni, in ipotesi destinati a soddisfare gli interessi creditori nell’ambito della procedura di liquidazione giudiziale.

Sul tema è necessario ricordare i contenuti della legge delega. Ad occuparsene è l’art. 13, il quale dispone nei suoi due commi che: “1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, il Governo adotta disposizioni di coordinamento con il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, stabilendo condizioni e criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari adottate in sede penale, anteriormente o successivamente alla dichiarazione di insolvenza. 2. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, il Governo adotta disposizioni di coordinamento con la disciplina di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e in particolare con le misure cautelari previste dalla disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, nel rispetto del principio di prevalenza del regime concorsuale, salvo che ricorrano ragioni di preminente tutela di interessi di carattere penale”.

Il Governo nella sua relazione ha chiarito, quanto al primo comma, di avere inteso la delega nel senso di dover fornire una disciplina del rapporto fra misure cautelari penali in senso proprio (id est sequestri preventivi e conservativi) e procedure concorsuali secondo il sistema delineato dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159, stabilendo condizioni e criteri di prevalenza non dissimili da quelle dettate dal citato decreto legislativo per i sequestri di prevenzione, sul presupposto che i sequestri penali e di prevenzione abbiano una funzione comune, ossia quella di assicurare nell’ambito dei procedimenti in cui si inseriscono, l’ablazione finale del bene e dunque la sua confisca.

Ritiene la Commissione che siffatte considerazioni siano del tutto condivisibili, sia sul piano esegetico, poiché il primo comma dell’art. 13 cit. non può che riferirsi alle misure cautelari “penali” in senso tecnico (e non già a quelle di prevenzione, le sole ad essere già oggetto di analitica disciplina in tema di rapporti con le procedure concorsuali); sia sul piano attuativo, poiché i sequestri penali, se e in quanto aventi la stessa funzione di quelli di prevenzione non possono che condividerne la disciplina sul versante dei rapporti con le procedure concorsuali. Correttamente, inoltre, il Governo ha ritenuto che ciò dovesse valere solo per i sequestri di cui all’art. 321 comma 2 del codice di procedura penale, ossia per i sequestri delle cose di cui è consentita la confisca ai sensi dell’art.240 c.p. e non anche per i sequestri cd impeditivi di cui al comma 1 dell’art. 321, tesi a sottrarre solo provvisoriamente la disponibilità di una cosa quando essa, siccome pertinente al reato “possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri”.

Del resto questa è la traccia già delineata dalla legge 17 ottobre 2017, n. 161, immediatamente successiva alla delega in esame, il cui art. 31, comma 1, lett. e), ha stabilito che ai sequestri penali funzionali alla confisca per sproporzione o allargata (art.12-sexies del decreto legge n.306 del 1992), così come ai sequestri a scopo di confisca assunti nell’ambito di procedimenti penali per delitti gravi (quelli menzionati dall’art.51 comma 3-bis c.p.p.) si applicano le disposizioni del decreto legislativo n.159/2011, non solo relativamente alla amministrazione e gestione dei beni, ma anche con riguardo alla loro destinazione finale e soprattutto, per quanto qui interessa, alla tutela dei terzi (con il decreto legislativo n.21 del 2018 siffatte disposizioni hanno poi trovato collocazione nell’articolo 104-bis delle norme di attuazione e coordinamento del codice di procedura penale, e nell’articolo 240-bis del codice penale).

Dunque, corretta è l’impostazione, così come funzionale allo scopo è la formulazione dell’art. 317 dello schema di decreto sottoposto al parere, il quale ha previsto che: «1. Le condizioni e i criteri di prevalenza rispetto alla gestione concorsuale delle misure cautelari reali sulle cose indicate dall’articolo 142 sono regolate dalle disposizioni titolo IV del decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159, salvo quanto previsto dagli articoli 318, 319, 320. 2. Per misure cautelari reali di cui al comma 1 si intendono i sequestri delle cose di cui è consentita la confisca disposti ai sensi dell’articolo 321, comma 2, del codice di procedura penale, la cui attuazione è disciplinata dall’articolo 104-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale». Contestualmente si è provveduto a modificare l’art. 104 bis delle norme di attuazione e coordinamento del codice di procedura penale, in quella sede inserendo il riferimento all’art. 321 comma 2 e chiarendo in particolare che “quando il sequestro è disposto ai sensi dell'articolo 321, comma 2, del codice ai fini della tutela dei terzi e nei rapporti con la procedura di liquidazione giudiziaria si applicano, altresì, le disposizioni di cui al titolo IV del citato decreto legislativo”.

L’effetto del combinato disposto è l’applicazione generalizzata del principio di prevalenza del sequestro sulla procedura concorsuale, alle “condizioni” e con i “criteri” già previsti per i sequestri nel processo di prevenzione in forza dei quali “quando viene dichiarato il fallimento, i beni assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva fallimentare” (art. 63 decreto legislativo n.159/2011), ovvero, “ove sui beni compresi nel fallimento …. sia disposto sequestro, il giudice delegato al fallimento, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, dispone con decreto non reclamabile la separazione di tali beni dalla massa attiva del fallimento e la loro consegna all'amministratore giudiziario” (art. 64 d.lgs. cit.).

Gli artt.318 e 319 dello schema riguardano invece i sequestri “cautelari” di cui al primo comma dell’art. 321 cpp, nonché quelli conservativi di cui al 316 cpp, per i quali, il Governo, coerentemente con l’assunto di fondo secondo il quale, a differenza che nel sequestro finalizzato alla confisca non emergono specifiche ragioni per ritenere la prevalenza del procedimento penale, fissa il condivisibile principio per il quale “in pendenza della procedura di liquidazione giudiziale non può essere disposto sequestro preventivo o conservativo”.

A corollario di tale compiuta disciplina, nell’art. 320 dello schema si riconosce la legittimazione del curatore ad impugnare l’eventuale decreto di sequestro disposto in difetto delle condizioni previste dalla legge, nonché a proporre eventuale ricorso per cassazione. Norma, quest’ultima, che risolve definitivamente una questione lungamente dibattuta in giurisprudenza e dottrina.

Chiuso il tema generale delle misure cautelari reali di carattere penale, rimane da approfondire quello relativo alle misure cautelari previste dalla disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in relazione al quale il comma 2 dell’art. 13 della legge delega fissa quale principio direttivo quelle del “rispetto del principio di prevalenza del regime concorsuale, salvo che ricorrano ragioni di preminente tutela di interessi di carattere penale”, ictu oculi antitetico rispetto a quello dettato per le misure cautelari reali legate alla responsabilità penale delle persone fisiche, come visto basato sulla prevalenza del sequestro sulla procedura concorsuale.

Sul punto il Governo, nella sua relazione, dichiara di non aver deliberatamente dato attuazione alla norma di delega di cui al comma 2 dell’art.13 della legge n.155/2017, e di aver lasciato inalterato l’attuale assetto normativo in forza del quale le disposizioni in materia di sequestro ai fini della confisca previste dal codice di procedura penale si applicherebbero “in quanto compatibili” in forza del rinvio contenuto nell’art. 53 del d.lgs. n.231 del 2001. L’intervento sul codice di procedura penale, operato dagli artt. 317 e 372 dello schema di decreto si salderebbe al rinvio dell’art. 53 così da garantire uno statuto uniforme, qualsiasi sia il soggetto attinto dal sequestro, persona fisica o giuridica.

L’opzione contraria – secondo quanto argomentato nella relazione - avrebbe infatti dato luogo a un’irragionevole diversità di disciplina a fronte di esigenze di prevenzione e repressive identiche, imponendo peraltro la necessità di ritagliare un ambito “di preminente tutela di interessi di carattere penale” diverso da quello già regolato.

La Commissione ritiene che la descritta opzione presenti margini di problematicità in rapporto al chiaro disposto della legge delega.

In quest’ultima infatti si fa un netto e inequivoco riferimento al principio di prevalenza della procedura concorsuale, che dovrebbe tradursi in una regola simile quella dettata dagli artt. 318 e 319 per i sequestri cautelari e conservativi, secondo la quale, in sintesi, in pendenza della procedura di liquidazione giudiziale non dovrebbe potersi disporre sequestro.

L’aver affermato o perpetuato, nella specie, un principio opposto potrebbe rischiare di essere considerato come una violazione delle legge delega più che una mancata attuazione.

E’ pur vero che la ratio che presiede al diverso tenore del comma 2 dell’art. 13 della legge delega, rispetto a quanto previsto nel comma 1 non è del tutto perspicua. Essa potrebbe a ben vedere risiedere nel fatto che la confisca prevista dall’art. 19 del d.lgs. n.231 del 2001 (cui il sequestro previsto dall’art. 53 cit. è strumentale) sia una vera e propria sanzione principale, obbligatoria ed autonoma (sul punto si veda SSUU 11170/2015) frutto della specialità di un sistema punitivo che supera il principio societas deliquere et puniri non potest, per la quale rileva, giusto quanto affermato dalle SSUU cit., l’art.27 del d.lgs 231/2001. Ai sensi di tale ultima disposizione “I crediti dello Stato derivanti degli illeciti amministrativi dell'ente relativi a reati hanno privilegio secondo le disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti da reato. A tale fine, la sanzione pecuniaria si intende equiparata alla pena pecuniaria”. Dunque “privilegio” e non prevalenza con stralcio dalla massa attiva come invece previsto per la confisca di cui all’art.321 comma 2 cpp.

Ad ogni modo, la legge delega fa espresso riferimento alla “prevalenza della procedura concorsuale”, e in funzione derogatoria rispetto al principio di prevalenza della procedura concorsuale, alle “ragioni di preminente tutela di interessi di carattere penale”. E’ quindi opportuno che su queste specifiche ragioni e sull’oggetto e funzione della confisca nei confronti degli enti, sia approfondita la riflessione per non indurre perplessità circa il rispetto della legge delega. Aver fatto coincidere le “ragioni di preminente tutela di interessi di carattere penale”, id est i motivi della deroga al principio base, con quelle che presiedono all’applicazione dell’opposto principio in materia di sequestri legati alla responsabilità delle persone fisiche, è operazione che rischia di confondere i piani e dare consistenza ai già profilati dubbi di costituzionalità.


TITOLO X (artt. da 348 a 390)

L’art. 351 individua i parametri per la fissazione degli importi spettanti all’OCRI e la suddivisione di essi tra ufficio del referente e componenti del collegio degli esperti, distinguendo in relazione al grado di avanzamento raggiunto della procedura (mancata comparizione del debitore; sola audizione del debitore; svolgimento della composizione assistita). Per la terza ipotesi vengono richiamati i compensi ed i rimborsi previsti dagli artt. 14, 15 e 16 del d.m. 202/2014 (in tema di organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento, attuativo dell’art. 15 della legge 3/2012) “in quanto compatibili”.

Appare opportuno, stante il carattere di principio della disposizione, analogicamente valido anche per l’OCRI, che venga richiamato anche l’art. 17, comma 1, del suddetto d.m., che dispone l’unicità del compenso in caso di successione nell’incarico di più organismi.

L’art. 353 prevede l’istituzione di un osservatorio permanente sull’efficienza delle misure di allerta delle procedure di composizione assistita della crisi d’impresa. La formulazione ottativa (“può istituire”) va evitata, e sostituita con “istituisce”, non soltanto per esigenze di tecnica redazionale degli atti normativi. Giova ricordare al proposito che l’uso dei verbi servili è escluso nella redazione di atti normativi dalla circolare della Presidenza del Consiglio del 2 maggio 2001, n. 1/1.1.26/10888/9.92. — Guida alla redazione dei testi normativi. In particolare si sottolinea in detta circolare (par. 1.8, pag. 13) la insidiosità del verbo “potere” che è inutile e dannoso perché foriero di incertezza, quando la scelta legislativa sia quella di imporre comunque un obbligo (nel qual caso è sempre utilizzato l’indicativo presente in luogo dei verbi “dovere” e “potere”), mentre se utilizzato assume il significato preciso di costituire una facoltà e non un obbligo. Non pare che, nel caso, la soluzione da adottare sia quella della facoltatività della istituzione, anche in considerazione dell’importanza che l’organo assume nel codice, visto che gli artt. 354 e 355 danno per scontato che l’osservatorio esista e fornisca le indicazioni necessarie (rispettivamente, all’adeguamento dei parametri di cui all’art. 15, ed all’elaborazione della relazione al Parlamento), e che non vi sono previsioni per reperire altrimenti tutti i dati necessari.

Nell’art. 354, l’utilizzo del termine “adeguamento” lascia supporre si tratti di un aggiornamento dei valori che rendono l’esposizione debitoria “di importo rilevante”, ai fini dell’obbligo di segnalazione gravante sui creditori pubblici qualificati (Agenzia delle entrate, INPS ed agente della riscossione) disciplinato dall’art. 15. Tuttavia, la disposizione prevede un regolamento di delegificazione, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 400/1988, e la stessa formulazione della disposizione in esame precisa che l’adeguamento possa avvenire “con riferimento sia alla tipologia dei debiti che all’entità degli stessi, nonché dei presupposti della tempestività dell’iniziativa” del debitore (dalla quale conseguono per lui misure premiali, ai sensi degli artt. 24 e 25).

Al posto di “adeguamento” appare quindi più corretto l’uso di “revisione” o “modifica”, poiché ciò che viene consentito dalla norma è una disciplina ampia dei presupposti indicati, che potrebbe riguardare non soltanto l’entità dei debiti ed il periodo trascorso dalla loro scadenza, ma anche la stessa tipologia dei debiti rilevanti (ad esempio, l’art. 15 contempla ora, tra i debiti fiscali, soltanto quelli relativi all’IVA).

L’art. 357 demanda ad un regolamento ministeriale, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 400/1988, la disciplina del funzionamento dell’albo di cui all’art. 356.

La elencazione dei contenuti del regolamento organizzativo, limitata alle modalità di iscrizione, sospensione e cancellazione dall’albo e di esercizio del potere ministeriale di vigilanza, non contempla le (altre) modalità organizzative che possono presumersi necessarie per l’attivazione ed il funzionamento di uno strumento nuovo (dotazione di personale, sede e incardinamento nella struttura burocratica, imputazione organica del potere di vigilanza, etc.). La formulazione dovrebbe quindi essere opportunamente integrata in tal senso, o quanto meno resa non tassativa (“sono stabilite, in particolare: …”).

Tenuto conto della clausola di invarianza finanziaria di cui all’art. 390, fermo restando che è prevista la corresponsione di un contributo, occorre precisare chi e come farà fronte, in prima applicazione, ai relativi costi.

Per le stesse ragioni, sembra altresì opportuno che al comma 2 venga introdotta la precisazione che la determinazione, tenuto conto delle spese necessarie per il funzionamento dell’albo, dell’importo del contributo di iscrizione realizzi l’equilibrio finanziario della gestione dell’albo stesso.

L’art. 368 contiene disposizioni di coordinamento formale della disciplina in materia di licenziamenti collettivi, e di modifica sostanziale dell’art. 47 della legge 428/1990 (che disciplina il trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c. in cui siano complessivamente occupati più di quindici lavoratori), per superare le problematiche interpretative cui ha dato luogo l’applicazione di detta disposizione a seguito dei rilievi sul contrasto con la direttiva CEE 2001/23 delle deroghe all’art. 2112 c.c. da essa previste, formulati dalla Corte di Giustizia.

Nell’ambito di una serie di modifiche all’art. 47, volte soprattutto a chiarire che il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro avviene comunque, sia in caso di procedure non liquidatorie (comma 4-bis) sia liquidatorie (comma 5), ed a consentire la possibilità di deroghe all’art. 2112 c.c. limitatamente alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni previste da accordi sindacali, il comma 1-bis (inserito dall’art. 368) contiene due norme, la prima sulla legittimazione di terzi aspiranti cessionari a comunicare la (prospettiva della) cessione d’azienda, la seconda sulla subordinazione dell’efficacia degli accordi di mantenimento dell’occupazione all’effettivo acquisto dell’azienda. Si tratta di norme complementari ma distinte, che è opportuno siano previste in distinti periodi, o quanto meno siano tra loro collegate (ad es., inserendo “in tale ipotesi …”) in distinte proposizioni, mentre nella formulazione proposta, probabilmente per un refuso, ciò non avviene.

L’art. 373 limita le abrogazioni espresse a poche disposizioni che trovano il loro presupposto in istituti abrogati da tempo.

Sembra tuttavia necessario che siano individuate partitamente le disposizioni del r.d. 267/1942 e della legge 3/2012 abrogate a decorrere dalla entrata in vigore di quelle destinate a sostituirle (secondo la distinzione temporale prevista dall’art. 388), determinandosi altrimenti la necessità di ricorrere sistematicamente a valutazioni di abrogazione tacita.

Si suggerisce, anzi, l’alternativa migliore consistente nella abrogazione sic et simpliciter delle citate leggi, salva la disciplina transitoria.

Riguardo alla giustificazione della limitata previsione abrogativa, esposta nella relazione illustrativa, va infatti precisato che l’effetto abrogativo – per il quale, salvo diversa previsione, una norma non è più applicabile ai comportamenti e agli atti successivi, restando applicabile a quelli adottati in precedenza – non è assorbito o surrogato dall’esistenza di una disciplina transitoria, nel caso dettata dall’art. 389, secondo la quale alle procedure pendenti o che conseguiranno ad atti di iniziativa antecedenti all’entrata in vigore del codice continua ad applicarsi la disciplina previgente (seppur abrogata).

Per altro, la citata circolare della Presidenza del Consiglio-Guida alla redazione dei testi normativi, al par. 4.16, pag. 48, espressamente indica come buona regola quella che l’atto normativo contenga la previsione delle disposizioni abrogate, in modo da assicurare una continua “manutenzione” dell’ordinamento e la periodica verifica della necessità delle norme formalmente esistenti.

L’opportunità della abrogazione espressa sussiste anche in relazione ad un intero corpo normativo, in attuazione esplicita della terza ipotesi contemplata dall’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale (preleggi): “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore”.

Ciò non esclude, sempre secondo la detta circolare, l’introduzione del principio della ultrattività (par. 4.17 della circolare) di cui il legislatore delegato ha fatto, in questo caso, buono e opportuno uso nell’art. 389.

In conclusione, la necessità della abrogazione espressa della legge fallimentare e della legge 3/2012 risulta palese e non è surrogata da una disciplina transitoria che si limita, in verità, ad esplicitare i principi generali in tema di ultrattività di norme nel caso di successione di leggi nel tempo.

Qualunque dubbio o incertezza derivante, poi, dalla abrogazione così determinata anche delle norme penali contenute nelle leggi abrogate, è fugata dal principio di continuità nelle fattispecie criminose esplicitamente, e correttamente, richiamato nella relazione illustrativa e di cui è puntuale declinazione il comma 3 dell’art. 389, classica ipotesi di abrogatio sine abolitio (si vedano, su questioni analoghe, le sentenze delle SSUU n. 19601/2008 e 25887/2003).

A tutto concedere, al fine di sgombrare il campo da ogni residuo dubbio in materia penale, potrebbe farsi espresso riferimento, nella disposizione abrogatrice delle due leggi, alla “salvezza degli effetti di cui al comma 3 dell’art. 389”.

Gli artt. da 384 a 387, contengono modifiche al d.lgs. 122/2005, sulla disciplina delle garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire. Costituiscono attuazione della delega di cui all’art. 12 della legge 155/2017.

La relazione illustrativa sottolinea che la delega è stata attuata anche tenuto conto del richiamo operato dall’art. 12 alle modalità e termini di esercizio della delega di cui all’art.1 della legge 155/2017 (per il quale il Governo “cura altresì il coordinamento con le disposizioni vigenti, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme non direttamente investite dai principi e criteri direttivi di delega, in modo da renderle ad essi conformi, adottando le opportune disposizioni transitorie”).

Detto aspetto comune, di carattere metodologico e relativo all’ampiezza della forza di legge esercitabile, ma non all’oggetto intrinseco della delega, non sembra possa giustificare la collocazione delle disposizioni in esame nell’ambito del codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza.

Infatti, come rivela l’incipit - il quale, a differenza di quello di tutte le altre disposizioni della legge 155/2017 che riguardano i singoli aspetti del codice, non recita “Nell’esercizio della delega di cui all’art. 1”, e dispone che “Il Governo è delegato ad adottare, con le modalità e nei termini di cui all'articolo 1, disposizioni in materia di tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi: …” – l’art. 12 contiene una delega autonoma rispetto a quella dell’art. 1 (che riguarda “la riforma organica delle procedure concorsuali” e “la composizione delle crisi da sovraindebitamento”).

D’altra parte, la ricomprensione in un codice che ha propri principi è suscettibile di orientare l’interpretazione delle singole norme, per cui la collocazione delle disposizioni non è indifferente.

Sembra dunque opportuno che la delega concernente le garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire sia tradotta in un autonomo testo normativo.

L’art. 389 collega l’applicabilità della disciplina del codice all’esistenza, alla data di entrata in vigore, del deposito dell’atto di iniziativa (ricorso/domanda) destinato a sfociare nelle procedure di allerta e composizione della crisi o nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza.

La formulazione della disposizione non è lineare, in quanto il comma 2 non aggiunge altro a quello che già discende dal comma 1 (se vi è stato deposito della domanda, la procedura è pendente, e le procedure che seguono ai ricorsi consistono appunto nella definizione dei ricorsi stessi, già considerata dal comma 1); in ogni caso, al comma 2, dovrebbero eliminarsi le parole “della definizione”, trattandosi probabilmente di un refuso.

P.Q.M.

La Commissione Speciale esprime il richiesto parere nei termini sopra indicati.


 
 
GLI ESTENSORI IL PRESIDENTE
Giulio Veltri, Pierfrancesco Ungari, Daniela Di Carlo, Francesco Gambato Spisani, Giordano Lamberti, Giovanni Grasso, Antonella Manzione, Giuseppina Luciana Barreca, Roberto Proietti Claudio Zucchelli
 
 
 
 

IL SEGRETARIO

Cinzia Giglio


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