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TAR Lazio, sez. I bis, 4/12/2018 n. 11756
Sono rimesse alla CGE una serie di quest. preg. riguardanti la compatibilità con il dir. Ue dell'art. 1, c. 489, l. n. 147/2013 secondo cui le amm. e gli enti pubblici compresi nell'elenco Istat, non possono erogare trattamenti econom. onnicomprensi

che sommati al trattamento pensionistico, eccedano il limite fissato dall'art.23-ter, c. 1, del d.l. n. 201/2011, conv. in l. n. 214 del 2011, limite che è costituito dall'importo annuo lordo riconosciuto al primo presidente della Corte di cassazione (oggi corrispondente alla cifra di e.240.000,00 annui).

Vanno rimesse alla Corte di giustizia UE le seguenti questioni pregiudiziali: a) se l’articolo 3, commi 2 e 3, TUE, gli articoli 9, 45, 126, 145, 146, 147, 151, comma 1, TFUE, l’articolo 15, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, gli articoli 3 e 5 del Pilastro europeo dei diritti sociali, ostino ad una disposizione nazionale, quale è l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, nella misura in cui tale norma incoraggia le amministrazioni pubbliche italiane a preferire, nelle assunzioni o nel conferimento di incarichi, solo lavoratori già titolari di trattamento pensionistico erogato da enti previdenziali pubblici italiani; b) se gli articoli 106, comma 1, e 107 TFUE ostino ad una disposizione nazionale, qual è quella citata, che consente alle amministrazioni pubbliche italiane che svolgono attività economica, soggette al rispetto degli articoli 101 e seguenti TFUE, di avvalersi della attività lavorativa di soggetti che abbiano consentito a rinunciare, in tutto o in parte, alla relativa retribuzione, così conseguendo un risparmio di costi idoneo ad avvantaggiare l’amministrazione medesima nella competizione con altri operatori economici; c) se gli articoli 2, 3, 6 TUE, gli articoli 126 e 151, comma 1, TFUE, l’art. 15, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, gli articoli 3 e 7, lett. a), del Pilastro europeo dei diritti sociali, ostino ad una disposizione nazionale, qual è quella citata, che, nelle condizioni indicate dalla norma, ammette che un lavoratore possa esprimere validamente la rinuncia, totale o parziale, alla retribuzione, pur essendo tale rinuncia finalizzata esclusivamente a evitare la perdita della attività lavorativa; d) se gli articoli 2, 3 e 6 TUE, gli articoli 14, 15, comma 1, 126 e 151, comma 1, TFUE, l’art. 31, comma 1, della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, gli articoli 5, 6 e 10 del Pilastro europeo dei diritti sociali ostino ad una disposizione nazionale, qual è quella citata, che, nelle
condizioni indicate dalla norma, consente ad un lavoratore di prestare, a favore di una amministrazione pubblica italiana, attività lavorativa rinunciando in tutto o in parte al relativo compenso, anche se a fronte di tale rinuncia non sia previsto alcun mutamento dell’assetto lavorativo, né in termini di orario di lavoro né sul piano della quantità e qualità del lavoro richiesto e delle responsabilità che da esso conseguono, e quindi anche se con la rinuncia a parte della retribuzione si determina una significativa alterazione del sinallagma lavorativo, sia dal punto di vista della proporzionalità tra la retribuzione e la qualità e quantità del lavoro svolto, sia perché in tal modo il lavoratore finisce per essere costretto a prestare la propria attività in condizioni lavorative non ottimali, che predispongono ad un minor impegno lavorativo e costituiscono il presupposto di una azione amministrazione meno efficiente; e) se gli articoli 2, 3 e 6 TUE, gli articoli 126 e 151, comma 1, TFUE, l’articolo 15, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea e l’art. 6 del Pilastro europeo dei diritti sociali ostino al combinato disposto degli articoli 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 e 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011, nella misura in cui tali norme consentono/impongono ad una amministrazione pubblica italiana, anche in pendenza del rapporto di lavoro o di collaborazione, di decurtare la retribuzione spettante al lavoratore in dipendenza del variare del massimale retributivo al quale fa riferimento il predetto articolo 23-ter, comma 1, del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011, e quindi in conseguenza di un evento non prevedibile e comunque in applicazione di un meccanismo di non immediata comprensione ed a dispetto delle informazioni fornite al lavoratore all’inizio del rapporto di lavoro; f) se gli articoli 2, 3 e 6 TUE, gli articoli 8 e 126 TFUE, gli articoli 20 e 21 della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea e gli articoli 10 e 15 del Pilastro europeo dei diritti sociali ostino ad una disposizione nazionale, qual è l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, che, nelle condizioni indicate dalla norma, impone alle amministrazioni pubbliche italiane di ridurre i compensi spettanti ai propri dipendenti e collaboratori che siano titolari di un trattamento pensionistico erogato da un ente previdenziale pubblico, penalizzando tali lavoratori per ragioni connesse alla disponibilità di altre entrate patrimoniali, così disincentivando il prolungamento della vita lavorativa, l’iniziativa economica privata e la creazione e la crescita dei patrimoni privati, che costituiscono comunque una ricchezza ed una risorsa per la nazione.

Materia: pubblica amministrazione / lavoro

Pubblicato il 04/12/2018

 

N. 11756/2018 REG.PROV.COLL.

 

N. 12156/2014 REG.RIC.          

 

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

 

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 12156 del 2014, proposto da

 

Michele Cosentino, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Sanino, Paola Salvatore, Marco Di Lullo, con domicilio eletto presso lo studio Legale Sanino in Roma, viale Parioli, 180;

 

contro

Corte dei Conti, Segretariato Generale della Corte dei Conti, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

 

per l'annullamento

- del provvedimento adottato dal Segretario Generale della Corte dei Conti con nota prot. n. 0003369 del 18.7.2014 con la quale è stato preannunciato che, a decorrere dal mese di agosto 2014, il trattamento in godimento quale magistrato con la qualifica di Consigliere dei ruoli della stessa Corte dei Conti, sarebbe stato decurtato della somma pari a euro 53.464, 34 per l’anno 2014, come attestato dalla scheda contabile allegata allo stesso provvedimento;

- di ogni altro atto annesso, connesso, presupposto e/o consequenziale

nonché per la declaratoria

- del diritto al trattamento retributivo e a quello pensionistico spettanti senza applicazione delle decurtazioni di cui all’art. 1, comma 489, l. 27.12.2013 n. 147 e successive modificazioni

 

nonché per la condanna

dell’Amministrazione al versamento e alla restituzione delle somme nelle more illegittimamente trattenute e recuperate.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Corte dei Conti, del Segretariato Generale della Corte dei Conti, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell'Economia e delle Finanze;

Visti lo Statuto e il Regolamento di procedura della Corte di Giustizia della Unione Europea;

Viste le “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” (2016/C 439/01) della Corte di Giustizia della Unione Europea (d’ora in poi anche “Raccomandazioni”);

Visti gli artt. 19, paragrafo 3, lett. b), del Trattato sulla Unione Europea (TUE) e 267 del Trattato sul Funzionamento della Unione Europea (TFUE);

Visto l’articolo 79, comma 1, del Decreto legislativo n. 104 del 2010, Allegato 1 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009 n. 69, recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo), recante il Codice del processo amministrativo;

Visti gli articoli 2, 3, comma 2 e 3, 6, comma 1 e 3, e 9 del Trattato sull’Unione Europea; gli articoli 8, 9, 14, 15, comma 1, 45, 106, comma 1, 107, 126, comma 1, 145, 146, 147, 151, comma 1, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea;

Vista la Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e la Carta dei diritti sociali e fondamentali dei lavoratori del 1989;

Visti gli artt. 15, comma 2, 20, 21, e 31, comma 1, della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo;

Visti gli articoli, 3, 5, 6, 7, 10, lett. b), 15, lett. a), del Pilastro europeo dei diritti sociali;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 ottobre 2018 la dott.ssa Roberta Ravasio e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

 

A – ESPOSIZIONE SUCCINTA DELL’OGGETTO DELLA CONTROVERSIA.

 

1.         Il ricorrente è titolare di trattamento pensionistico in quanto ex Ambasciatore di grado della Carriera Diplomatica ed Ispettore Generale del Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana: il suddetto trattamento pensionistico è pari all’importo annuo lordo di Euro 167.676,21.

 

2.         A far tempo dal 1° novembre 2010 il dott. Cosentino è stato nominato dal Governo magistrato della Corte dei Conti: da quel momento egli ha pertanto goduto sia del trattamento pensionistico che di quello retributivo afferente l’attività di magistrato, quest’ultimo pari ad Euro 156.498,85.

 

3.         Con nota n. 0003369 del 18 luglio 2014 il Segretariato Generale della Corte dei Conti ha comunicato al ricorrente che il trattamento retributivo a lui spettante per l’anno 2014 sarebbe stato decurtato di Euro 53.464,34 e che pertanto nei mesi successivi si sarebbe proceduto a ridurre lo stipendio mensile e ad effettuare sullo stesso le trattenute necessarie a recuperare le somme corrisposte in eccesso nei mesi precedenti: la Corte dei Conti ha giustificato tale determinazione con la necessità di applicare il combinato disposto degli artt. 1, comma 489, della Legge n. 147 del 27 dicembre 2013, 23 ter del Decreto Legge n. 201 del 6 dicembre 2011, 13, comma 1, del Decreto Legge n. 66 del 24 aprile 2014, convertito, con modificazioni, dalla Legge 23 giugno 2014, n. 89, dal quale discende che ai soggetti già titolari di trattamento pensionistico erogato da un ente o amministrazione pubblica non possono essere erogati, da un ente o amministrazione pubblica, trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, eccedano l’importo annuo lordo riconosciuto al Primo Presidente della Corte di Cassazione, importo questo che sino al 30 aprile 2014 era fissato in Euro 311.000,00 e che con decorrenza 1° maggio 2014 è stato rideterminato in Euro 240.000,00 annui, al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente.

 

4.         Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il dott. Cosentino ha impugnato la citata nota del Segretariato Generale della Corte dei Conti siccome illegittima ed ha chiesto a questo Tribunale di annullarla e di accertare il diritto del ricorrente a percepire l’intero trattamento retributivo e quello pensionistico, senza applicazione delle decurtazioni di cui all’articolo 1, comma 489, legge 27 dicembre 2013 numero 147 e successive modificazioni, conseguentemente instando per la condanna dell’Amministrazione al versamento delle somme nelle more illegittimamente trattenute.

 

5.         A sostegno del ricorso il dott. Cosentino ha dedotto, riassuntivamente, che: a) l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 espressamente ne esclude la applicazione a “..i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi”, e che una lettura conforme alla Costituzione della Repubblica Italiana della norma impone di interpretarla nel senso che sono esclusi dalla decurtazione anche gli emolumenti che, come quello percepito dal ricorrente, trovano causa in qualsiasi rapporto di lavoro a tempo indeterminato già in corso alla data di entrata in vigore della L. n. 147/2013; b) in caso contrario l’art. 1, comma 489, della l. n. 147/2013 dovrebbe essere considerato illegittimo per contrarietà agli articoli 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione della Repubblica Italiana, e precisamente: per ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti che espletano la medesima attività lavorativa, per violazione dell’obbligo di corrispondere una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto, per lesione alla autonomia ed indipendenza della magistratura, per violazione del principio di irretroattività delle leggi e del principio dell’affidamento, per violazione di diritti consolidati, ove la norma fosse letta nel senso che va ad incidere sul trattamento pensionistico.

 

6.         La Corte dei Conti si è costituita in giudizio per resistere al ricorso.

 

7.         Con ordinanza n. 5718 del 17 aprile 2015 questo Tribunale si è pronunciato nel senso di ritenere che i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, come quello svolto dal ricorrente in qualità di magistrato della Corte dei Conti, in quanto caratterizzati da tendenziale stabilità e dalla assenza di un termine predeterminato di fine rapporto, non possono essere inclusi tra quelli esclusi dalla applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013. Quindi, dato atto, sulla base di tali considerazioni, che la Amministrazione convenuta ha dato corretta e legittima applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 al caso di specie, il Collegio ha ritenuto rilevanti ai fini del decidere le questioni di costituzionalità prospettate dal ricorrente, questioni che con la medesima ordinanza ha rimesso alla valutazione della Corte Costituzionale.

 

8.         Questa ultima si è pronunciata con sentenza n. 127 del 26 maggio 2017, che ha dichiarato non fondate tutte le questioni ad essa sottoposte.

 

9.         Il ricorso è stato quindi nuovamente chiamato alla pubblica udienza del 3 ottobre 2018, in occasione della quale il Collegio ha ritenuto di dover sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte di Giustizia della Unione Europea i quesiti che in appresso si vanno ad illustrare, dirimenti ai fini della definizione del presente giudizio nonché di vari altri giudizi pendenti avanti questo Tribunale.

 

B. IL CONTENUTO DELLE DISPOSIZIONI NAZIONALI CHE TROVANO APPLICAZIONE NEL CASO DI SPECIE ED IL DIRITTO DELLA UNIONE EUROPEA.

 

B.1. Il diritto nazionale.

 

10. Stabilisce l’art. 23 ter, comma 1, del Decreto-Legge n. 201/2011, convertito nella L. n. 214/2011, che “Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e' definito il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo, e successive modificazioni, stabilendo come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione. Ai fini dell'applicazione della disciplina di cui al presente comma devono essere computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all'interessato a carico del medesimo o di piu' organismi, anche nel caso di pluralita' di incarichi conferiti da uno stesso organismo nel corso dell'anno.”

 

11. Con tale norma è stato fissato un tetto massimo all’importo che può essere erogato, a carico delle finanze pubbliche, a favore di un soggetto, a titolo di emolumenti o retribuzioni per lo svolgimento di lavoro dipendente o autonomo a favore di una pubblica amministrazione o di più pubbliche amministrazioni: il predetto massimale è stato ancorato allo stipendio del Primo Presidente della Corte di Cassazione, il quale ammontava, al momento in cui la norma entrava in vigore, ad Euro 311.00,00 lordi annui e che è stato ulteriormente ridotto ad Euro 240.000,00 annui lordi dall’art. 13, comma 1, del Decreto Legge n. 66 del 24 aprile 2014, convertito nella L. n. 89/2014, secondo cui “A decorrere dal 1° maggio 2014 il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione previsto dagli articoli 23-bis e 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni e integrazioni, e' fissato in euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente. A decorrere dalla predetta data i riferimenti al limite retributivo di cui ai predetti articoli 23-bis e 23-ter contenuti in disposizioni legislative e regolamentari vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, si intendono sostituiti dal predetto importo. Sono in ogni caso fatti salvi gli eventuali limiti retributivi in vigore al 30 aprile 2014 determinati per effetto di apposite disposizioni legislative, regolamentari e statutarie, qualora inferiori al limite fissato dal presente articolo”.

 

12. Per esplicita previsione dell’art. 23 ter, comma 1, del Decreto-Legge n. 201/2011, convertito nella L. n. 214/2011, il massimale deve essere rispettato non solo nell’ambito di un singolo rapporto di lavoro ma anche nel caso in cui un soggetto sia titolare, a carico delle finanze pubbliche, di più entrate in dipendenza di diversi rapporti di lavoro: il rispetto della norma richiede pertanto che i vari emolumenti e trattamenti economici corrisposti ad un soggetto da amministrazioni pubbliche non superino, cumulati fra loro, l’indicato massimale, ormai fissato in Euro 240.000,00 annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente.

Con l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 è stato previsto che “Ai soggetti gia' titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, le amministrazioni e gli enti pubblici compresi nell'elenco ISTAT di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni, non possono erogare trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, eccedano il limite fissato ai sensi dell'articolo 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. Nei trattamenti pensionistici di cui al presente comma sono compresi i vitalizi, anche conseguenti a funzioni pubbliche elettive. Sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi. Gli organi costituzionali applicano i principi di cui al presente comma nel rispetto dei propri ordinamenti”.

 

13. La norma in questione in sostanza estende l’obbligo di rispettare il massimale previsto dall’art. 23 ter del Decreto-Legge n. 201/2011, convertito nella L. n. 214/2011 e fissato in Euro 240.000,00 annui lordi dall’art. 13 del Decreto-Legge n. 66/2014, anche al caso in cui il soggetto che svolge attività lavorativa a favore di una amministrazione pubblica - percependo un trattamento economico a fronte di tale attività - sia già titolare di un trattamento pensionistico erogato da un ente previdenziale pubblico. Più precisamente discende dalla applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 che, nel caso in cui il trattamento pensionistico e quello retributivo percepiti dal soggetto superino, sommati insieme, il massimale di 240.000,00 euro, l’amministrazione che eroga il trattamento retributivo deve effettuare una decurtazione dello stesso nella misura necessaria a rientrare nel predetto massimale.

 

14. E’ opinione del Collegio che la norma da ultimo citata deve essere interpretata nel senso che la sommatoria delle entrate elargite dallo Stato e godute, da un soggetto, a titolo di trattamento pensionistico e retributivo vada effettuata al solo fine di verificare se l’importo complessivo di tali entrate superi o meno il massimale di 240.000,00 euro annui lordi, e non già anche al fine di operare una rideterminazione del trattamento pensionistico: la norma è infatti chiara nello stabilire che l’eventuale superamento del massimale obbliga la sola amministrazione pubblica che eroga il trattamento retributivo, corrisposto a fronte della attività lavorativa del soggetto, ad effettuare la decurtazione. Segue da tale constatazione che il trattamento pensionistico rimane fermo e, correlativamente, solo il trattamento retributivo corrisposto a fronte della attività lavorativa subisce una decurtazione che varia unicamente in funzione del variare del trattamento pensionistico.

 

15. Il soggetto colpito dalla decurtazione retributiva prevista dall’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 non ha altra alternativa che quella di continuare a prestare l’attività lavorativa alle nuove condizioni economiche ovvero di dimettersi dal rapporto di lavoro: non è infatti previsto che a fronte della decurtazione il lavoratore possa pretendere una riduzione dell’orario di lavoro o una modifica delle mansioni lavorative. Pertanto, ove questi scelga di continuare l’attività lavorativa egli ciò farà rinunciando, di fatto, ad una parte significativa – o anche alla totalità - della retribuzione che gli spetterebbe e che invece continua ad essere generalmente riconosciuta a tutti coloro che svolgono la medesima attività lavorativa. La parte della retribuzione oggetto di rinuncia risulta poi tanto più elevata quanto più il trattamento pensionistico si avvicina al (o pareggia o supera il) tetto di 240.000,00 euro.

 

16. Ciò che il Collegio intende, in questa sede, sottolineare è, allora, da una parte, il fatto che la decurtazione della retribuzione, operata in applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, non è una riduzione generale della retribuzione prevista a fronte di una determinata attività lavorativa e non è neppure una riduzione quantitativamente contenuta nei limiti della ragionevolezza e della prevedibilità o soggetta a limiti di tempo. All’esatto opposto, si tratta di una riduzione consistente, estremamente variabile, che nella maggior parte dei casi si attesta su percentuali superiori al 30%, pur essendosi verificati nella pratica casi in cui la decurtazione ha raggiunto percentuali molto più elevate e prossime, o anche coincidenti, al 100%. Si tratta inoltre di una riduzione che colpisce solo determinati soggetti all’interno della medesima organizzazione lavorativa alle dipendenze della pubblica amministrazione e che dunque fa coesistere lavoratori che, a fronte dello svolgimento di identica attività, anche nel contesto della medesima amministrazione e del medesimo ufficio, percepiscono retribuzioni che risultano estremamente differenziate per fattori che nulla hanno a che vedere con le condizioni di lavoro o con le funzioni svolte e che afferiscono, piuttosto, alla consistenza del patrimonio personale del lavoratore, in quanto alimentato da sostanze pubbliche. Si tratta, inoltre, di una decurtazione che non viene operata per un periodo di tempo transitorio: infatti l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 non si definisce come norma a carattere temporaneo o emergenziale ed è destinata ad operare a tempo indefinito.

 

17. D’altra parte il Collegio deve evidenziare che l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, implicitamente impone/consente una rinuncia alla retribuzione.

 

17.1. Il Collegio ritiene, infatti, che la decurtazione imposta dalla norma citata non può definirsi una mera “riduzione” del trattamento stipendiale, e ciò perché una “riduzione” avrebbe dovuto essere prevista per la generalità di casi identici ed avrebbe dovuto mantenere una corretta proporzione tra il lavoro svolto e la retribuzione “reale” risultante dopo la decurtazione, rimanendo contenuta in qualche punto percentuale a fronte della invarianza delle condizioni lavorative. Nella specie, invece, come precisato, la decurtazione opera solo “a sfavore” di alcuni soggetti, e pur a fronte della consistente defalcazione, non è prevista come obbligatoria una modifica delle loro condizioni lavorative. Il lavoratore interessato nel caso di specie, quindi, può solo scegliere tra la rinuncia alla attività lavorativa e la rinuncia ad una parte della (quando non a tutta la) relativa retribuzione, con svolgimento del rapporto di lavoro a condizioni che, dal punto di vista economico, valgono solo nei suoi confronti.

 

17.2. Pertanto il Collegio ritiene che l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 si deve interpretare nel senso che esso di fatto consente, nell’ambito del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, lo svolgimento di attività lavorativa a titolo sostanzialmente gratuito, ovvero retribuita solo parzialmente, in conseguenza della rinuncia, da parte del lavoratore, ad una consistente parte della retribuzione generalmente riconosciuta, che gli spettava e che gli spetterebbe in astratto per lo svolgimento di tale attività.

 

17.3. E’ utile ancora sottolineare, a chiarimento della portata della norma in esame, che si deve fare riferimento alle amministrazioni ed enti compresi nell’elenco ISTAT di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196: l’elenco pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 28 settembre 2018, n. 226 della Serie Generale comprende: vari “Enti produttori di servizi economici”, che spesso hanno la forma di società per azioni (per citarne solo alcuni: ANAS S.p.a., Armamenti e aerospazio S.p.a. in liquidazione; Buonitalia S.p.a. in liquidazione; Concessionaria servizi informativi pubblici - Consip S.p.a.; ANPAL Servizi S.p.a.; Società generale d’informatica - Sogei S.p.a.; Soluzioni per il sistema economico - SOSE S.p.a.), vari “Enti produttori di servizi assistenziali, ricreativi e culturali” (Federazioni sportive, Ente Croce Rossa Italiana, l’Accademia della Crusca, CONI Servizi S.p.a., la Fondazione Festival dei due Mondi, la Fondazione La biennale di Venezia, ad esempio), la RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a., Enti ed Istituzioni di ricerca (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile - ENEA; Agenzia spaziale italiana - ASI; Consiglio nazionale delle ricerche - CNR; Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria - CREA; Consorzio per le applicazioni nei materiali polimerici e compositi - CAMPEC; Istituto nazionale di astrofisica - INAF; Istituto nazionale di fisica nucleare - INFN; Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia - INGV; Istituto nazionale di statistica - ISTAT; Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione - INVALSI; Istituto superiore di sanità - ISS; Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – ISPRA; anche in questo caso l’elenco non è esaustivo). Vi sono poi: i Parchi nazionali, consorzi ed enti gestori di parchi e aree naturali protette; i Consorzi interuniversitari di ricerca; tutte le Fondazioni liriche-sinfoniche, e quindi tutti i principali teatri lirici italiani (Fondazione Teatro la Fenice di Venezia; Fondazione Teatro di San Carlo; Fondazione Teatro Regio di Torino; Fondazione Teatro alla Scala di Milano; Fondazione Teatro lirico Giuseppe Verdi; Fondazione Accademia nazionale Santa Cecilia; Fondazione lirico-sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari, per citare solo i più famosi); tutte le Università ed Istituti di istruzione; Teatri nazionali di rilevante interesse pubblico; Agenzie che erogano servizi pubblici di vario tipo, locali e non, a rilevanza economica e non; le Società concessionarie di autostrade, le Aziende ospedaliere, i policlinici, e gli istituti di ricovero a carattere scientifico.

L’elenco è lunghissimo, e le amministrazioni e gli enti pubblici di puro diritto pubblico sono solo una minima parte (Comuni, Province, Comunità montante, enti previdenziali). Il numero degli enti tenuti alla applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, che istituzionalmente svolgono, anche o esclusivamente, attività di rilevanza economica, senza ricorso sistematico all’esercizio di potestà pubbliche, concorrendo sul mercato con altre imprese, è dunque significativo, e rappresenta settori di indubbio interesse anche per cittadini della Unione.

 

18. Da ultimo, è rilevante ai fini del decidere evidenziare che il corredo normativo dianzi ricordato si applica indistintamente a tutti i soggetti che prestano attività lavorativa a favore di una amministrazione italiana, a titolo di lavoro subordinato o autonomo, a tempo determinato o indeterminato, implicante, o meno, l’esercizio di potestà pubbliche. La decurtazione prevista dall’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, pertanto, può e potrà in concreto potenzialmente colpire anche il cittadino di uno Stato Membro della Unione Europea che, stabilitosi in Italia, sia o divenga percettore di un trattamento pensionistico gravante su un ente previdenziale pubblico italiano e sia poi chiamato a svolgere, per una amministrazione pubblica italiana, una attività lavorativa, anche di alto profilo, come nel caso di specie.

 

19. Tale evenienza deve ritenersi concretamente possibile, in quanto, con la recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 25 giugno 2018, il Consiglio di Stato, chiamato a verificare la legittimità della procedura seguita dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo per nominare il direttore di alcuni musei italiani di primaria importanza, e segnatamente per stabilire se al Ministero fosse consentito di conferire tale incarico a cittadini non italiani ma provenienti da Stati Membri della Unione Europea, ha affermato la legittimità di tali nomine dichiarando di dover preliminarmente disapplicare, in quanto contrarie all’art. 45, comma 4, TFUE, le norme italiane che nella fattispecie avrebbero imposto di scegliere per tale incarico solo cittadini italiani, e cioè:

 

i) l’art. 2, comma 1, del Decreto del Presidente della Repubblica 9 Maggio 1994, n.487, il quale stabilisce che “Possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i soggetti che posseggono i seguenti requisiti generali: 1) cittadinanza italiana. Tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 febbraio 1994, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1994, serie generale n. 61;…”

 

ii) l’art. 1, comma 1, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 Febbraio 1994, n. 174, secondo cui “I posti delle amministrazioni pubbliche per l'accesso ai quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana sono i seguenti: a) i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni; b) i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d'Italia; c) i posti dei magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché i posti degli avvocati e procuratori dello Stato; d) i posti dei ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell'interno, del Ministero della giustizia, del Ministero della difesa, del Ministero delle finanze e del Corpo forestale dello Stato, eccettuati i posti a cui si accede in applicazione dell'art. 16 della L. 28 febbraio 1987, n. 56.”.

 

19.1. Il Consiglio di Stato, in particolare, ha ritenuto di dover disapplicare le predette norme nella misura in cui precludono indistintamente ai cittadini della Unione Europea, diversi dai cittadini italiani, l’accesso a tutti i posti di livello dirigenziale o di vertice delle amministrazioni pubbliche, a prescindere dal fatto che essi comportino la partecipazione diretta e specifica all’esercizio di potestà pubbliche o alla responsabilità della cura di interessi generali dello Stato. Ha osservato, in dettaglio, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: che “non si rinviene invero alcuna ragione per riconoscere in modo indistinto l'esercizio dell'autorità pubblica e la responsabilità di salvaguardare gli interessi generali dello Stato (e quindi la possibilità di attivare la 'riserva di nazionalità') a fronte di qualunque posto di livello dirigenziale dello Stato”; che “non rinviene pertanto un puntuale conforto testuale o sistematico la tesi secondo cui tutti i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato (articolo 1, comma 1, lettera a) del d.P, C.M. 174, cit.) sarebbero qualificabili sempre e comunque come posti con funzioni di vertice amministrativo e implicherebbero l'esercizio prevalente di funzioni di stampo autoritativo”; che “non può essere condivisa la tesi …….. secondo cui, ai fini dell'applicazione dell'eccezione di cui al paragrafo 4 dell'articolo 45 del TFUE, non potrebbe richiamarsi il criterio della prevalenza fra funzioni di carattere pubblicistico e funzioni di gestione economica e tecnica, potendo tale eccezione essere invocata a fronte di qualunque posizione funzionale che implichi (e in qualunque misura) l'esercizio di funzioni di stampo autoritativo”: al contrario, la giurisprudenza della Corte di giustizia, espressa nella sentenza in causa C-270/13, “conforta l'opposta conclusione secondo cui l'eccezione in parola non può essere invocata nelle ipotesi in cui la posizione lavorativa di cui si discute implichi - sì - l'esercizio di talune funzioni autoritative, ma in modo sporadico e comunque non prevalente rispetto al complesso delle funzioni attribuite”; che pertanto, pur laddove si dubiti che il titolare di una funzione dirigenziale “sia titolare di taluni compiti e funzioni di stampo pubblicistico e autoritativo, nondimeno (e anche ad ammettere che detta titolarità sussista) tale circostanza non consentirebbe di invocare in modo legittimo la riserva di nazionalità”; che, infine, “non può essere condivisa la tesi …..secondo cui le statuizioni rese dalla Corte di giustizia nel settembre del 2014 sul caso dell'Autorità portuale di Brindisi resterebbero confinate alle sole ipotesi di enti pubblici aventi una personalità giuridica distinta da quella dello Stato. Si osserva, in contrario, che la richiamata decisione della Corte di giustizia, nell'indicare il principio della prevalenza quale criterio orientativo per l'applicazione della 'riserva di nazionalità' di cui al paragrafo 4 dell'articolo 45 del TFUE, assume evidentemente valenza generale e non ammette limitazioni nella sfera applicativa derivanti da categorie e distinzioni proprie dell'ordinamento interno.”

 

19.2. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha ancora chiarito che la possibilità di attribuire a cittadini non italiani incarichi di funzioni dirigenziali aventi carattere essenzialmente gestionale e non connotati in sostanza dalla spendita di funzioni autoritative non potrebbe trovare fondamento nella applicazione del principio di reciprocità, sul presupposto che non risulterebbero norme o prassi amministrative di altri Stati membri dell'Unione europea i quali abbiano consentito a cittadini italiani di acquisire lo status di dirigenti aventi una posizione 'di vertice' all'interno del proprio ordinamento: infatti, osserva la pronuncia in esame, “la giurisprudenza della Corte di giustizia ha in più occasioni chiarito che l'adempimento agli obblighi imposti dai Trattati istitutivi e dal diritto UE derivato non può essere assoggettato al principio di reciprocità (in tal senso: CGUE, sentenza 16 maggio 2002 in causa C-142/01 - Commissione c/ Italia -; id., sentenza 29 marzo 2001 in causa C-163/99 - Portogallo c/ Commissione -).”.

 

19.3. Da ultimo l’Adunanza Plenaria ha escluso che la riserva di nazionalità di cui all'articolo 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 e di cui all'articolo 2 del d.P.R. 487 del 1994 possa trovare fondamento negli articoli 51 e 54 della Costituzione della Repubblica italiana, pervenendo alla conclusione che “l'articolo 1, comma 1, lettera a) del d.P.C.M. 174 del 1994 e l'articolo 2, comma 1 del d.P.R. 487 del 1994, laddove impediscono in modo assoluto la possibilità di attribuire posti di livello dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato a cittadini di altri Stati membri dell'Unione europea, risultino insanabilmente in contrasto con il paragrafo 4 dell'articolo 45 del TFUE e che, in assenza di possibili interpretazioni di carattere adeguativo, debbano essere disapplicati.”.

 

20. Per effetto della pronuncia appena ricordata, nel presente ed in futuro cittadini provenienti da Stati Membri della Unione Europea possono e potranno aspirare a divenire titolari di qualsiasi incarico di natura dirigenziale conferito dallo Stato italiano o da una amministrazione pubblica italiana, e ciò in tutti i casi in cui non venga in considerazione il sistematico o il prevalente esercizio di potestà pubblicistiche: infatti, a prescindere da quelli che sono gli obblighi minimi derivanti, a carico dello Stato italiano, dalla adesione alla Unione Europea con specifico riferimento alla riserva di nazionalità per gli impieghi pubblici, la normativa già attualmente in vigore in Italia, per come interpretata dal diritto vivente, consente il conferimento di incarichi dirigenziali, ed a maggior ragione di incarichi di livello inferiore, a qualsiasi cittadino della Unione Europea che abbia la necessaria qualificazione, rimanendo esclusi da tale possibilità solo gli incarichi che comportino l’esercizio sistematico o prevalente di potestà pubbliche o autoritative.

 

21. Proprio per tale ragione il Collegio stima che l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 possa interessare anche cittadini della Unione Europea, precisamente quelli tra essi che, avendo maturato in Italia il diritto ad un trattamento pensionistico erogato da un ente previdenziale pubblico (ovviamente anche in esito ad una prolungata attività lavorativa nell’ambito privato), siano chiamati ad un incarico pubblico la cui elevata remunerazione rischia di determinare lo sforamento del massimale annuo di retribuzione o di trattamento pensionistico erogabile a carico delle finanze pubbliche.

 

B.2. Il diritto della Unione.

 

B.2.1. Norme del Trattato sulla Unione Europea:

 

22. Art. 2: “L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.”

 

23. Art. 3, comma 2 e 3: “L'Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest'ultima. L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico. L'Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore.”;

 

24. Art. 6, comma 1 e 3: “L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati……. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali.”;

 

25. Art. 9: “L'Unione rispetta, in tutte le sue attività, il principio dell'uguaglianza dei cittadini, che beneficiano di uguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi. È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell'Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce.”

 

B.2.2. Norme del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea:

 

26. Art. 8: “Nelle sue azioni l'Unione mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne.”

 

27. Art. 9: “Nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l'Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un'adeguata protezione sociale, la lotta contro l'esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana.”

 

28. Art. 14: “Fatti salvi l'articolo 4 del trattato sull'Unione europea e gli articoli 93, 106 e 107 del presente trattato, in considerazione dell'importanza dei servizi di interesse economico generale nell'ambito dei valori comuni dell'Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, l'Unione e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell'ambito del campo di applicazione dei trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono tali principi e fissano tali condizioni, fatta salva la competenza degli Stati membri, nel rispetto dei trattati, di fornire, fare eseguire e finanziare tali servizi”.

 

29. Art. 15, comma 1: “Al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell'Unione operano nel modo più trasparente possibile”.

 

30. Art. 45: “1. La libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata.

 

2. Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.

 

3. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto:

 

a) di rispondere a offerte di lavoro effettive;

 

b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;

 

c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l'occupazione dei lavoratori nazionali;

 

d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.

 

4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione.”

 

31. Art. 106, comma 1: “Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme dei trattati, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 18 e da 101 a 109 inclusi.”.

 

32. Art. 107: “Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza.”

 

33. Art. 126, comma 1: “Gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi”.

 

34. Art. 145: “Gli Stati membri e l'Unione, in base al presente titolo, si adoperano per sviluppare una strategia coordinata a favore dell'occupazione, e in particolare a favore della promozione di una forza lavoro competente, qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici, al fine di realizzare gli obiettivi di cui all'articolo 3 del trattato sull'Unione europea.”.

 

35. Art. 146: “1. Gli Stati membri, attraverso le loro politiche in materia di occupazione, contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi di cui all'articolo 145 in modo coerente con gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell'Unione adottati a norma dell'articolo 121, paragrafo 2. 2. Gli Stati membri, tenuto conto delle prassi nazionali in materia di responsabilità delle parti sociali, considerano la promozione dell'occupazione una questione di interesse comune e coordinano in sede di Consiglio le loro azioni al riguardo, in base alle disposizioni dell'articolo 148.”

 

36. Art. 147: “L'Unione contribuisce ad un elevato livello di occupazione promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri nonché sostenendone e, se necessario, integrandone l'azione. Sono in questo contesto rispettate le competenze degli Stati membri. Nella definizione e nell'attuazione delle politiche e delle attività dell'Unione si tiene conto dell'obiettivo di un livello di occupazione elevato.”

 

37. Art. 151, comma 1: “L'Unione e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivi la promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione.”

 

B.2.3.: norme contenute nella Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea:

 

38. Art. 15, comma 2: “Ogni cittadino dell'Unione ha la libertà di cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro.”

 

39. Art. 20: “Tutte le persone sono uguali davanti alla legge.”

 

40. Art. 21: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale”.

 

41. Art. 31, comma 1: “Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose.”.

 

B.2.4.: norme contenute nel Pilastro europeo dei diritti sociali:

 

42. Art. 3: “Pari opportunità. A prescindere da sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età o orientamento sessuale, ogni persona ha diritto alla parità di trattamento e di opportunità in materia di occupazione, protezione sociale, istruzione e accesso a beni e servizi disponibili al pubblico. Sono promosse le pari opportunità dei gruppi sottorappresentati.”

 

43. Art. 5: “Occupazione flessibile e sicura. a. Indipendentemente dal tipo e dalla durata del rapporto di lavoro, i lavoratori hanno diritto a un trattamento equo e paritario per quanto riguarda le condizioni di lavoro e l'accesso alla protezione sociale e alla formazione. È promossa la transizione a forme di lavoro a tempo indeterminato. b. Conformemente alle legislazioni e ai contratti collettivi, è garantita ai datori di lavoro la necessaria flessibilità per adattarsi rapidamente ai cambiamenti del contesto economico. c. Sono promosse forme innovative di lavoro che garantiscano condizioni di lavoro di qualità. L'imprenditorialità e il lavoro autonomo sono incoraggiati. È agevolata la mobilità professionale. d. Vanno prevenuti i rapporti di lavoro che portano a condizioni di lavoro precarie, anche vietando l'abuso dei contratti atipici. I periodi di prova sono di durata ragionevole.”

 

44. Art. 6: “Retribuzioni. a. I lavoratori hanno diritto a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso. b. Sono garantite retribuzioni minime adeguate, che soddisfino i bisogni del lavoratore e della sua famiglia in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l'accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro. La povertà lavorativa va prevenuta. c. Le retribuzioni sono fissate in maniera trasparente e prevedibile, conformemente alle prassi nazionali e nel rispetto dell'autonomia delle parti sociali.”

 

45. Art. 7: “a. I lavoratori hanno il diritto di essere informati per iscritto all'inizio del rapporto di lavoro dei diritti e degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro e delle condizioni del periodo di prova. b. Prima del licenziamento, i lavoratori hanno il diritto di essere informati delle motivazioni e a ricevere un ragionevole periodo di preavviso. Essi hanno il diritto di accedere a una risoluzione delle controversie efficace e imparziale e, in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto di ricorso, compresa una compensazione adeguata.”.

 

46. Art. 10: “…b. lavoratori hanno diritto a un ambiente di lavoro adeguato alle loro esigenze professionali e che consenta loro di prolungare la partecipazione al mercato del lavoro…”.

 

47. Art. 15: “a. I lavoratori dipendenti e i lavoratori autonomi in pensione hanno diritto a una pensione commisurata ai loro contributi e che garantisca un reddito adeguato…..”.

 

 

C. ILLUSTRAZIONE DEI MOTIVI DEL RINVIO PREGIUDIZIALE.

 

48. L’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 determina conseguenze di vario tipo, che il Collegio dubita non essere conformi alle norme europee sopra ricordate ed ai principi generali che da esse possono farsi discendere.

 

49. Preliminarmente, tuttavia, il Collegio ritiene di dover chiarire alla Corte le ragioni che inducono ad affermare la sussistenza di un interesse transfrontaliero e, quindi, la competenza della Corte a valutare se l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, sia o meno conforme al diritto europeo.

 

50. Sussiste un interesse transfrontaliero, ad avviso del Collegio, per la ragione – cui già si è accennato – che ormai il diritto interno italiano è indirizzato nel senso di riconoscere a tutti i cittadini dell’Unione la possibilità di accedere ad impieghi o incarichi pubblici, anche di livello estremamente elevato, segnatamente di livello dirigenziale, con la sola eccezione per gli impieghi ed incarichi che comportino l’esercizio di potestà pubbliche: si tratta, dunque, di una apertura di notevole rilievo ed importanza pratica. Tenuto conto di ciò, della natura non transitoria della norma, e considerato che già oggi, e comunque in avvenire, è possibile che cittadini della Unione percepiscano un trattamento pensionistico erogato da un ente previdenziale italiano, per aver lavorato per molti anni in Italia, è possibile affermare che è concreta l’ipotesi che un cittadino della Unione possa venire a trovarsi nella situazione di dover scegliere tra il rinunciare ad un incarico o impiego pubblico presso una amministrazione italiana, ovvero di accettarlo, o di proseguirlo, a condizioni economiche significativamente deteriori - quando non irrisorie o persino nulle - rispetto a quelle che possono considerarsi adeguate, per essere riconosciute a tutti gli altri lavoratori che svolgono attività identica.

 

51. Si deve inoltre considerare che l’art. 1, comma 489, della L. 147/2013 è in grado di incidere, riducendola, sulla possibilità che i cittadini della Unione hanno di accedere agli impieghi ed incarichi pubblici di cui si è detto al paragrafo che precede: le amministrazioni italiane, infatti, potrebbero rivelarsi inclini a privilegiare il conferimento di incarichi ed impieghi a favore di coloro che già godono di un trattamento pensionistico erogato da un ente pubblico italiano e che, proprio in applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. 147/2013, esse non sono tenute a remunerare con lo stipendio generalmente riconosciuto ai lavoratori che esercitano identica attività, potendo viceversa contare su un notevole risparmio di risorse, tanto più notevole ed evidente ove il soggetto sia chiamato ad esercitare più di un incarico o impiego, anche di elevato livello. Tale considerazione consente di evidenziare immediatamente una delle incongruenze indotte dalla norma citata, la quale, al fine di perseguire il contenimento della spesa gravante sulla finanza pubblica e a dispetto del dichiarato intento di disincentivare il cumulo, su un medesimo soggetto, di più incarichi o impieghi, in realtà è idonea a perseguire esattamente l’opposto risultato, e cioè la convergenza, su un soggetto già titolare di trattamento pensionistico, di altri incarichi o impieghi pubblici, che rimangono in tal modo sottratti al mercato del lavoro. Da questo punto di vista l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 evidenzia, ad avviso del Collegio, non conformità a quelle, tra le norme europee sopra ricordate, che affermano la necessità di incentivare un livello occupazionale elevato e duraturo, la mobilità professionale, la transizione verso forme di lavoro a tempo indeterminato e pari opportunità in materia di occupazione.

 

51.1. In realtà questo “effetto collaterale” dovrebbe essere, teoricamente, scongiurato dall’obbligo che le amministrazioni pubbliche hanno di espletare procedure ad evidenza pubblica per selezionare tanto i destinatari di incarichi professionali che il personale da assumere con lavoro di tipo subordinato. La gratuità del lavoro svolto in applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, non dovrebbe però naturalmente costituire criterio di affidamento di un incarico professionale né di selezione di un dipendente, in applicazione del principio di par condicio dei partecipanti alla selezione. Tuttavia è innegabile il vantaggio che consegue una amministrazione nell’assumere o nel conferire un incarico professionale avvalendosi di significative riduzioni sulla retribuzione, e quindi non si può escludere che le amministrazioni cerchino di sottrarsi all’obbligo di selezionare il destinatario di un certo incarico o impiego proprio al fine di conseguire l’indicato risparmio di costi.

 

51.2. E’ anche utile ricordare che la Corte di Giustizia UE, con sentenza resa in causa C-70/95, ha già riconosciuto che gli artt. 52, 58, 85 e 86 del Trattato CE non ostano ad una normativa nazionale che consente di affidare solo ad operatori privati che agiscono senza fini di lucro l’affidamento di servizi di natura sociale-assistenziale, corrispondendo agli stessi solo un rimborso spese.

 

51.3. Il Collegio ritiene, dunque, che la norma in esame, ammettendo la possibilità di ricorrere alla competenza e professionalità di determinati soggetti a titolo in tutto o in parte gratuito, possa spingere verso prassi o verso evoluzioni della legislazione italiana tendenti a consentire alle amministrazioni italiane di avvalersi con maggior libertà della collaborazione di tali soggetti, segnatamente senza ricorrere a procedure ad evidenza pubblica. Tale evenienza, ove pure fossero superati i dubbi di non conformità alle norme europee sulla concorrenza – come nel caso esaminato dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza C-70/95 – sarebbe idonea a precludere l’accesso a determinate posizioni da parte di lavoratori non già titolari di trattamento pensionistico, come tali esclusi dalla sfera di applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013. Da questo punto di vista l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, costituisce norma idonea, nel presente ed in avvenire, a rendere più difficile l’accesso a determinati impieghi ed incarichi pubblici per coloro che non sono titolari di un trattamento pensionistico erogato da un ente pubblico.

 

52. D’altro canto occorre considerare che l’amministrazione pubblica che svolga attività economica e sia tenuta come tale al rispetto delle norme sulla concorrenza, nel momento in cui si avvale della collaborazione di un soggetto che essa, in base ad una norma dello Stato, non è tenuta a retribuire nella misura ordinariamente stabilita, consegue un risparmio di costi che potrebbe integrare un aiuto di Stato concesso in violazione degli artt. 106 e 107, comma 1, TFUE, il quale aiuto non rientrerebbe in alcuna delle deroghe previste dall’art. 107 TFUE, e non risulta neppure autorizzato ai sensi degli artt. 107, comma 2, 109 e 108, comma 3, TFUE.

 

52.1. Il Collegio non ignora la vicenda di cui alla Decisione della Commissione dell’11 maggio 1999, n. 2000/128/CE, a mezzo della quale la Repubblica Italiana è stata dichiarata in infrazione per violazione dell’art. 87, paragrafo 1, del Trattato CE, in relazione all'articolo 15 della legge n. 196/1997: tale norma, al fine di incentivare l’occupazione giovanile, prevedeva degli incentivi a favore delle imprese che assumevano giovani con contratto a tempo indeterminato, e tali incentivi consistevano nella esenzione dall’obbligo di versare gli oneri sociali per un certo periodo di tempo. Tale esonero, tuttavia, era previsto solo a favore delle imprese sedenti in zone del territorio classificate come “obiettivo 1”. Con la decisione n. 2000/128/CE, quindi, la Commissione ha rilevato che lo sgravio di oneri sociali concesso alle imprese beneficiate non costituiva una misura generale applicabile alla generalità delle imprese italiane e perciò integrava un aiuto di Stato vietato dall’art. 87, paragrafo 1, del Trattato Ce nonché dall'articolo 62, paragrafo 1, dell'accordo SEE, che sarebbe stato compatibile con il mercato comune solo in presenza delle specifiche deroghe previste dal Trattato CE. Dopo aver indicato con precisione le condizioni in presenza delle quali l’aiuto in questione avrebbe potuto essere ritenuto legittimo, la Commissione ha invitato l’Italia a prendere tutti i provvedimenti necessari per recuperare presso i beneficiari gli aiuti non conformi a tali condizioni. La decisione della Commissione, impugnata dal Governo italiano, è stata ritenuta legittima dalla Corte di Giustizia con la sentenza resa in causa C-310/99.

 

52.2. Ritornando all’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, il Collegio osserva che esso di fatto consente ad una amministrazione di avvalersi della attività lavorativa di un dipendente o di un collaboratore ad un costo notevolmente ridotto, quando non irrisorio o nullo, rispetto a quello che sarebbe generalmente dovuto per lo svolgimento di tale attività. Tale riduzione del compenso dovuto si atteggia come uno sgravio poiché induce una diminuzione della spesa corrente della amministrazione; esso sgravio, tuttavia, non riguarda la generalità delle amministrazioni pubbliche, ma solo quelle che hanno la “fortuna” di potersi avvalere di collaboratori/dipendenti che già fruiscano di un trattamento pensionistico; anche l’entità dello sgravio, inoltre, non risulta uniforme, dipendendo, come già spiegato, dal trattamento pensionistico in godimento al collaboratore.

 

52.3. Ciò premesso, pare al Collegio evidente che ove l’attività lavorativa prestata dal lavoratore/collaboratore pensionato sia svolta a favore di una amministrazione che svolga attività economica, evenienza questa tutt’altro che improbabile, tenuto conto di quanto rilevato al paragrafo 17.3. a proposito del numero e della natura degli enti tenuti ad applicare la norma in esame, lo sgravio dei costi indotto dalla applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. n. 127/2013 va - come nel caso di cui alla decisione della Commissione 2000/128/CE - ad integrare un aiuto ad una impresa, aiuto che in linea di principio deve ritenersi incompatibile con il mercato comune in quanto misura non applicabile in maniera generalizzata a tutte le amministrazioni-imprese e tanto meno alle imprese private.

 

52.4. Trattasi poi di misura che non può ritenersi a priori compatibile con il mercato comune ricorrendo una delle fattispecie derogatorie indicate dagli articoli 106, 107, 108 del Trattato FUE, non potendosi riconoscere alcuna di tali deroghe. In particolare, non trova certa applicazione il c.d. “regime de minimis” di cui al Regolamento UE n. 1407/2013, che consente agli Stati Membri, senza doverne dare preventiva notifica alla Commissione, di erogare alle imprese aiuti di importo massimo non superiore a 200.000,00 euro nell’arco di tre esercizi finanziari: è agevole osservare che lo sgravio di costi che una amministrazione-impresa può conseguire in applicazione dell’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, può facilmente superare tale importo, anche per la ragione che la stessa amministrazione-impresa può avvalersi di più soggetti ai quali sia applicabile la decurtazione della retribuzione imposta dalla norma citata.

 

52.5. Per tutte le indicate ragioni il Collegio dubita che l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 sia conforme agli artt. 106 e 107 del Trattato FUE.

 

53. Sotto altro profilo desta perplessità il fatto che il legislatore italiano, pur di conseguire un risparmio della spesa pubblica, consenta a un lavoratore di rinunciare ad una parte consistente – quando non alla quasi totalità – della retribuzione che gli spetterebbe per l’attività lavorativa svolta, la quale, per tale ragione, viene prestata a titolo, in tutto o in parte, gratuito.

 

53.1. Benché la irrinunciabilità della retribuzione non sia espressamente menzionata dalla Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea né dal Pilastro europeo dei diritti sociali, e quantunque il lavoro gratuito o volontario costituisca una realtà economicamente importante ed in taluni contesti determinante ai fini del perseguimento di interessi generali (come è nel caso del lavoro volontario svolto in ambito sanitario), il Collegio non crede che esso possa essere ammesso universalmente e senza limitazione alcuna.

 

53.2. In primo luogo la rinuncia alla retribuzione dovrebbe conseguire ad una decisione assolutamente spontanea del lavoratore, mentre nel caso che qui si sta esaminando la volontà del lavoratore di fatto è stata coartata, dato che le norme sopra indicate sono entrate in vigore in costanza del loro rapporto di lavoro e sono direttamente applicabili, come sopra già precisato secondo l’interpretazione di questa Sezione come già rappresentata nell’ordinanza indicata. Il ricorrente, dunque, è stato posto di fronte alla alternativa tra il dover rinunciare alla attività di magistrato della Corte dei Conti e la rinuncia, in misura più o meno elevata, alla relativa retribuzione. Ma, astraendosi dal caso in esame, non si può non rilevare che l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 è idoneo ad incidere anche in proiezione futura, sugli incarichi e impieghi nelle pubbliche amministrazioni italiane che possano essere offerti, in avvenire, ad un soggetto titolare di trattamento pensionistico ma idoneo al lavoro, per non aver ancora raggiunto i limiti massimi di età pensionabile: un tale soggetto si troverà inevitabilmente di fronte alla necessità di scegliere tra una opportunità di lavoro, con tutti gli arricchimenti che essa comporta, e la rinuncia, in tutto o in parte, alla relativa retribuzione e dunque non esprimerà una scelta totalmente libera. Tale coartazione non è giustificabile, in particolare, con il fatto che il lavoratore sia già titolare di un trattamento pensionistico: sono ravvisabili, infatti, svariati profili di interesse pubblico e collettivo a che un soggetto possa, se non abbia già raggiunto i limiti di età, prolungare la vita attiva anche dopo aver maturato il diritto al trattamento pensionistico, ad esempio per la particolare esperienza che egli è in grado di mettere a disposizione, o perché continuando a lavorare egli continua a versare contributi previdenziali che in pratica vanno a finanziare lo stesso trattamento pensionistico che già percepisce; d’altro canto è del tutto comprensibile che un soggetto risenta l’esigenza di restare nella vita attiva, ciò che peraltro contribuisce al mantenimento del benessere suo e, indirettamente, a quello generale. Sussistendo, dunque, un interesse pubblico e particolare a che un soggetto possa mantenersi attivo nel lavoro fino a che egli non raggiunga i limiti di età, la prosecuzione dell’attività lavorativa del soggetto titolare di pensione non dovrebbe essere soggetta a misure disincentivanti o idonee a coartare la libera scelta dell’interessato.

 

53.3. In secondo luogo il Collegio sottolinea che lo svolgimento di attività lavorativa gratuita è idoneo, in mancanza di determinate garanzie per il lavoratore, a ledere il principio secondo cui deve sussistere proporzionalità tra qualità e quantità di lavoro svolto e retribuzione percepita, in special modo quando l’attività lavorativa sia caratterizzata da continuità, dalla richiesta di elevata professionalità e dalla esposizione ad elevate responsabilità, come accade per i Consiglieri della Corte dei Conti italiani. La retribuzione stabilita, dal legislatore o dalla contrattazione collettiva, a fronte di una determinata attività lavorativa, si suppone idonea a consentire al lavoratore non solo di assicurargli una vita dignitosa, ma anche di ottenere un equo compenso a fronte del sacrificio imposto alla vita personale nonché, all’occorrenza, delle responsabilità conseguenti ad eventuali errori (la retribuzione consente infatti di sostenere quantomeno il costo necessario per accendere una polizza di responsabilità civile).

 

Il lavoro svolto gratuitamente fa venir meno, allora, quella corrispondenza che normalmente sussiste tra la quantità e qualità del lavoro svolto e la retribuzione percepita, lasciando scoperto il lavoratore non solo sul fronte delle entrate necessarie a sopperire ai bisogni della famiglia, ma anche sul fronte delle eventuali responsabilità risarcitorie, responsabilità che non sono sempre agevolmente prevedibili e prevenibili e che, pertanto, possono ridondare sul lavoratore con effetti devastanti sul di lui patrimonio, non alimentato dalla giusta retribuzione.

 

Ciò premesso e considerato, il Collegio ritiene che lo svolgimento di attività lavorativa gratuita sia meritevole di tutela, e possa essere consentito, solo se assistito da una volontà espressa in piena consapevolezza e libertà da parte del lavoratore ed inoltre solo se assistito da misure tendenti a ristabilire il giusto equilibrio, tenuto conto dell’apporto e dell’arricchimento che egli fornisce al datore di lavoro espletando le proprie usuali mansioni a titolo gratuito.

 

53.4. In sostanza il Collegio dubita del fatto che, laddove un lavoratore presti il proprio consenso a lavorare a titolo gratuito, debba comunque trovare applicazione il principio di proporzionalità tra la qualità e quantità di lavoro svolto e la retribuzione percepita, principio che esprime la necessità che nell’ambito di un rapporto di lavoro sia costantemente mantenuto l’equilibrio del sinallagma e che perciò dovrebbe potersi declinare anche nel senso che, a fronte della gratuità dell’attività lavorativa, al lavoratore debbano comunque essere riconosciuti dei benefici che, in qualche modo, vadano a compensare i sacrifici ed i rischi che egli si sobbarca lavorando gratuitamente: così, ad invarianza delle mansioni svolte, al lavoro svolto gratuitamente dovrebbero fare da contraltare delle misure tendenti a sollevare il lavoratore da determinate responsabilità, ovvero a mitigarne gli effetti economici e patrimoniali. Non è un caso, del resto, che il lavoro volontario e gratuito si riscontri per lo più nello svolgimento di attività materiali, non connotate da particolari responsabilità, svolte comunque sotto la responsabilità e coordinazione di altro soggetto, quali, ad esempio, la cura e l’assistenza alle persone in stato di bisogno o le attività di protezione civile; laddove prestazioni di alta professionalità vengano rese pro bono (ad esempio nel settore della assistenza legale o sanitaria), si riscontra normalmente l’episodicità delle stesse, non disgiunta dall’esonero quantomeno dalle più gravi forme di responsabilità o dall’apprestamento di forme di assicurazione o manleva. In difetto di misure finalizzate al mantenimento di un equilibrio del sinallagma, la prestazione della attività lavorativa resa gratuitamente rischia di incidere sulla qualità ed efficienza della azione amministrativa: infatti, sia pure per ragioni di natura squisitamente psicologica, la gratuità della prestazione, specie se frutto di volontà coartata, può indurre nel lavoratore il falso convincimento di non essere passibile di responsabilità, spingendolo a decisioni incaute, e perché il lavoratore consapevole di non percepire la giusta retribuzione potrebbe produrre una prestazione di qualità inferiore a quella richiesta. Non corrisponde, dunque, né all’interesse del lavoratore né all’interesse generale che un lavoratore possa essere chiamato a svolgere incarichi o impieghi pubblici di rilievo e responsabilità previa rinuncia, in tutto o in parte, alla retribuzione. In questo senso la norma in esame appare andare in senso contrario al principio, che si può desumere dagli articoli 14 e 15, comma 1, TFUE, secondo cui l’Unione e gli Stati membri debbono promuovere il buon governo e l’efficacia della azione amministrativa, in modo da poter concretamente assolvere ai propri compiti.

 

53.5. Per tornare al caso che occupa, il Collegio constata che, a fronte della rinuncia (in tutto o in parte) alla retribuzione, imposta dall’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, alla quale il lavoratore presta consenso solo al fine di evitare l’abbandono della attività lavorativa, non è previsto alcun mutamento dell’assetto lavorativo, né in termini di orario di lavoro né, soprattutto, sul piano della quantità e qualità del lavoro richiesto e delle responsabilità che da esso conseguono. Si tratta pertanto di una norma che di fatto comporta la vanificazione del sinallagma lavorativo e con essa la violazione del principio di proporzionalità tra qualità e quantità del lavoro svolto e relativa retribuzione nonché del principio secondo cui ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro dignitose, di qualità eque e paritarie.

 

54. Il meccanismo introdotto dall’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 in combinato disposto con l’art. 23 ter, comma 1, del Decreto-Legge n. 201/2011, convertito nella L. n. 214/2011, appare inoltre tale da rendere la retribuzione non trasparente e non prevedibile. Il trattamento pensionistico nonché i compensi corrisposti da una amministrazione a fronte di una attività lavorativa sono - o dovrebbero essere - provvidenze caratterizzate da tendenziale stabilità, sicché un lavoratore titolare di trattamento pensionistico che decida di accettare un nuovo incarico da una amministrazione pubblica è in grado di stabilire se e quando il compenso percepito per tale nuova attività lavorativa subirà la decurtazione imposta dall’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013. Una tale visione non tiene però conto del fatto che il legislatore in qualsiasi momento potrebbe intervenire nuovamente anche sul massimale indicato dall’art. 23 ter, comma 1, del Decreto-Legge n. 201/2011, convertito nella L. n. 214/2011, determinandone la riduzione, ed è proprio tale improvvisa ed imprevedibile riduzione dell’importo massimo erogabile a favore di un soggetto, a carico delle finanze pubbliche, ad essere idonea ad incidere sull’equilibrio delle condizioni contrattuali relative alla nuova attività lavorativa e, soprattutto, ad incidere, vanificandole, sulle valutazioni che il lavoratore, già titolare di trattamento pensionistico, ha effettuato prima di decidere di accettare il nuovo incarico. Il che è esattamente quanto avvenuto al ricorrente nel presente giudizio. Da qui la constatazione che il combinato disposto delle norme sopra indicate avalla un sistema in cui, nei confronti di certi lavoratori, la retribuzione risulta determinata in misura non trasparente e non prevedibile anche con riferimento al futuro.

 

55. Osserva ancora il Collegio che l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 ha anche una portata discriminatoria. Esso costringe determinati lavoratori a compiere scelte rinunciatarie (e cioè: a rinunciare ad un incarico o impiego pubblico, spesso di rilievo, ovvero a rinunciare in tutto o in parte alla relativa remunerazione) in ragione del mero fatto che sono anche titolari di un trattamento pensionistico erogato da un ente previdenziale pubblico: la norma è dunque discriminatoria perché, pur nell’ambito della stessa amministrazione e/o dello stesso ufficio ed a parità di mansioni, impone tali rinunce solo a certi lavoratori, rispetto ai quali soltanto le condizioni economiche del rapporto di lavoro assumono caratteristiche differenti. Si tratta inoltre, ad avviso del Collegio, di una norma ingiustamente discriminatoria, perché le ragioni del diverso trattamento risiedono unicamente nel patrimonio personale del lavoratore. E’ ben vero che la norma opera solo nei confronti di quei lavoratori che percepiscono un trattamento a carico delle finanze pubbliche, ma è evidente che il primo presupposto su cui si fonda la norma è la disponibilità, da parte del lavoratore, di altre entrate che gli dovrebbero consentire di mantenersi secondo standard di dignità e decoro.

 

La norma di cui si discute, dunque, nella sostanza discrimina certi lavoratori solo in ragione del loro patrimonio personale, ed una simile discriminazione è, ad avviso del Collegio, difforme dalle norme europee sopra ricordate - in particolare dall’art. 21 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo - le quali vietano in generale ogni forma di discriminazione e vietano in particolare le discriminazioni fondate sul patrimonio. La discriminazione in parola, ad avviso del Collegio, è irragionevole ed ingiustificabile sol che si pensi che il trattamento pensionistico, per quanto erogato da un ente previdenziale pubblico, si suppone essere stato finanziato, almeno in parte, dallo stesso lavoratore, mediante i contributi previdenziali da quegli versati nel corso della precedente vita lavorativa, i quali avrebbero dovuto essere gestiti separatamente dall’ente previdenziale. Non si vede, dunque, per quale ragione ad un lavoratore debba essere precluso di godere, liberamente e senza onta, sia di quel trattamento pensionistico che già gli appartiene - per averlo guadagnato con l’attività lavorativa pregressa - sia della retribuzione afferente la ulteriore attività svolta dopo la maturazione del diritto alla pensione.

 

La contraria affermazione, portata ad ulteriori conseguenze, indurrebbe in breve ad affermare che a qualsiasi soggetto titolare di un patrimonio personale che gli consenta di mantenersi può legittimamente essere richiesto, da una amministrazione pubblica, di prestare attività lavorativa gratuita, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche dell’attività stessa, al solo fine di alleggerire gli oneri per spese correnti di detta amministrazione. Non si può non rilevare, allora, che una simile impostazione scoraggia l’aspirazione che un soggetto può avere ad implementare il proprio patrimonio esercitando, anche nella “terza età”, una nuova attività lavorativa.

 

55.1. Il Collegio rileva, inoltre, che il Trattato sulla Unione Europea si fonda su una economia di mercato fortemente competitiva (art. 3, comma 3), sull’incoraggiamento della iniziativa privata e del lavoro autonomo e sulla tutela della proprietà privata, sancita sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000 sia dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Pertanto il Collegio ritiene che una discriminazione quale quella in esame, fondata apertamente sul possesso di un patrimonio, non sia conforme al diritto della Unione, che non tende a penalizzare e reprimere la ricchezza, se non nei limiti in cui ciò sia strettamente necessario a realizzare fini di solidarietà.

 

56. A conclusione della disamina il Collegio rileva che se pure l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 abbia dichiarate finalità di contenimento della spesa pubblica e, in questo senso, dovrebbe contribuire alla osservanza, da parte della Repubblica Italiana, del principio enunciato dall’art. 126 TFUE, secondo cui gli Stati Membri debbono evitare disavanzi pubblici eccessivi, tuttavia il Collegio non ritiene che questa sola finalità giustifichi una deroga alle sopra ricordate norme e principi della Unione Europea, tanto più considerando che il contenimento della spesa pubblica non possa necessariamente avvenire attraverso la disapplicazione di tali norme e principi rinvenibili nella legislazione eurounitaria, e tanto meno attraverso la misura esaminata nei paragrafi che precedono, che obbligano una amministrazione a non corrispondere ad un lavoratore la giusta retribuzione anche se tale amministrazione non sia la stessa che eroga il trattamento pensionistico e sia magari una amministrazione dotata di completa autonomia di bilancio. Da questo punto di vista, anche riguardata come norma di contenimento della spesa pubblica, non si comprende quale possa essere la sua reale ed effettiva funzionalità - del resto non dimostrata, tant’è vero che l’approvazione della norma non risulta accompagnata dalla relazione sull’impatto economico da essa indotto - se non appunto quella di offrire alle amministrazioni pubbliche un mezzo per assumere personale qualificato ad un costo irrisorio, pervenendo inoltre a tenere bloccate posizioni lavorative interessanti alle quali potrebbe aspirare anche un lavoratore, senza che a ciò faccia da contraltare un apprezzabile interesse pubblico.

 

D. FORMULAZIONE DEI QUESITI.

57. Sulla base di quanto osservato il Collegio formula i seguenti quesiti interpretativi:

 

a) per le ragioni illustrate, in particolare, ai paragrafi 51 – 51.3 della motivazione, si chiede alla Corte se l’articolo 3, comma 2 e 3, TUE, gli articoli 9, 45, 126, 145, 146, 147, 151, comma 1, TFUE, l’articolo 15, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, gli articoli 3 e 5 del Pilastro europeo dei diritti sociali, ostino ad una disposizione nazionale, quale è l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, nella misura in cui tale norma incoraggia le amministrazioni pubbliche italiane a preferire, nelle assunzioni o nel conferimento di incarichi, solo lavoratori già titolari di trattamento pensionistico erogato da enti previdenziali pubblici italiani;

 

b) per le ragioni illustrate, in particolare, ai paragrafi 52 - 52.4 della motivazione, si chiede alla Corte se gli articoli 106, comma 1, e 107 TFUE ostino ad una disposizione nazionale, qual è l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, che consente alle amministrazioni pubbliche italiane che svolgono attività economica, soggette al rispetto degli articoli 101 e seguenti TFUE, di avvalersi della attività lavorativa di soggetti che abbiano consentito a rinunciare, in tutto o in parte, alla relativa retribuzione, così conseguendo un risparmio di costi idoneo ad avvantaggiare l’amministrazione medesima nella competizione con altri operatori economici;

 

c) per le ragioni illustrate, in particolare, al paragrafo 53.2 della motivazione, si chiede alla Corte se gli articoli 2, 3, 6 TUE, gli articoli 126 e 151, comma 1, TFUE, l’art. 15, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, gli articoli 3 e 7, lett. a), del Pilastro europeo dei diritti sociali, ostino ad una disposizione nazionale, qual è l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, che, nelle condizioni indicate dalla norma, ammette che un lavoratore possa esprimere validamente la rinuncia, totale o parziale, alla retribuzione, pur essendo tale rinuncia finalizzata esclusivamente a evitare la perdita della attività lavorativa;

 

d) per le ragioni illustrate, in particolare, ai paragrafi 53.3 – 53.5 della motivazione, si chiede alla Corte se gli articoli 2, 3 e 6 TUE, gli articoli 14, 15, comma 1, 126 e 151, comma 1, TFUE, l’art. 31, comma 1, della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, gli articoli 5, 6 e 10 del Pilastro europeo dei diritti sociali ostino ad una disposizione nazionale, qual è l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, che, nelle condizioni indicate dalla norma, consente ad un lavoratore di prestare, a favore di una amministrazione pubblica italiana, attività lavorativa rinunciando in tutto o in parte al relativo compenso, anche se a fronte di tale rinuncia non sia previsto alcun mutamento dell’assetto lavorativo, né in termini di orario di lavoro né sul piano della quantità e qualità del lavoro richiesto e delle responsabilità che da esso conseguono, e quindi anche se con la rinuncia a parte della retribuzione si determina una significativa alterazione del sinallagma lavorativo, sia dal punto di vista della proporzionalità tra la retribuzione e la qualità e quantità del lavoro svolto, sia perché in tal modo il lavoratore finisce per essere costretto a prestare la propria attività in condizioni lavorative non ottimali, che predispongono ad un minor impegno lavorativo e costituiscono il presupposto di una azione amministrazione meno efficiente;

 

e) per le ragioni illustrate, in particolare, al paragrafo 54 della motivazione, si chiede alla Corte se gli articoli 2, 3 e 6 TUE, gli articoli 126 e 151, comma 1, TFUE, l’articolo 15, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea e l’art. 6 del Pilastro europeo dei diritti sociali ostino al combinato disposto degli articoli 1, comma 489, della L. n. 147/2013 e 23 ter, comma 1, del Decreto-Legge n. 201/2011, convertito nella L. n. 214/2011, nella misura in cui tali norme consentono/impongono ad una amministrazione pubblica italiana, anche in pendenza del rapporto di lavoro o di collaborazione, di decurtare la retribuzione spettante al lavoratore in dipendenza del variare del massimale retributivo al quale fa riferimento il predetto articolo 23 ter, comma 1, del Decreto-Legge n. 201/2011, convertito nella L. n. 214/2011, e quindi in conseguenza di un evento non prevedibile e comunque in applicazione di un meccanismo di non immediata comprensione ed a dispetto delle informazioni fornite al lavoratore all’inizio del rapporto di lavoro;

 

f) per le ragioni illustrate, in particolare, ai paragrafi 55 e 55.1. della motivazione, si chiede alla Corte se gli articoli 2, 3 e 6 TUE, gli articoli 8 e 126 TFUE, gli articoli 20 e 21 della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea e gli articoli 10 e 15 del Pilastro europeo dei diritti sociali ostino ad una disposizione nazionale, qual è l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013, che, nelle condizioni indicate dalla norma, impone alle amministrazioni pubbliche italiane di ridurre i compensi spettanti ai propri dipendenti e collaboratori che siano titolari di un trattamento pensionistico erogato da un ente previdenziale pubblico, penalizzando tali lavoratori per ragioni connesse alla disponibilità di altre entrate patrimoniali, così disincentivando il prolungamento della vita lavorativa, l’iniziativa economica privata e la creazione e la crescita dei patrimoni privati, che costituiscono comunque una ricchezza ed una risorsa per la nazione.

 

E. RILEVANZA DELLA QUESTIONE CON RIFERIMENTO AL CASO DI SPECIE.

58. Ove l’art. 1, comma 489, della L. n. 147/2013 fosse ritenuto non conforme alle indicate norme europee, il Collegio non potrebbe che disapplicarlo nella sua interezza, e ciò determinerebbe l’accoglimento totale del ricorso, con riconoscimento della piena retribuzione già spettante al ricorrente per l’attività di magistrato della Corte dei Conti. La norma italiana sottoposta alla attenzione della Corte si applica, infatti, indistintamente a qualsiasi tipologia di incarico o impiego pubblico, anche a quelli che comportano lo svolgimento di attività pubblicistiche, come l’attività di magistrato della Corte dei Conti svolta dal ricorrente. Pertanto, la ritenuta difformità dal diritto europeo di tale norma, sia pure determinata da ragioni che trascendono le caratteristiche del rapporto di pubblico impiego che viene in considerazione nel presente giudizio, determina comunque la necessità di disapplicarla in toto anche ai fini della definizione del presente giudizio.

 

59. Si segnala, inoltre, che innanzi questa stessa Sezione I del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio-Roma, oltre al giudizio indicato in epigrafe, pendono altri 10 ricorsi di contenuto identico (aventi i numeri di Ruolo Generale del 2014: 11437, 11438, 12157, 12158, 12159, 12161, 12162, 12164, 12165 e 16623). Innanzi la Sezione II di questo Tribunale pendono altri 21 ricorsi, attualmente in attesa di decisione, proposti da magistrati del Consiglio di Stato ed aventi ad oggetto la medesima questione di diritto (aventi i numeri di Ruolo Generale del 2014: 10904, 10905, 10906, 10907, 10908, 10910, 10911, 10912, 10914, 10965, 10966, 10967, 10968, 10969, 10971, 10972; ed inoltre i ricorsi del Ruolo Generale 2016: 3962, 3963, 3965, 3967, 3968). Si segnala inoltre, per comodità della Corte, che questa Sezione, in diversa composizione del Collegio, con ordinanza pubblicata in pari data, ha sospeso anche il giudizio n. 11438/2014 di Ruolo Generale, pure esso chiamato alla udienza pubblica del 3 ottobre 2018, ed ha sottoposto alla Corte di Giustizia la medesima questione pregiudiziale. Il duplice rinvio pregiudiziale è stato reputato utile ed opportuno al fine di fornire alla Corte di Giustizia più precisi elementi informativi e di mettere la stessa in grado di comprendere appieno l’impatto della norma che si sottopone alla attenzione della Corte: dagli atti del giudizio n. 11438/2014 risulta, infatti, che gli otto ricorrenti hanno subìto una decurtazione del rispettivo trattamento che in sei casi è tale da elidere completamente il trattamento retributivo percepito per l’attività di magistrati, in un caso è pari a circa il 85% della retribuzione, ed in altro caso ancora è pari al 95% della retribuzione.

 

F. CONCLUSIONE.

60. Ai sensi delle Raccomandazioni si dispone che la Segreteria di questa Sezione trasmetta alla cancelleria della Corte di Giustizia, mediante plico raccomandato, il fascicolo di causa.

 

61. Visto l’art. 79 cod. proc. amm. e il punto 23 delle Raccomandazioni, il presente giudizio viene sospeso nelle more della definizione del procedimento incidentale di rinvio e ogni ulteriore decisione, anche in ordine al regolamento delle spese processuali, è riservata alla pronuncia definitiva, una volta ricevuta la notificazione della decisione emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (v. il punto 34 delle Raccomandazioni).

 

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe:

a) rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale indicata in motivazione;

b) dispone la trasmissione, a cura della Segreteria, alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea della presente ordinanza e di copia degli atti indicati in motivazione, nonché di ogni ulteriore atto eventualmente richiesto, in futuro, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea;

c) sospende il presente giudizio fino alla notificazione a questo TAR, da parte della Cancelleria della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, della decisione emessa dalla suddetta Corte.

Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 3 ottobre 2018 e 7 novembre 2018, con l'intervento dei magistrati:

Carmine Volpe,          Presidente

Roberta Cicchese,       Consigliere

Roberta Ravasio,        Consigliere, Estensore

 

L'ESTENSORE                     IL PRESIDENTE

Roberta Ravasio                     Carmine Volpe

                       

IL SEGRETARIO

 

 

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