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Consiglio di Stato, Adunanza Sezione I, 3/8/2021 n. 1374
La tutela della qualità italiana nei traffici doganali ed il contrasto del cd Italian sounding si realizza attraverso la costituzione di una società in house, per lo svolgimento dei servizi, previsti dal c. 3 dell'art. 103, d.l. n. 104 del 2020.

Interpretazione dell'art. 103, c.1, del d.l.14 agosto 2020, n. 104, conv. con mod. dalla l. 13 ottobre 2020, n. 126.

Materia: servizi pubblici / disciplina

Numero 01374/2021 e data 03/08/2021 Spedizione

REPUBBLICA ITALIANA

Consiglio di Stato

Sezione Prima

Adunanza di Sezione del 21 luglio 2021


NUMERO AFFARE 00747/2021

OGGETTO:

Ministero dell'economia e delle finanze


Quesito in ordine alla interpretazione dell’articolo 103, comma 1, del decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126.

LA SEZIONE

Vista la nota 23 giugno 2021, prot. n. 485, con la quale il Ministero dell'economia e delle finanze ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;

Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri;


1. Il quesito. Con nota 23 giugno 2021, prot. n. 485, il Ministero dell’economia e delle finanze ha formulato un quesito in ordine alla interpretazione dell’articolo 103, comma 1, del decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126. Il predetto Ministero, dopo aver riportato il testo di legge, ha riferito che nella fase istruttoria di predisposizione del decreto costitutivo della società, prevista dalla disposizione in questione, è sorta la necessità di comprendere se, in base alla legge, la società stessa dovesse o meno qualificarsi come società in house. L’amministrazione ha aggiunto che la qualificazione assume una particolare rilevanza in quanto solo le società in house:

- possono essere assegnatarie dirette di servizi da svolgere per l’amministrazione pubblica senza previo ricorso ad una gara;

- sono soggette al cosiddetto controllo analogo da parte della pubblica amministrazione di riferimento, ovvero un controllo tale che possa vincolare l’affidataria agli indirizzi dell’affidante, qualificandola come una sorta di longa manus dell’amministrazione, pur conservando natura distinta e autonomia rispetto all’apparato organizzativo di questa, così da determinare una sorta di amministrazione indiretta, realizzata attraverso un controllo gestionale e finanziario stringente sull’attività della società affidataria, la quale a sua volta è istituzionalmente destinata, in modo prevalente, ad operare in favore della pubblica amministrazione affidante.

Nel caso in esame, il citato articolo 103, prevede che la società può essere costituita – con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze – per consentire all’Agenzia delle accise, dogane e monopoli (d’ora in poi “ADM”) di svolgere, con criteri imprenditoriali, i servizi di certificazione di qualità dei prodotti e l’uso del certificato del bollino di qualità, riconducibili alle attività tipiche dei laboratori di analisi dell’agenzia medesima.

Tutto ciò premesso, il Ministero espone che una diversa interpretazione è stata sostenuta da ADM in base alla quale la disposizione in questione dovrebbe interpretarsi nel senso che l’articolo 103, più volte citato, abbia previsto non già una società in house, bensì una diversa fattispecie di società legale di “diritto singolare”, ai sensi dell’articolo 1, comma 4, TUSP, individuandone la struttura, l’oggetto, l’organizzazione e le condizioni al ricorrere delle quali la società dovrà operare. In tale prospettiva la norma, oltre ad aver tipizzato gli elementi caratterizzanti la società, ne avrebbe anche stabilito la specifica missione da ricondurre alla più ampia finalità di tutela della qualità italiana nei traffici doganali e di contrasto al cosiddetto “Italian sounding”; ciò in linea, peraltro, con il carattere dell’” interesse economico generale” di cui all’articolo 1, comma 4, TUSP.

Per ADM non sarebbe l’ente pubblico ad avvalersi della società partecipata, come nel modello in house, bensì quest’ultima ad avvalersi dell’agenzia e dei suoi servizi di laboratorio; i servizi di certificazione di qualità previsti dalla norma sarebbero del resto del tutto nuovi, così come nuova è anche la creazione del bollino di qualità prevista dalla legge: anche in relazione a ciò, la disposizione prevede che la società faccia “uso… del certificato del bollino di qualità… previo riconoscimento all’Agenzia delle dogane e dei monopoli di una royalty per l’utilizzo del bollino di qualità”. Da ciò si ricaverebbe un modello operativo funzionale diverso da quello dell’in house, connotato per il fatto che la società partecipata acquista dall’Agenzia servizi di laboratorio di analisi doganale, servizi che utilizza poi per rilasciare sul mercato, in favore di terzi privati, certificazioni di qualità – contraddistinte da un bollino di qualità di proprietà della stessa Agenzia – riversando all’Agenzia profitti rinvenimenti da tale attività.

Con nota 1 luglio 2021, prot. n. 226935, ADM ha inviato una “nota tecnica” con la quale ha ribadito la sua posizione, essenzialmente rilevando:

- che non vi sono servizi pubblici da erogare e non vi è un affidamento diretto di contratto pubblico in favore della società;

- che, secondo il modello utilizzato dall’articolo 103 più volte citato, la società partecipata compra da ADM servizi di laboratorio di analisi doganale che utilizza per rilasciare certificazioni di qualità sul mercato in favore di terzi privati; tali certificazioni sono contraddistinte da un bollino di qualità, di proprietà di ADM, che potrà essere gestito in modo informatico;

- che sarebbe di tutta evidenza che questo modello non è compatibile con l’articolo 16 del d. lgs. 175/2016 in tema di società in house, in particolar modo laddove prevede al comma 3 che “gli statuti delle società di cui al presente articolo devono prevedere che oltre l’80% del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci”;

- che, ragionando diversamente, si verificherebbe la situazione paradossale per cui la società – di cui è stato individuato il nome “Qualitalia s.p.a.” – dovrebbe comprare i servizi di laboratorio dall’Agenzia per rivenderli nella misura dell’80% alla stessa Agenzia, non generando alcun vantaggio né in termini erariali né in termini di tutela del brand Italia e di contrasto all’Italian sounding.


2. Il quadro giuridico di riferimento. L’articolo 103 del decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, rubricato “Servizi dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli”, testualmente stabilisce:

1. Al fine di consentire alla Agenzia delle dogane e dei monopoli di svolgere, con criteri imprenditoriali, i servizi di cui al comma 3, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze può essere costituita, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, una apposita società, di cui la predetta Agenzia è socio unico, regolata ai sensi delle disposizioni di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175. Lo svolgimento dell'attività della società è disciplinato nell'ambito della convenzione triennale prevista dall'articolo 59 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. (275)

2. Ove la società di cui al comma 1 sia costituita, il relativo statuto prevede che l'organo amministrativo è costituito da un amministratore unico, individuato nel direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, e che la società medesima opera sulla base di un piano industriale che comprovi la sussistenza di concrete prospettive di mantenimento dell'equilibrio economico e finanziario della gestione. Per il perseguimento dei propri scopi sociali, la società si avvale, tramite apposito contratto di servizio con l'Agenzia delle dogane e dei monopoli, del personale e dei servizi di laboratorio dell'Agenzia stessa.

3. La società di cui al comma 1 può essere costituita per lo svolgimento dei servizi di:

a) certificazione di qualità dei prodotti realizzata attraverso l'analisi tecnico - scientifica e il controllo su campioni di merce realizzati presso i laboratori dell'Agenzia;

b) uso del certificato del bollino di qualità, qualora il prodotto analizzato soddisfi gli standard di qualità (assenza di elementi nocivi e provenienza certificata), apposto sulla confezione dello stesso, previo riconoscimento all'Agenzia delle dogane e dei monopoli di una royalty per l'utilizzo del bollino di qualità, e sino a quando i controlli previsti dall'Agenzia delle dogane e dei monopoli nei protocolli tecnico scientifici garantiscano il mantenimento degli standard qualitativi.

4. Ogniqualvolta si fa riferimento a: Agenzia delle dogane, Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato, Direzione generale dogane ed imposte indirette sugli affari, Dipartimento delle dogane, Ministero delle finanze-Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, Laboratori chimici compartimentali delle dogane e delle imposte indirette, compartimenti doganali, circoscrizioni doganali, dogane, sezioni doganali, posti di osservazione dipendenti da ciascuna dogana, dogane di seconda e terza categoria, ricevitori doganali, posti doganali, Uffici Tecnici di Finanza, ispettorato compartimentale dell'amministrazione dei monopoli di Stato, monopoli di Stato, si intende l'Agenzia delle dogane e dei monopoli ed i rispettivi Uffici di competenza.

4-bis. Agli oneri derivanti dal presente articolo, pari a 600.000 euro per l'anno 2021 in termini di fabbisogno e indebitamento netto, si provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo per la compensazione degli effetti finanziari non previsti a legislazione vigente conseguenti all'attualizzazione di contributi pluriennali, di cui all'articolo 6, comma 2, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008, n. 189.

Come già messo in evidenza nel paragrafo precedente, la disposizione ha l’ampia finalità di tutelare la qualità italiana nei traffici doganali e di contrastare il cosiddetto “Italian sounding”. Occorre tuttavia comprendere qual è lo strumento individuato dalla norma e se la finalità deve essere realizzata attraverso la costituzione di una società in house, come proposto dall’Ufficio del coordinamento legislativo del MEF, oppure attraverso una società di “diritto singolare”, come sostenuto da ADM.


3.1. La gestione dei servizi pubblici: profili introduttivi.

Prima di dare risposta, il Consiglio ritiene che sia necessario effettuare una ricostruzione storica della disciplina degli affidamenti della gestione dei servizi pubblici.

Innanzi tutto è utile ricordare che nei servizi pubblici è possibile individuare tre distinti momenti logici e giuridici: 1) l’assunzione; 2) la regolazione; 3) la gestione del servizio.

Momento iniziale è l’assunzione da parte dei pubblici poteri di un’attività come servizio pubblico, con legge o con atto amministrativo emanato in base ad una legge; si tratta di una decisione di carattere politico determinata dal fatto che il mercato non è in grado di offrire alla collettività un adeguato livello qualitativo o quantitativo di un determinato bene o servizio. Ne deriva una nozione di servizio pubblico storicamente relativa poiché varia in base all’epoca ed al contesto territoriale di riferimento; ciò spiega perché è estremamente difficile dare una definizione univoca di servizio pubblico.

Quando un’attività viene assunta come servizio pubblico, il potere pubblico deve provvedere alla sua regolazione, secondo momento logico, dando attuazione a determinati principi giuridici che si ricavano anche, e soprattutto, dal diritto eurounitario e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, tra i quali ricordiamo: il principio di legalità; il principio di doverosità (i pubblici poteri devono garantire direttamente o indirettamente alla collettività l’erogazione del servizio secondo criteri quantitativi e qualitativi predeterminati); il principio della continuità della gestione ed erogazione dei servizi; il principio di imparzialità; il principio di universalità (le imprese che gestiscono servizi pubblici devono offrire prestazioni anche a fasce di clienti e in aree territoriali non convenienti); il principio dell’accessibilità dei prezzi per tutti; il principio dell’economicità (nel senso che il gestore del servizio deve poter conseguire un margine ragionevole di utile); il principio di trasparenza; il principio di proporzionalità.

Per quanto riguarda il terzo, e fondamentale, momento, le forme di gestione dei servizi pubblici con rilevanza economica si caratterizzano per la minore o maggiore afferenza del gestore all’organizzazione pubblica; la gestione può infatti essere: a) diretta, ossia eseguita dalle strutture dello stesso ente che ha assunto il servizio pubblico (aziende speciali, gestione in economia); b) indiretta, ossia affidata ad un altro ente pubblico, ad esempio un ente pubblico economico; c) affidata ad una società in house providing; d) affidata ad una società mista a partecipazione pubblica e privata (c.d. partenariato pubblico privato istituzionale - PPPI); e) affidata in concessione a privati scelti mediante procedure di evidenza pubblica (c.d. concorrenza per il mercato); f) autorizzata a più gestori che erogano il servizio in concorrenza nel rispetto degli obblighi di servizio pubblico stabiliti dal regolatore (c.d. concorrenza nel mercato).

Dagli anni novanta in poi, per effetto delle direttive comunitarie, si è passati da un modello di organizzazione del servizio pubblico caratterizzato dalla riserva originaria dell’attività, con i c.d. diritti speciali o di esclusiva, ad un modello sempre più concorrenziale. Le direttive volte alla liberalizzazione dei diversi settori e dei differenti mercati operano una distinzione tra “concorrenza nel mercato” e “concorrenza per il mercato”: nel primo caso, quando le caratteristiche del mercato lo consentono, il servizio può essere svolto da operatori economici in concorrenza tra loro, sulla base di un provvedimento autorizzatorio, non discrezionale, che realizza quindi la piena concorrenza; nel secondo caso, ragioni di tipo tecnico o economico (monopolio naturale, costi eccessivi di duplicazione delle reti e delle infrastrutture), suggeriscono che il servizio pubblico venga svolto in modo efficiente soltanto da un unico gestore. Pertanto, l’amministrazione indice una procedura selettiva di affidamento della concessione del servizio, alla quale possono partecipare tutti gli operatori economici interessati, per la scelta del gestore cui viene riconosciuto un diritto speciale o di esclusiva. In questo modello di gestione, dunque, la concorrenza si realizza a monte, secondo due modalità alternative ed equivalenti: procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento del servizio a soggetto privato ovvero procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato industriale cui affidare la gestione operativa del servizio in una società a partecipazione mista pubblica e privata.

In ogni caso, non va dimenticato che, in base all’attuale disciplina generale dei servizi pubblici, le pubbliche amministrazioni possono sempre decidere di gestire direttamente il servizio a mezzo di un soggetto rispondente al modello in house providing, modello quest’ultimo da non confondere con quello delle società miste a partecipazione pubblico-privata.


3.2. Affidamento in house.

Con l’espressione in house providing si fa riferimento all’affidamento di un appalto o di una concessione da parte di un ente pubblico in favore di una società controllata dall’ente medesimo, senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica, in virtù della peculiare relazione che intercorre tra l’ente pubblico e la società affidataria.

La società in house è una società dotata di autonoma personalità giuridica che presenta connotazioni tali da giustificare la sua equiparazione ad un "ufficio interno" dell’ente pubblico che l’ha costituita, una sorta di longa manus; non sussiste tra l’ente e la società un rapporto di alterità sostanziale, ma solo formale. Queste caratteristiche della società in house giustificano e legittimano l’affidamento diretto, senza previa gara, per cui un’amministrazione aggiudicatrice è dispensata dall’avviare una procedura di evidenza pubblica per affidare un appalto o una concessione. Ciò in quanto, nella sostanza, non si tratta di un effettivo "ricorso al mercato" (outsourcing), ma di una forma di "autoproduzione" o, comunque, di erogazione di servizi pubblici "direttamente" ad opera dell'amministrazione, attraverso strumenti "propri" (in house providing).

L’istituto, le cui radici si rinvengono nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, è espressione del principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche di cui all’articolo 2 della direttiva 2014/23/Ue che afferma: “le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni”.

In definitiva, un affidamento diretto ad un soggetto che non è sostanzialmente diverso dall’amministrazione affidante non può dare luogo alla lesione dei principi del Trattato e, in particolare, del principio di concorrenza, proprio perché si tratta non di esternalizzazione ma di autoproduzione della stessa P.A.

L’in house segna, dunque, una delicata linea di confine tra i casi in cui non occorre applicare le direttive appalti e concessioni, e la relativa normativa nazionale di trasposizione, ed i casi in cui invece è necessaria l’applicazione.

I requisiti delle società in house sono stati elaborati nel tempo dalla Corte UE; secondo la giurisprudenza della Corte, a partire dalla sentenza Teckal del 1999 sino alle direttive UE 23, 24 e 25/2014 in materia di appalti e concessioni, le procedure di evidenza pubblica possono escludersi tutte le volte in cui: 1) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello operato sui propri servizi interni (requisito strutturale); 2) il soggetto affidatario realizza la parte più importante della propria attività a favore dell’amministrazione aggiudicatrice che lo controlla (requisito funzionale).

Le condizioni necessarie per la configurazione del controllo analogo sono la partecipazione pubblica totalitaria e l’influenza determinante; sin dal 2005, la Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle; Corte di Giustizia UE 21 luglio 2005, C-231/03, Consorzio Coname; Corte di Giustizia UE, sez. I, 18 gennaio 2007, C-225/05, Je. Au.) ha chiarito che la partecipazione, pur minoritaria, di soggetti privati al capitale di una società, alla quale partecipi anche l'amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi. La partecipazione pubblica totalitaria rappresenta una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, dovendosi ulteriormente verificare la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente pubblico più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile a favore del socio totalitario. L'amministrazione aggiudicatrice, infatti, deve essere in grado di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti dell'entità affidataria e il controllo esercitato deve essere effettivo, strutturale e funzionale (in tal senso, Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e C-183/11, Econord).

La Corte di Giustizia ha riconosciuto altresì che, a determinate condizioni, il controllo analogo può essere esercitato congiuntamente da più autorità pubbliche che possiedono in comune l'ente affidatario, c.d. in house frazionato (Corte di Giustizia UE, 29 novembre 2012, in cause riunite C-182/11 e C-183/11, Econord), e che è configurabile un controllo analogo anche nel caso di partecipazione pubblica indiretta, in cui il pacchetto azionario non è detenuto direttamente dall’ente pubblico di riferimento, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo, c.d. in house a cascata (Corte di Giustizia UE 11 maggio 2006 C-340/04).

Il secondo requisito indicato dalla Corte è costituito dalla prevalenza dell’attività svolta con l’ente affidante, ossia il soggetto in house deve svolgere la parte più importante della propria attività con il soggetto o i soggetti pubblici che lo controllano e la diversa attività, eventualmente svolta, deve risultare accessoria, marginale e residuale.

Sino alle direttive UE del 2014 non vi era una percentuale di attività predeterminata che doveva essere svolta in favore dell’ente affidante e, pertanto, l’interprete era tenuto a prendere in considerazione tutte le circostanze sia qualitative che quantitative del caso concreto.

Nel contesto sopra descritto sono intervenute le nuove direttive del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici e le concessioni.

I requisiti dell’in house sono adesso chiaramente indicati dall’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2014/24/UE, dall’articolo 28, paragrafo 1, della direttiva 2014/25/UE e dall’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 2014/23/UE; tutte norme di analogo tenore. Non è disciplinato solo l’in house, ma anche la cooperazione tra amministrazioni aggiudicatrici (c.d. accordi di collaborazione), la quale però rimane al di fuori dell’in house, in quanto non comporta la costituzione di organismi distinti rispetto alle amministrazioni interessate all’appalto o alla concessione.

In particolare, l’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, relativo alle concessioni tra enti nell’ambito del settore pubblico, prevede che una concessione aggiudicata da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva quando siano soddisfatti tutti i requisiti del controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi, quando oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante e non vi sia alcuna partecipazione di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto.

Le direttive sono state attuate con il d.lgs. 50/2016, recante il nuovo codice dei contratti pubblici, che all’articolo 5 – rubricato “principî comuni in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico” – stabilisce una disciplina di principio che tratteggia nelle sue linee essenziali le caratteristiche principali dell’in house; le previsioni codicistiche ricalcano in buona parte le direttive.

Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, primo periodo, in presenza di determinate condizioni, le norme del codice non si applicano ai contratti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una “persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato”; ciò significa che i confini dell’in house sono stati estesi al di fuori del fenomeno delle società di diritto privato comprendendovi anche gli enti pubblici.

Per l’individuazione dell’in house sono richiesti adesso tre requisiti: 1) controllo analogo; 2) oltre l'80 per cento delle attività della persona giuridica controllata deve essere effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante; 3) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati.

In ordine al controllo analogo, è stabilito che “un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ... qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata” (articolo 5, comma 1, lett. a).

Quanto alla prevalenza dell’attività “intra moenia”, è previsto che oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata deve essere effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante (articolo 5, comma 1, lett. b). Per determinare la citata percentuale deve prendersi in considerazione il fatturato totale medio, o altra idonea misura alternativa basata sull’attività quale, ad esempio, i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione (articolo 5, comma 7).

Con norma che può essere utile anche nel caso di specie, si è chiarito che ove a causa della recente data di costituzione della persona giuridica o dell’amministrazione aggiudicatrice, ovvero a causa della riorganizzazione delle sue attività, i criteri citati non sono utilizzabili “è sufficiente dimostrare, segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile” (art. 5, comma 8).

Il requisito della partecipazione pubblica totalitaria è divenuto autonomo rispetto a quello del controllo analogo e, al contempo, sono state consentite forme di partecipazione di capitali privati - le quali però non devono comportare controllo o potere di veto - previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica.

Oltre al c.d. in house di tipo tradizionale, dalle direttive UE e dall’articolo 5 del codice dei contratti pubblici sono ricavabili anche altre forme di in house:

in house a cascata: si caratterizza per la presenza di un controllo analogo indiretto “tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo” (articolo 5, comma 2); l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su un ente che a propria volta esercita un controllo analogo sull’organismo in house ed anche se tra la l’amministrazione aggiudicatrice e l’organismo in house non sussiste una relazione diretta è comunque ammesso l’affidamento diretto;

in house frazionato o pluripartecipato: ai sensi dell’articolo 5, comma 4, l’affidamento diretto è consentito anche in caso di controllo congiunto; le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto quando sono congiuntamente soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti; b) tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti;

in house verticale “invertito” o “capovolto”, si ha quando il soggetto controllato, essendo a sua volta amministrazione aggiudicatrice, affida un contratto al soggetto controllante senza procedura di evidenza pubblica: per il Codice degli appalti “il presente codice non si applica anche quando una persona giuridica controllata che è un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore, aggiudica un appalto o una concessione alla propria amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore controllante …” (articolo 5, comma 3). Si verifica, pertanto, una sorta di bi-direzionalità dell’in house; la giustificazione a tale possibilità di affidamento diretto risiede nel fatto che, mancando una relazione di alterità, i rapporti tra i due soggetti sfuggono al principio di concorrenza qualunque sia la “direzione” dell’affidamento;

in house “orizzontale” che implica, invece, l’esistenza di tre soggetti; un soggetto A aggiudica un appalto o una concessione a un soggetto B, e sia A che B sono controllati da un altro soggetto C. Non vi è quindi alcuna relazione diretta tra A e B, ma entrambi sono in relazione di in house con il soggetto C, che controlla sia A che B; l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su due operatori economici distinti di cui uno affida un appalto all’altro.


3.3. Affidamento in house: regola o eccezione?

Per lungo tempo è stato ritenuto che i requisiti dell'in house providing dovessero essere interpretati restrittivamente (Cons. Stato, sez. II, n. 456/2007; Cons. Stato, sez. V, n. 5620/2010; Cons. Stato, sez. I, n. 2577/2011).

Si rilevava, al riguardo, che l'in house, così come costruito dalla giurisprudenza comunitaria, rappresentava, più che un modello di organizzazione dell'amministrazione, un'eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono la previa gara (Cons. Stato, Ad.Pl. n.1/2008).

E ciò sulla base del principio secondo cui, in via generale, l’assenza totale di procedura concorrenziale per l’affidamento di una concessione di servizi pubblici non è conforme alle esigenze di cui agli artt. 43 CE e 49 CE, e nemmeno ai principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (C. giust. CE, 6 aprile 2006, C-410/04 e 13 ottobre 2005, C458/03).

In particolare si considerava che “l’affidamento diretto del servizio viola il principio di concorrenza sotto un duplice profilo: a) da una parte, sottrae al libero mercato quote di contratti pubblici, nei confronti dei quali le imprese ordinarie vengono escluse da ogni possibile accesso; b) dall’altra, si costituisce a favore dell’impresa affidataria una posizione di ingiusto privilegio, garantendole l’acquisizione di contratti. Il tutto si traduce nella creazione di posizioni di vantaggio economico che l’impresa in house può sfruttare anche nel mercato, nel quale si presenta come ‘particolarmente’ competitiva, con conseguente alterazione della par condicio” (Cons. Stato, Ad.Pl. n.1/2008).

Anche più di recente questo Consiglio ha ritenuto di ribadire che l’in house rappresenta “un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici avvenga mediante la gara” (sez. III, n. 2291/2015; sez. VI, n. 2660/2015; sez. III, n. 5732/2015; sez. II, n. 298/2015).

Occorre peraltro prendere atto dei mutamenti normativi e giurisprudenziali sopravvenuti, soprattutto a seguito delle direttive europee in materia di appalti (n. 2014/24/UE), di concessioni (n. 2014/23/UE) e sui settori speciali (n. 2014/25/UE), del codice appalti (d.lgs. n. 50/2016) e del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (d.lgs. n. 175/2016), di cui si dirà.

Pertanto, secondo una diversa prospettiva, l’autorità pubblica, in virtù del principio di libera amministrazione, può discrezionalmente decidere come devono essere gestiti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, vale a dire:

- mediante il ricorso al mercato, individuando l’affidatario mediante gara ad evidenza pubblica;

- attraverso il c.d. partenariato pubblico privato, ossia per mezzo di una società mista e quindi con una gara a doppio oggetto per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio;

- ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso dall'ente ma che ne costituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo (Cons. Stato, sez. V, n. 4599/2014; sez. V, n. 257/2015; sez. V, n. 1900/2016).

Il Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanze 7 gennaio 2019, n.138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296, ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale originata dal dubbio che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate (quindi su un piano subordinato ed eccezionale) rispetto alle altre modalità di affidamento, siano compatibili con le pertinenti disposizioni e principi del diritto primario e derivato dell'Unione europea, trattandosi di stabilire se il citato restrittivo orientamento ultradecennale dell'ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e le disposizioni del diritto dell'Unione europea (con particolare riguardo al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall'articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione).

La Corte giustizia dell’Unione Europea, in risposta, ha chiarito tra l’altro che: "1) L'articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale che subordina la conclusione di un'operazione interna, denominata anche «contratto in house», all'impossibilità di procedere all'aggiudicazione di un appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell'amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all'operazione interna (Corte di giustizia, nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa).

Ancora più di recente la Corte costituzionale ha evidenziato che la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, ha ribadito che dal principio di libera autorganizzazione delle autorità pubbliche (di cui al quinto considerando della direttiva 2014/24/UE e all’art. 2, paragrafo 1, della direttiva 2014/23 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione) discende la «libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze» e, conseguentemente, quel principio «li autorizza a subordinare la conclusione di un’operazione interna all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna».


3.4. Le società a partecipazione pubblica.

La disciplina delle società a partecipazione pubblica è oggi contenuta nel d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, adottato in attuazione della delega di cui alla l. 124/2015; il T.U.S.P. costituisce il primo tentativo di disporre una disciplina organica in materia di società a partecipazione pubblica, ispirata a criteri di efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, di tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché di razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica.

Il Testo unico introduce disposizioni dedicate alla disciplina dei comportamenti delle pubbliche amministrazioni che vogliano acquisire o mantenere lo status di soci di società di capitali ed un altro gruppo di norme contenenti le deroghe al diritto delle società necessarie in ragione della natura pubblica delle partecipazioni societarie.

Il legislatore delegato ha classificato le società pubbliche in base al controllo pubblico o alla partecipazione (diretta o indiretta) pubblica. La distinzione è, dunque, quella tra società controllate e società meramente partecipate (articolo 2, comma 1, lett. n).

L’intento perseguito dal legislatore con il Testo unico è stato quello di applicare la disciplina civilistica alle società a partecipazione pubblica, contenendo le deroghe nella misura strettamente necessaria al concreto soddisfacimento dell’interesse pubblico di volta in volta perseguito attraverso la costituzione di una società o la detenzione di partecipazioni societarie. Conseguentemente, il testo stabilisce che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato” (articolo 1, comma 3, T.U.).

Il D.Lgs. 16 giugno 2017, n. 100 ha poi previsto "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" anche per adeguarsi alla sentenza della Corte cost. 25 novembre 2016, n. 251 con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale di buona parte dell'art. 18 della L. 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. legge Madia) e cioè della norma di delega in forza della quale è stato emanato il D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175 recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.


3.5. Società in house e società miste.

Come anticipato al paragrafo 3.1., giova ora sottolineare che i due modelli della società mista e della società in house non vanno sovrapposti. Il Consiglio di Stato ha avuto modo di esprimersi, con parere n. 456 del 2007, sulle distinte modalità di affidamento chiarendo che “l’evoluzione giurisprudenziale consente, altresì, di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’in house providing”.

Sul punto, si ricorda che l’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008 ha definito i requisiti e le condizioni di affidamento alle società in house ed alle società a partecipazione mista pubblico privata, delineando i rispettivi tratti distintivi. Tale impostazione si è poi consolidata con la decisione della Corte di Giustizia secondo cui “gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE non ostano all'affidamento diretto di un servizio pubblico che preveda l'esecuzione preventiva di determinati lavori, come quello di cui trattasi nella causa principale, a una società a capitale misto, pubblico e privato, costituita specificamente al fine della fornitura di detto servizio e con oggetto sociale esclusivo, nella quale il socio privato sia selezionato mediante una procedura ad evidenza pubblica, previa verifica dei requisiti finanziari, tecnici, operativi e di gestione riferiti al servizio da svolgere e delle caratteristiche dell'offerta in considerazione delle prestazioni da fornire, a condizione che detta procedura di gara rispetti i principi di libera concorrenza, di trasparenza e di parità di trattamento imposti dal Trattato per le concessioni” (Corte UE, sez. III, 15 ottobre 2009 C-196/08).

Per quanto di interesse in questa sede, giova sottolineare che dal testo unico, in linea con l’evoluzione normativa che si è delineata, emerge chiaramente la differenza tra le società in house, oggetto di disciplina all’articolo 16, e le società miste a partecipazione pubblico-privato, disciplinate al successivo articolo 17. Più precisamente l’articolo 16 stabilisce che le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto; in modo sensibilmente differente, invece, il successivo articolo 17 stabilisce che nelle società a partecipazione mista pubblico-privata la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al trenta per cento e la selezione del medesimo si svolge con procedure di evidenza pubblica a norma dell'articolo 5, comma 9, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e ha a oggetto, al contempo, la sottoscrizione o l'acquisto della partecipazione societaria da parte del socio privato e l'affidamento del contratto di appalto o di concessione oggetto esclusivo dell'attività della società mista.

Emergono dunque notevoli differenze sia con riferimento alle modalità di affidamento del contratto sia in relazione al diverso ruolo del socio privato che, nelle società in house, non deve avere un ruolo determinante e che, al contrario, nelle società miste deve essere determinante tanto che l’articolo 17, comma 2, prescrive per quest’ultimo il possesso dei requisiti di qualificazione previsti da norme legali o regolamentari in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita.


3.6. Le società di “diritto singolare”.

Va ora esaminata, perché rilevante nella risposta da dare al presente quesito, la nozione di società “di diritto singolare”. Nel definire l’ambito di applicazione, l’art. 1, comma 4, lett. a), T.U.SP.P. fa salve “le specifiche disposizioni contenute in leggi o regolamenti governativi o ministeriali che disciplinano società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite per l’esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse”.

Il richiamo “al diritto singolare” effettuato dal menzionato art. 1, comma 4, lett. a), TUSP, è soltanto nei confronti delle società destinatarie di discipline singolari, ossia di discipline applicabili esclusivamente alle medesime. La deroga disposta dalla normativa in esame è destinata a trovare applicazione, dunque, nella misura in cui tali società siano costituite per la gestione di servizi di interesse generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse e, in tal senso, nella relazione illustrativa al TUSP, è specificato che l’utilizzo, nel testo legislativo, della nozione considerata è volto a “chiarire che sono fatte salve le norme relative a singole società”.

Occorre precisare altresì che la previsione di salvezza di cui all’art. 1, comma 4, lett. a), T.U.S.P., vale a rendere immune la società dall’applicazione delle norme del testo unico esclusivamente nella misura in cui queste ultime risultino incompatibili con le previsioni recate dalla normativa di diritto singolare. Con riferimento alla disciplina non derogata devono invece trovare applicazione le norme del TUSP e, in via residuale, il diritto societario comune.


3.7. Lo svolgimento di attività imprenditoriale da parte della pubblica amministrazione.

A giudizio della Sezione, non può darsi risposta al quesito se, innanzitutto sotto un profilo teorico, non si esamina la questione relativa alla possibilità per le amministrazioni di svolgere attività imprenditoriale.

Giova, a tal fine, ricordare che l’articolo 3, comma 27, l. 24 dicembre 2007 n. 244 prevedeva che le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società.

Proprio con riferimento alla disposizione ora richiamata, l’adunanza plenaria ha affermato che nell’ordinamento vi è un evidente disfavore del legislatore nei confronti della costituzione e del mantenimento da parte delle amministrazioni pubbliche di società commerciali con scopo lucrativo, il cui campo di attività esuli dall'ambito delle relative finalità istituzionali, né risulti comunque coperto da disposizioni normative di specie, secondo il modello delle c.d. "società di diritto singolare' (Cons. St., a.p., 3 giugno 2011 n. 10).

Per l’Adunanza Plenaria, l’art. 3, comma 27. l. cit. esprimeva regole che già potevano essere desunte dal sistema:

a) l'attività di impresa è consentita agli enti pubblici solo in virtù di espressa previsione;

b) l'ente pubblico che non ha fini di lucro non può svolgere attività di impresa, salve espresse deroghe normative;

c) la possibilità di costituzione di società in mano pubblica, operanti sul mercato, è ordinariamente prevista da specifiche disposizioni legislative; non di rado è la legge a prevedere direttamente la creazione di una società a partecipazione pubblica;

d) la costituzione di società per il perseguimento dei fini istituzionali propri dell'ente pubblico è generalmente ammissibile se ricorrono i presupposti dell'in house (partecipazione totalitaria pubblica, esclusione dell'apertura al capitale privato, controllo analogo, attività esclusivamente o prevalentemente dedicata al socio pubblico), e salvi specifici limiti legislativi.

In altri termini «un conto è, dunque, la costituzione di una società in house, da parte di un ente pubblico senza fine di lucro, che è in sé un modulo organizzativo neutrale, che rientra nell'autonomia organizzativa dell'ente, con il limite intrinseco che ogni forma organizzativa è sempre e necessariamente strumentale al perseguimento dei fini istituzionali dell'ente medesimo, e salvi specifici limiti legislativi. Un altro conto è la costituzione, da parte di un ente pubblico, di una società commerciale che non operi con l'ente socio, ma operi sul mercato, in concorrenza con operatori privati, e accettando commesse sia da enti pubblici che da privati. La società commerciale facente capo ad un ente pubblico, operante sul mercato in concorrenza con operatori privati, necessita di previsione legislativa espressa, e non può ritenersi consentita in termini generali, quanto meno nel caso in cui l'ente pubblico non ha fini di lucro».

L’art. 3, comma 27 della legge finanziaria 2008 ha dunque introdotto, con una norma generale, una deroga al modello civilistico, al fine di vincolare l’attività d’impresa, in coerenza con il principio di legalità, al perseguimento di uno scopo pubblico (ancora Cons. St., a.p., 3 giugno 2011 n. 10).

Il contenuto della norma in esame è stato poi riprodotto (abrogando contemporaneamente il citato articolo 3, comma 27) all’articolo 4, comma 1, TUSP, trattandosi, ad avviso della Commissione speciale del Consiglio di Stato, di un «chiaro e stringente “vincolo di scopo pubblico”» (Cons. St., Commissione speciale, parere 21 aprile 2016, n. 968).


4. La risposta al quesito.

Così esposto il quadro giuridico di riferimento, la Sezione ritiene – nonostante la non perspicua formulazione del testo di legge, secondo quanto si dirà più avanti – che la norma vada interpretata nel senso di prevedere la costituzione di una società in house.

In tale direzione militano numerosi argomenti.

In primo luogo, va evidenziato che i servizi di cui al più volte citato articolo 103, comma 3, decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, sono in via primaria riconosciuti come di competenza di ADM. Sotto tale aspetto, è chiarissima la formulazione letterale della parte iniziale del comma 1 del predetto articolo 103, ove si utilizza la locuzione “al fine di consentire alla Agenzia delle dogane dei monopoli di svolgere, con criteri imprenditoriali, i servizi di cui al comma 3…”.

Viene affermato dunque, senza ombra di dubbio, che “i servizi di cui al comma 3” sono di competenza ‘istituzionale’ della Agenzia delle dogane e dei monopoli. Da ciò ne scaturisce la conseguenza che, una volta individuati i servizi da rendere, il legislatore può optare per una delle diverse modalità di erogazione – tutte descritte al paragrafo 3.1. del presente parere – tra cui, naturalmente, anche il modello dell’in house.

La circostanza, in secondo luogo, che il legislatore abbia parlato di costituzione di “una apposita società, di cui la predetta Agenzia è socio unico”, sempre a giudizio della Sezione, dimostra che il legislatore ha, seppure implicitamente, fatto riferimento allo schema dell’in house. È vero che oggi nella società in house vi possono essere – a determinate condizioni previste dalla legge statale (si veda il parere di questa Sezione 7 maggio 2019, n. 1389) – soci privati; tuttavia, come dimostrato al paragrafo 3.2., lo schema dell’in house, per un verso, è stato costruito dal diritto pretorio della C.G.U.E. attorno al socio unico pubblico e, per altro verso, il predetto schema, anche nell’attuale disciplina, ruota ancora attorno al socio unico pubblico (si veda l’art. 5, comma 1, lett. c, d. lgs. 50/2016). Detto in altri termini, il riferimento al socio unico esprime l’intenzione del legislatore di utilizzare lo schema dell’in house, attraverso la costituzione di una società che, essendo a totale partecipazione pubblica, risulti indubitabilmente essere la longa manus di ADM.

Nonostante il fatto che i lavori preparatori, sotto il profilo dell’ermeneutica normativa, non possano essere ritenuti risolutivi dei dubbi interpretativi, in terzo luogo, va rilevato che la relazione illustrativa dell'articolo 103 del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104, presentato al Senato della Repubblica per la conversione in legge (AS 1925), afferma che "la disposizione prevede la possibilità di costituire con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze una apposita società in house avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli ...". Nel dossier del servizio studi di Camera e Senato, redatto sul testo approvato dal Senato della Repubblica (AC 2700), si legge che "L'articolo 103, modificato al Senato, autorizza la costituzione, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di una apposita società in house — avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli — per lo svolgimento di alcuni servizi con criteri imprenditoriali ...". Anche l’intenzione del legislatore, quindi, spinge nella direzione dell’utilizzo del modello dell’in house.

In quarto luogo, va evidenziato che conferme indirette, circa l’intenzione del legislatore di far riferimento ad una società in house, sono rinvenibili nella chiara previsione per cui “l'organo amministrativo è costituito da un amministratore unico, individuato nel direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli”. Se la società non fosse la longa manus dell’amministrazione, difficilmente si spiegherebbe la previsione per cui è il direttore di ADM ad essere ope legis amministratore unico.

In sintesi, anche se la disposizione di legge non lo dice chiaramente, la presenza del socio unico pubblico e l’attribuzione della carica di amministratore al Direttore di ADM sono indizi inequivocabili della volontà del legislatore di ricorrere allo schema dell’in house.

A giudizio della Sezione, non colgono nel segno le osservazioni proposte da ADM, secondo cui “non vi sono servizi pubblici da erogare… e non vi è un affidamento diretto di contratto pubblico in favore della società” (pagina 1 della nota tecnica inviata in data 1 luglio 2021, prot. n. 226935).

Per un verso, i compiti indicati al comma 3 del più volte citato articolo 103, per la Sezione, devono essere qualificati come veri e propri servizi pubblici. In tal senso milita il dato letterale e, sotto altro aspetto, anche la natura intrinseca delle attività ivi contemplate. La circostanza, poi, che “i servizi di certificazione di qualità previsti dalla norma del 2020 sono del tutto nuovi… come del tutto nuova la creazione del bollino di qualità operata dalla legge”, non esclude che possano qualificarsi come servizi erogati al pubblico.

Anche l’altra affermazione per cui “non è l’ente pubblico che si avvale della società partecipata, come nel modello in house… ma l’esatto contrario: è la società partecipata che si avvale di ADM e dei suoi servizi di laboratorio” (sempre pagina 1 della nota tecnica 1 luglio 2021) non trova conferma – per le ragioni prima esposte - nel dato legislativo in considerazione del fatto che, come già detto, i servizi in questione sono istituzionalmente assegnati all’Agenzia delle dogane dei monopoli con la conseguenza che ADM avrebbe dovuto erogarli direttamente attraverso i propri uffici, se non vi fosse stata la norma in commento.

Attesa la formulazione dell’articolo 16, comma 3, TUSP – a mente del quale “Gli statuti delle società di cui al presente articolo devono prevedere che oltre l'ottanta per cento del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall'ente pubblico o dagli enti pubblici soci” – ADM reputa che non possa utilizzarsi lo schema dell’in house perché “il 100% del fatturato della società pubblica è effettuato nello svolgimento di compiti di certificazione alla stessa affidati da privati sul libero mercato e non dall’ente pubblico” (pagina 2 della nota inviata in data 1 luglio 2021). In altri termini, per l’Agenzia, la circostanza che la fatturazione dei servizi in questione veda come destinatari i privati (ossia i richiedenti dei servizi stessi) porterebbe a non ritenere esistente una delle condizioni previste per l’in house.

Pure tale osservazione va superata in base alla pacifica possibilità di ricorrere allo schema dell’in house per la concessione dei servizi pubblici (oltre che per l’affidamento dei contratti pubblici), ove, per definizione, sono i privati ad essere destinatari dei servizi e della relativa fatturazione. A conferma di ciò, basti il riferimento all’articolo 5 d. lgs. 50/2016, nella parte in cui chiaramente ammette l’in house, oltre che per l’affidamento dei contratti pubblici, anche per la concessione dei servizi pubblici. Peraltro, l’articolo da ultimo richiamato lega il riferimento quantitativo (“oltre l'80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi”) ai “compiti” affidati e non necessariamente alla fatturazione dei servizi in favore dell’ente pubblico affidante. La fatturazione, invero, sarà rivolta all’amministrazione di riferimento nel caso di affidamento di appalti pubblici di servizi mentre, nel caso di concessione di servizi pubblici, non può che essere rivolta ai destinatari del servizio stesso.

Va esclusa ancora la possibilità di ricondurre la società in questione allo schema delle società “di diritto singolare” perché manca nella disposizione di legge una compiuta, e dettagliata, disciplina della società, tale da poterla, si passi la ripetizione, considerare “di diritto singolare”. Peraltro, se l’articolo 103 citato fosse sufficiente per ritenere autorizzata la costituzione di una società “di diritto singolare”, la conseguenza sarebbe l’assenza di una disciplina completa e, sotto altro aspetto, il possibile dubbio circa la compatibilità col principio della concorrenza di origine eurounitaria, interferendo l’attività in questione con servizi potenzialmente incidenti sul mercato.

In conclusione, per la Sezione, la non perspicua formulazione della disposizione di legge, valutati tutti gli aspetti, porta a preferire l’interpretazione che propende per la costituzione di una società in house. La Sezione, tuttavia, non nasconde che la disposizione sia di non semplice interpretazione. Si consideri, ad esempio, la difficoltà di comprendere la portata della locuzione “con criteri imprenditoriali” contenuta al comma 1.

Per tale ragione, fermo il rispetto dovuto alle scelte del Legislatore e dell’amministrazione richiedente il parere, si sottopone al Ministero la possibilità di farsi promotore di una norma “chiarificatrice” nonché di approfondire con l’Autorità garante della concorrenza e del mercato i possibili profili applicativi, prima di rendere concretamente operativo quanto previsto dalla legge.

P.Q.M.

nei termini su esposti e il parere della Sezione.


 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Vincenzo Neri Mario Luigi Torsello
 
 
 
 

IL SEGRETARIO

Carola Cafarelli


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