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Consiglio di Stato, Sez. III, 25/2/2020 n. 1385
Sulla natura pubblica della società in house.

L'art. 5, d.lgs. n. 50 del 2016, è una formulazione che rimanda ad una successiva norma di legge che espressamente prescriva la partecipazione dei privati alla società in house e, soprattutto, che ne stabilisca le modalità di partecipazione e di scelta del socio. Tale norma pone una previsione di carattere generale e, dunque, nell'ordinamento interno, fino a quando non ci sarà una legge che attui tale previsione, deve ritenersi preclusa ai privati la partecipazione alla società in house dato che, diversamente opinando, non sapremmo né in che percentuale possano partecipare, né come debbano essere scelti. Questo è ciò che porta a distinguere le società in house dalle società miste, per le quali è disciplinata una partecipazione mista di capitale pubblico-privato. Pertanto, non è erroneo sostenere che la società in house è sempre pubblica.


Materia: appalti / disciplina
Pubblicato il 25/02/2020

N. 01385/2020REG.PROV.COLL.

N. 02819/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2819 del 2019, proposto dal dottor Pierfrancesco Fiorella, rappresentato e difeso dall’avvocato Cesare Borgia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,

contro

l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale – I.N.P.S., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gaetano De Ruvo, Angelo Guadagnino, Samuela Pischedda e Lucia Policastro e con questi elettivamente domiciliato presso i propri uffici legali in Roma, Via Cesare Beccaria, n. 29;

nei confronti

del signor Giuliano Zamboni, non costituito in giudizio,

per la riforma

della sentenza, resa in forma semplificata, del Tar Lazio, sede di Roma, sez. III-quater, n. 1090 del 29 gennaio 2019, notificata in pari data, che ha rigettato il ricorso proposto avverso la prova di ammissione somministrata ai candidati del concorso a 967 posti di consulente protezione sociale nei ruoli del personale dell’I.N.P.S., area C, posizione economica C1.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’appello incidentale depositato dall’I.N.P.S. in data 13 maggio 2019;

Viste le memorie difensive dell’I.N.P.S., depositate in date 18 novembre 2019 e 12 dicembre 2019;

Vista la memoria di replica del dottor Fiorella del 27 dicembre 2019;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 gennaio 2020 il Cons. Giulia Ferrari e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Il dottor Pierfrancesco Fiorella ha partecipato al concorso per titoli ed esami, bandito dall’I.N.P.S. in data 27 aprile 2018, a 967 posti di consulente protezione sociale nei ruoli del personale dell’I.N.P.S., area C, posizione economica C1.

La procedura concorsuale prevedeva una prova preselettiva, due prove scritte da sostenersi nello stesso giorno, la valutazione dei titoli ed una prova orale. Le prove scritte, indicate nel bando quali prima e seconda prova, avevano ad oggetto due distinte verifiche con 60 quesiti e 5 quiz di riserva, ciascuno per le cinque materie oggetto della prova, da utilizzare in caso di annullamento di uno dei 60 quesiti.

In data 25 settembre 2018, sul sito web dell’I.N.P.S. sono stati pubblicati gli esiti di tali prove e il dottor Fiorella non raggiungeva la soglia minima di 21 punti nella prima verifica, conseguendo il punteggio di 19,50 punti, mentre raggiungeva tale soglia nella seconda prova scritta, ottenendo 21 punti.

Alla prima prova avrebbe risposto erroneamente al quesito n. 35 recante la domanda: “una società in house: a) Non ha un organo amministrativo autonomo (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); b) Si occupa esclusivamente di gestione immobiliare; c) È sempre privata; d) È sempre pubblica (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.)”; al quesito n. 20 recante la domanda: “secondo quanto stabilito dal CCNL, il dipendente non in prova, assente per malattia, ha diritto alla conservazione del posto per un periodo di: a) otto mesi; b) dodici mesi; c) ventiquattro mesi (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); d) diciotto mesi (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.)”; al quesito n. 40 recante la domanda: “secondo quanto previsto dall’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 e s.m.i., chi definisce il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni? a) la stessa Pubblica amministrazione (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.); b) il Ministero dell’Interno; c) il Governo (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); d) il Ministero della Pubblica amministrazione”; al quesito n. 53 recante la domanda: “quale delle seguenti affermazioni inerenti al periodo di prova è corretta? a) compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.); b) la facoltà di recesso dal contratto di prova può avvenire in qualunque momento anche prima del termine stabilito dal contratto (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); c) l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova può avvenire anche in forma orale; d) durante il periodo di prova solo il prestatore di lavoro ha diritto al recesso”.

2. Avverso l’esito della prova scritta ha proposto ricorso al Tar Lazio che, con sentenza della sez. III-quater, n. 1090 del 29 gennaio 2019, lo ha respinto. In particolare, ha ritenuto infondate le censure avverso i quesiti nn. 35, 20 e 53 e fondata la censura avverso il quesito n. 40. L’attribuzione del punteggio derivante dall’accoglimento della censura avente ad oggetto la domanda sul codice di comportamento, pari a 1, non consentirebbe in ogni caso al ricorrente, che ha riportato la votazione di 19,5 in una delle due prove scritte, di conseguire nella stessa i 21 punti necessari, secondo il bando, per essere ammesso alla prova orale.

3. La citata sentenza n. 1090 del 29 gennaio 2019 è stata impugnata con appello notificato il 30 marzo 2019 e depositato il successivo 1° aprile, con il quale il dottor Fiorella ha dedotto:

quanto al quesito n. 35 – inerente alle società in house – che la sottoposizione di quest’ultime rispetto alle altre s.p.a. non farebbe venir meno la loro natura privatistica; le società in house resterebbero comunque società private soggette a particolare controllo dell’ente pubblico costituente; la partecipazione privata ad una società in house sarebbe ammissibile, a patto che il controllo privatistico non risulti decisivo sicché, nell’opzione ritenuta corretta dall’appellato “è sempre pubblica”, la presenza dell’avverbio “sempre” renderebbe la risposta non corretta;

quanto al quesito n. 20 – inerente alla conservazione del posto di lavoro per il dipendente non in prova, assente per malattia – il mancato inserimento dell’aggettivo “pubblico” affiancato al termine “dipendente” avrebbe permesso di indicare come corretta una risposta prevista all’interno di altri CCNL, non potendo dedurre che il CCNL di riferimento fosse quello ascrivibile al pubblico impiego;

quanto al quesito n. 53 – inerente al periodo di prova – la mancata esclusione all’interno del quesito del caso eccezionale, previsto dall’art. 2096, co. 3, c.c., permetterebbe di considerare come corrette sia l’opzione indicata dall’I.N.P.S., sia quella indicata dal dottor Fiorella.

L’appellante ha impugnato, altresì, il capo relativo alle spese del procedimento. La complessità delle materie trattate e la particolarità di tale concorso pubblico avrebbero giustificato la compensazione delle spese.

4. Si è costituito in giudizio l’I.N.P.S., che ha sostenuto l’infondatezza dell’appello.

5. Ha proposto, altresì, appello incidentale condizionato – depositato in data 13 maggio 2019 – avverso il capo 4.2. della sentenza, qualora l’attribuzione del punteggio, a seguito dell’accoglimento dei motivi di appello principale, consentisse al dottor Fiorella di conseguire i 21 punti necessari, secondo il bando, per essere ammesso alla prova orale.

Il quesito n. 40 andrebbe riferito all’unico codice di comportamento dei dipendenti di tutte le Pubbliche amministrazioni, che non potrebbe essere confuso con i codici di comportamento specifici o integrativi delle singole pubbliche amministrazioni, che comunque avrebbero come base quello definito dal Governo.

6. Il dottor Giuliano Zamboni non si è costituito in giudizio.

7. Con ordinanza cautelare n. 2396 del 17 maggio 2019 è stata respinta l’istanza di sospensione della sentenza del Tar Lazio, sede di Roma, n. 1090 del 29 gennaio 2019.

8. Alla pubblica udienza del 23 gennaio 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Come esposto in narrativa, il dottor Fiorella nella prima delle due prove scritte ha conseguito il punteggio di 19,5/30 per non aver risposto correttamente a quattro quesiti. Non ha quindi raggiunto la soglia minima di 21/30 (ottenuta invece alla seconda prova) necessaria per accedere alle prove orali.

In particolare, non sono state considerate risposte esatte quelle relative ai quesiti nn. 20, 35, 40 e 53.

Con l’impugnata sentenza n. 1090 del 29 gennaio 2019 la sez. III quater del Tar Lazio ha accolto il solo motivo relativo alla risposta al quiz n. 40 (Codice di comportamento), attribuendo erroneamente 1 punto in luogo di 0,50 punti previsti per ogni risposta corretta ma respingendo il ricorso in applicazione della c.d. prova di resistenza.

La sentenza è stata impugnata dal dottor Fiorella sia per la parte relativa alla reiezione dei motivi rivolti avverso l’erronea valutazione delle risposte date ai quesiti nn. 20, 35 e 53 che per il capo relativo alla condanna alle spese di giudizio (liquidate in € 1.000,00), nonché dall’I.N.P.S. con appello incidentale, per il capo che ha considerato erronea la valutazione della risposta data al quesito n. 40. Tale appello è dichiaratamente condizionato all’ipotesi in cui la Sezione, accogliendo in tutto o in parte i motivi dell’appello principale proposti avverso la valutazione dei quesiti nn. 20, 35 e 53, attribuisca un punteggio complessivo all’appellante che lo porterebbe alla soglia minima di 21/30.

2. Come chiarito sub 1, all’appellante sono state considerate, sia dall’I.N.P.S. che dal Tar, errate le risposte date ai quesiti 20, 35 e 53.

Il quesito n. 20 reca la domanda: “secondo quanto stabilito dal CCNL, il dipendente non in prova, assente per malattia, ha diritto alla conservazione del posto per un periodo di: a) otto mesi; b) dodici mesi; c) ventiquattro mesi (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); d) diciotto mesi (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.)”.

Il Collegio ritiene che giustamente sia stata considerata corretta la risposta d), nel senso che il periodo di comporto fosse di diciotto mesi. È ben vero che, come dice l’appellante, il bando prevedeva, tra le materie oggetto della prima prova scritta, “diritto del lavoro e legislazione sociale”, con la conseguenza che in teoria la domanda poteva essere riferita anche al rapporto di lavoro privatistico, ma in concreto ciò avrebbe determinato la necessità di specificare a quale Contratto ci si riferisse, stante la non univocità del periodo di comporto, come è, invece, per il pubblico impiego privatizzato.

Il quesito n. 35 reca la domanda: “una società in house: a) non ha un organo amministrativo autonomo (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); b) si occupa esclusivamente di gestione immobiliare; c) è sempre privata; d) è sempre pubblica (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.)”.

Ha sostenuto l’appellante che la domanda sarebbe generica e si presterebbe a diverse soluzioni corrette tra quelle proposte. In particolare, ha ritenuto che la sottoposizione delle società in house rispetto alle altre s.p.a. non farebbe venir meno la loro natura privatistica; le società in house resterebbero comunque società private soggette a particolare controllo dell’ente pubblico costituente; la partecipazione privata ad una società in house sarebbe ammissibile, a patto che il controllo privatistico non risulti decisivo.

I rilievi sono fondati, quanto meno nel senso dell’equivocità della risposta indicata come esatta dall’I.N.P.S., la quale non può essere considerata in assoluto ed esclusivamente corretta.

Ed invero, quanto alla natura giuridica delle società in house e all’autonomia dei suoi organi, possono annoverarsi due orientamenti, compendiati nel parere del Cons. St., comm. spec., n. 438 del 16 marzo 2016.

Un primo orientamento, seguito dalla prevalente giurisprudenza della Corte di Cassazione, ritiene che la società in house non sia un vero e proprio soggetto giuridico mancando il requisito dell’alterità soggettiva rispetto all’amministrazione pubblica. In particolare, si è rilevato che “ciò che davvero è difficile conciliare con la configurazione della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa agiscono e per il cui tramite essa stessa agisce, è la totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale”. Ne consegue che la società in house “non pare invece in grado di collocarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna”. Essa “non è altro che una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l’affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo (….); di talché l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa”. Da qui la conclusione netta: “il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva”, con configurabilità soltanto di un patrimonio separato nell’ambito di un’unica persona giuridica pubblica (Cass. civ., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283; 10 marzo 2014, n. 5491; 26 marzo 2014, n. 7177; 9 luglio 2014, n. 15594; 24 ottobre 2014, n. 22609; 24 marzo 2015, n. 5848; Cons. St., Ad. plen., 3 marzo 2008, n. 1).

Un secondo orientamento, seguito dalla prevalente dottrina, ha rilevato, invece, come la società in house debba considerarsi una vera e propria società di natura privata dotata di una sua autonoma soggettività giuridica. L’art. 2331, comma 1, c.c. prevede che con l’iscrizione nel registro delle imprese «la società acquista personalità giuridica». Sussiste, pertanto, anche l’esigenza di tutelare i terzi e i creditori che, instaurando rapporti con la società, lo fanno sul presupposto che essa abbia una propria autonoma soggettività. In questa prospettiva, la ricostruzione della Cassazione viene criticata e in ogni caso circoscritta, alla luce di alcune affermazioni contenute nella stessa sentenza, soltanto al tema del riparto di giurisdizione.

Va rilevato, altresì, che il d.lgs. n. 175 del 2016, T.U. in materia di società a partecipazione pubblica – applicabile ratione materiae, dato che il concorso è stato bandito dall’I.N.P.S. in data 27 aprile 2018 – conferma che la risposta fornita dall’Amministrazione come corretta, non può essere considerata tale in assoluto. Il T.U. ha, infatti, ricondotto la disciplina delle società a partecipazione pubblica all’ordinario regime civilistico (art. 1, comma 3, T.U.) ed ha precisato che le società in house sono regolate dalla medesima disciplina che regolamenta, in generale, le società partecipate, ad eccezione, quanto alle prime, della giurisdizione della Corte dei Conti per il danno erariale causato dai loro amministratori e dipendenti (Cass. civ., S.U., 1° dicembre 2016, n. 24591).

Quanto, infine, al tema della partecipazione dei privati alla società in house – richiamato dall’appellante a sostegno delle proprie tesi – risultano necessarie alcune precisazioni.

Con la direttiva 2014/24/UE, è stata ammessa una forma di partecipazione di capitali privati all’in house, sussistendone due connessi presupposti. Il primo è che le partecipazioni siano “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali”. Il secondo è che deve trattarsi di “forme di partecipazione di capitali che non comportano controllo o potere di veto” e che “non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.

In attuazione di tale direttiva, l’art. 5, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, ha ammesso la possibilità di forme di partecipazioni private, purché previste dalla legislazione nazionale. L’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 175 del 2016, considera ammessa una partecipazione al capitale sociale dei privati a condizione che la stessa sia prescritta da una disposizione di legge nazionale.

La differenza semantica tre le due disposizioni nazionali (previste-prescritta) ha fatto ritenere che non occorra che la partecipazione sia “prescritta” ma è sufficiente che sia consentita.

Tali considerazioni – che pure hanno un qualche fondamento – non considerano, però, il dato positivo, peraltro conseguente ad una fonte (il Testo unico sulle società a partecipazione pubblica) che si pone quale equiordinata alla precedente (Codice dei contratti) ma prevalente in quanto lex posterior. D’altro canto l’espressione “prescritta” è esattamente quella contenuta nella direttiva comunitaria.

Dunque, secondo l’interpretazione data da questo Giudice, la norma in esame non ha inteso autorizzare in generale la partecipazione dei privati ma ha rinviato alle specifiche disposizioni di legge che le “prevedono”. Tale forma di rinvio deve però essere fatto a disposizioni di legge che “prescrivono” e dunque impongono la partecipazione e non anche a quelle che genericamente “prevedono” la partecipazione. La prescrizione deve attuarsi mediante una chiara esplicitazione delle ragioni che giustificano la partecipazione di privati nella compagine societaria (Cons. St., comm. spec., n. 438 del 16 marzo 2016; id., sez. I, 7 maggio 2019, n. 1389).

In sintesi, da ciò si ricava che l’art. 5, d.lgs. n. 50 del 2016, è una formulazione che rimanda ad una successiva norma di legge che espressamente prescriva la partecipazione dei privati alla società in house e, soprattutto, che ne stabilisca le modalità di partecipazione e di scelta del socio. Tale norma pone una previsione di carattere generale e, dunque, nell’ordinamento interno, fino a quando non ci sarà una legge che attui tale previsione, deve ritenersi preclusa ai privati la partecipazione alla società in house dato che, diversamente opinando, non sapremmo né in che percentuale possano partecipare, né come debbano essere scelti. Questo è ciò che porta a distinguere le società in house dalle società miste, per le quali è disciplinata una partecipazione mista di capitale pubblico-privato.

Alla luce delle considerazioni suddette, il Collegio ritiene che possa considerarsi corretta sia la risposta data dall’appellante, sia quella indicata dall’Amministrazione.

E, infatti, non è erroneo sostenere che la società in house è sempre pubblica.

I recenti sviluppi normativi non hanno impedito, alla prevalente giurisprudenza, di continuare ad equiparare la società in house ad un “ufficio interno” dell’ente pubblico che l’ha costituita e, dunque, di escludere un rapporto di alterità sostanziale tra l’ente e la società. La configurazione delle società in house alla stregua di articolazioni interne alla P.A. giustifica che l’attività dell’ente e dei suoi organi non sia riconducibile ad un soggetto privato dotato di una autonoma soggettività ma resti sostanzialmente imputata alla P.A. medesima.

Non è, altresì, erroneo sostenere che la società in house non abbia un organo amministrativo autonomo.

Infatti, chi sostiene la natura pubblica della società in house ritiene, altresì, che i vincoli gerarchici cui sono assoggettati gli organi della società nei confronti dell’Amministrazione di riferimento impediscono che questi siano investiti di un mero munus privato, rendendo invece configurabile un vero rapporto di servizio. (v. da ultimo, Cons. St., sez. I, 7 maggio 2019, n. 1389, Cass. civ. S.U., 27 dicembre 2019, n. 34471; id. 11 settembre 2019, n. 22712; 21 giugno 2019, n. 16741).

L’ambiguità delle risposte in questione comporta che la riposta data al quiz n. 35 non può essere considerata erronea.

Infine, il quesito n. 53 reca la domanda: “quale delle seguenti affermazioni inerenti al periodo di prova è corretta? a) compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro (indicata come opzione corretta dall’I.N.P.S.); b) la facoltà di recesso dal contratto di prova può avvenire in qualunque momento anche prima del termine stabilito dal contratto (indicata come risposta corretta dal dottor Fiorella); c) l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova può avvenire anche in forma orale; d) durante il periodo di prova solo il prestatore di lavoro ha diritto al recesso”.

Non è dubbio che la risposta corretta sia quella indicata dall’Amministrazione, e cioè che l’assunzione diventa definitiva e il periodo svolto in prova si computa agli effetti dell’anzianità acquista dal dipendente.

La risposta indicata dall’appellante, infatti, non risponde sempre al vero.

L’art. 2096 cod. civ., che disciplina l’assunzione in prova, prevede all’ultimo comma che “Compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro”.

Al terzo comma, invece, prevede sì quanto indicato dal dottor Fiorella come risposta corretta, e cioè che “Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità” ma all’ultimo alinea individua una deroga a detta possibilità, disponendo che “Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine”.

Dunque la risposta indicata come corretta dal dottor Fiorella poteva realmente considerarsi tale solo se la domanda fosse stata posta nel senso che “nel caso in cui la prova sia stabilita per un tempo minimo necessario, quale delle seguenti affermazioni inerenti al periodo di prova sarebbe corretta”. Non essendo stata anteposta la precisazione relativa al tempo minimo del periodo di prova, la risposta esatta non poteva che essere quella indicata alla lettera a) (compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro).

3. L’accoglimento della sola censura rivolta avverso la valutazione della risposta data al quiz n. 35 comporta l’attribuzione di altri 0,5 punti che, sommati ai 20 punti ottenuti (di cui 19,5 riconosciuti dalla Commissione e 0,5 ottenuti per effetto della sentenza del Tar Lazio, sez. III-quater, n. 1090 del 29 gennaio 2019, che ha ritenuto corretta la risposta data al quesito n. 40), porta ad un totale di 20,5 punti, che non farebbe comunque superare all’appellante la c.d. prova di resistenza perché non raggiungerebbe il minimo richiesto di 21/30 punti.

Ne consegue l’improcedibilità dell’appello incidentale, il cui esame è stato dichiaratamente condizionato dall’I.N.P.S. all’ipotesi in cui l’eventuale accoglimento dei motivi di appello principale consentisse al dottor Fiorella di conseguire i 21 punti necessari, secondo il bando, per essere ammesso alla prova orale.

4. Infine, non è suscettibile di positiva valutazione neanche il motivo dell’appello principale dedotto avverso il capo della sentenza che ha condannato il ricorrente alla rifusione delle spese e degli onorari del giudizio.

Il Tar ha infatti seguito il principio che pone i criteri della soccombenza e della compensazione in rapporto di regola ed eccezione, confinando, peraltro, l’ammissione di una deroga al principio generale solo entro gli stretti margini di ulteriori fattispecie contraddistinte dai predicati della “gravità” e della “eccezionalità”; ogni eccezione al principio della soccombenza, ancorché non riconducibile alle fattispecie tipiche indicate dal legislatore, può trovare ingresso sempreché adeguatamente ‘esternata’ in motivazione, in modo che si comprendano l’iter logico-giuridico e/o le valutazioni (di fatto ed eventualmente di sostanziale equità) su cui essa si fonda, e queste ultime vengano svolte con argomentazioni coerenti con le coordinate normative soprarichiamate (Cons. St., sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6661).

Il Tar ha ritenuto che nella specie non fossero configurabili ragioni per derogare al principio della soccombenza, conclusione non sindacabile dal giudice di secondo grado. La statuizione sulle spese da parte del giudice di primo grado è espressione dell’ampio potere discrezionale di cui è fornito, sindacabile in secondo grado solo in caso di manifesta e diretta violazione dei criteri fissati da norme di legge tale da configurare gli estremi di una decisione aberrante, quale quella che ponga le spese a carico della parte vincitrice (Cons. St., sez. III, 7 ottobre 2019, n. 6767; id. 29 gennaio 2018, n. 608). La decisione in ordine alla condanna alle spese di giudizio, presa dal Tar Lazio, non è certo aberrante.

5. Per le ragioni sopra esposte l’appello principale deve essere respinto mentre quello incidentale condizionato è improcedibile.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza),

definitivamente pronunciando sull’appello principale, come in epigrafe proposto, lo respinge; dichiara improcedibile l’appello incidentale condizionato.

Condanna l'appellante al pagamento, in favore del costituito l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale – I.N.P.S., delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in € 1.500,00 (euro millecinquecento/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 gennaio 2020 con l'intervento dei magistrati:

Franco Frattini, Presidente

Massimiliano Noccelli, Consigliere

Stefania Santoleri, Consigliere

Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore

Solveig Cogliani, Consigliere

 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Giulia Ferrari Franco Frattini
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO


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