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Consiglio di Stato, Adunanza Sezione I, 28/12/2021 n. 1984
sull'interpretazione e l’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale 7 ottobre 2020, n. 224 - Quesiti sull’ambito soggettivo di applicazione, contenuti specifici, tempistiche e modalità procedurali.

Sugli effetti della sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma sul ruolo di anzianità dei pubblici dipendenti e della sentenza che pronuncia sulla illegittimità del ruolo di anzianità

Materia: pubblica amministrazione / lavoro

Numero 01984/2021 e data 28/12/2021 Spedizione

REPUBBLICA ITALIANA

Consiglio di Stato

Sezione Prima

Adunanza di Sezione del 10 novembre 2021


NUMERO AFFARE 01209/2021

OGGETTO:

Ministero dell'interno


Richiesta di parere sull'interpretazione e l’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale 7 ottobre 2020, n. 224 - Quesiti sull’ambito soggettivo di applicazione, contenuti specifici, tempistiche e modalità procedurali;

LA SEZIONE

Vista la richiesta del 7 ottobre 2021 con la quale il Ministero dell’interno ha domandato il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;

esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri;


Premesso e considerato

1.La richiesta di parere.

Il Ministero dell’interno riferisce che la Corte costituzionale, con sentenza 7 ottobre 2020, n. 224, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 75, comma 1, d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335, per violazione dei principi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e imparzialità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), nella parte in cui non prevede l'allineamento della decorrenza giuridica della qualifica di vice sovrintendente dei promossi per merito straordinario a quella più favorevole riconosciuta al personale che ha conseguito la medesima qualifica all'esito di concorso o procedura selettiva successivi alla data del verificarsi dei fatti che hanno dato origine alla promozione per merito straordinario.

In seguito alla predetta decisione della Corte costituzionale, il giudice rimettente, T.A.R. per la Sicilia, sez. I, con sentenza 15 febbraio 2021, n. 579, ha accolto il ricorso di sedici appartenenti alla Polizia di Stato, riconoscendo loro il diritto alla retrodatazione giuridica della qualifica di vice sovrintendente a far data dal 10 gennaio 2002, con conseguente obbligo dell’Amministrazione di provvedere alla ricostruzione delle carriere dei ricorrenti.

L'Amministrazione spiega che dalla pronuncia del giudice amministrativo “ha potuto trarre indicazioni non completamente esaustive circa il complesso degli interventi da porre in essere onde dare una traduzione del dispositivo costituzionale poc’anzi ricordato”.

Conseguentemente, il Ministero avverte la necessità di proporre diversi quesiti al Consiglio di Stato “in ordine alle conseguenti modalità attuative, sotto il profilo gestionale”, posto che l’intervento della Corte “impone all'Amministrazione di rivedere la posizione di coloro che nel tempo sono stati lesi dalla formulazione della norma dichiarata incostituzionale (oltre 1.100 dipendenti) e di tradurre sul piano dei concreti provvedimenti gestionali, attraverso una coerente attività amministrativa, il principio dettato dalla Consulta”.

Il Ministero dunque, dopo aver precisato di volere accogliere le osservazioni espresse nel presente parere quali “linee guida dell'azione attuativa conseguente al pronunciamento della Corte costituzionale”, propone i seguenti quesiti:

“1. in tema di delineazione esatta della platea degli interessati alla retrodatazione per "allineamento" delle posizioni dei promossi alla qualifica di vice sovrintendente per merito straordinario a quelle dei partecipanti al primo concorso/scrutinio successivo alla data della promozione, laddove sia prevista una decorrenza più favorevole:

a. se sia corretto procedere all'applicazione della sentenza erga omnes, ossia in favore di tutti i dipendenti che nel passato hanno subito la disparità di trattamento, compresi i soggetti medio tempore cessati dal servizio;

b. se sia corretto riconoscere alle procedure attuative effetti retroattivi, ex tunc, con individuazione del momento di inizio della disparità di trattamento, dies a quo, nella data di decorrenza della vigenza dell'articolo 2 del d.lgs. 28 febbraio 2001, n. 53, che introduce nel d.P.R. n. 335 del 1982, l'art 24-quater, comma 7;

c. se sia corretto individuare il dies ad quem dell'operazione in modo che l'applicazione dell'"allineamento" della decorrenza giuridica in favore di tutti i vice sovrintendenti promossi per merito straordinario operi fino a che le relative decorrenze risultino essere antecedenti all'entrata in vigore del citato secondo d.lgs. correttivo (20 febbraio 2020), anche se deliberate dal competente Consiglio per le ricompense in data successiva;

2. se sia corretto assumere in opportuna considerazione eventuali cause ostative, sia per la retrodatazione della nomina del personale interessato dagli effetti della pronuncia della Consulta, sia per il conseguente accesso alle ulteriori qualifiche;

3. se sia corretto accedere a un posizionamento in ruolo degli interessati, a seguito del riallineamento, "in testa" alla graduatoria di riferimento;

4. alla luce delle differenze applicative eventualmente individuabili tra la retrodatazione per "riallineamento" basata sul dictum della Corte costituzionale e quella fondata sulla "ricostruzione di carriera" da effettuare in applicazione della nuova disciplina introdotta dal secondo correttivo al riordino, il citato articolo 24-quater, comma 2-bis (c.d. "doppio salto", che postula, però, l'onere di partecipazione al concorso o allo scrutinio), se sia corretto impostare la ridefinizione giuridica della progressione di carriera per le situazioni che ricadono sotto l'ambito di applicazione della sentenza in termini di anticipazione della decorrenza nelle qualifiche successive a quella di vice sovrintendente, ovvero, anche in questo caso, attribuire la qualifica di sovrintendente dal giorno di decorrenza della promozione per merito straordinario (applicando, anche per queste ipotesi, il c.d. "doppio salto" previsto a regime e per il futuro);

5. se sia corretto riconnettere anche effetti economici all'acquisizione delle qualifiche successive risultanti dalla ridefinizione giuridica della progressione di carriera, con esclusione, comunque, della precedente retrodatazione per "allineamento" della promozione per merito straordinario (sulla base del reiterato riferimento espresso dalla Corte costituzionale alla sola "decorrenza giuridica" e secondo quanto previsto dall'art. 24-quater, comma 7, del d.P.R. n. 335 del 1982);

6. alla luce dell'esigenza di tutelare la certezza dei rapporti giuridici e attesa la sussistenza di consolidati arresti pretori contrari all'ipotesi di previsione del risarcimento del danno da atto legislativo, se sia corretto che l'Amministrazione si astenga dal riconoscere ristori della perdita di chance derivanti, in capo ai numerosi interessati, dal mancato possesso delle qualifiche idonee a consentire, nel passato, la partecipazione ad altri concorsi interni o a scrutini validi per ulteriori avanzamenti”.


2. Il quadro normativo.

Il Consiglio ritiene utile individuare, in via preliminare, il quadro normativo di riferimento nel quale si collocano le questioni sottoposte dall’Amministrazione.

Il d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335 - Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia - all’art. 3, comma 1, definisce la gerarchia fra gli appartenenti ai ruoli e alla carriera del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia distinguendo – in ordine decrescente – tra funzionari, ispettori, sovrintendenti, assistenti e agenti; nell'ambito dello stesso ruolo o della stessa carriera la gerarchia è determinata dalla qualifica e, nella stessa qualifica, dall'anzianità. L'anzianità è determinata dalla data del decreto di nomina o di promozione; a parità di tale data, da quella del decreto di promozione o di nomina alla qualifica precedente e, a parità delle predette condizioni, dall'età, salvi, in ogni caso, i diritti risultanti dalle classificazioni ottenute negli esami di concorso, negli scrutini per merito comparativo e nelle graduatorie di merito.

Nell’ambito di ciascun ruolo è prevista un’ulteriore suddivisione per qualifica, anch’essa gerarchicamente ordinata. In particolare, il ruolo dei sovrintendenti è suddiviso dall’art. 24-bis del decreto in tre qualifiche (vice sovrintendente, sovrintendente, sovrintendente capo). All’interno della qualifica, la gerarchia dipende dall’anzianità determinata dalla data del provvedimento di nomina o di promozione.

Il successivo art. 24-quater dispone che:

“1. L'accesso alla qualifica iniziale del ruolo dei sovrintendenti della Polizia di Stato avviene, a domanda:

a) nel limite del settanta per cento dei posti disponibili al 31 dicembre di ogni anno, mediante selezione effettuata con scrutinio per merito comparativo e superamento di un successivo corso di formazione professionale, della durata non superiore a tre mesi, espletato anche con modalità telematiche, riservato agli assistenti capo, individuati, in ordine di ruolo, nell'ambito delle domande presentate in un numero non superiore al doppio dei posti disponibili;

b) nel limite del restante trenta per cento dei posti disponibili al 31 dicembre di ogni anno, mediante concorso, espletato anche con modalità telematiche, per titoli ed esame, consistente in risposte ad un questionario tendente ad accertare prevalentemente il grado di preparazione professionale, soprattutto a livello pratico ed operativo, e successivo corso di formazione professionale, della durata non superiore a tre mesi, espletato anche con modalità telematiche, riservato al personale del ruolo degli agenti e assistenti che abbia compiuto almeno quattro anni di effettivo servizio”.

L’inquadramento nel ruolo superiore dei sovrintendenti, nella qualifica iniziale di vice sovrintendente, in deroga ai meccanismi ordinari di progressione in carriera, può essere altresì ottenuto senza concorso, anche in sovrannumero, in ragione della promozione per merito straordinario, ex art. 71 - Promozione per merito straordinario degli appartenenti al ruolo degli agenti e degli assistenti – ai sensi del quale: “1. La promozione alla qualifica superiore può essere conferita anche per merito straordinario agli agenti, agli agenti scelti e agli assistenti, i quali nell'esercizio delle loro funzioni abbiano conseguito eccezionali risultati in attività attinenti ai loro compiti, rendendo straordinari servizi all'Amministrazione della pubblica sicurezza, dando prova di eccezionale capacità e dimostrando di possedere qualità necessarie per ben adempiere le funzioni della qualifica superiore, ovvero abbiano corso grave pericolo di vita per tutelare la sicurezza e l'incolumità pubblica”.

La decorrenza delle promozioni extra ordinem è fissata dall’art. 75, primo comma, “dalla data del verificarsi dei fatti e vengono conferite anche in soprannumero” e sono riassorbibili con le vacanze ordinarie.

In origine, per i dipendenti che avevano superato il concorso per titoli ovvero per titoli ed esame, l’art. 21 - Decorrenza della promozione – prevedeva che “la promozione alla qualifica di vice sovrintendente viene conferita secondo l'ordine di graduatoria del corso, a decorrere dalla data di conclusione del corso stesso” (l’articolo è stato abrogato dall'art. 2 d.lgs. 12 maggio 1995, n. 197(Attuazione dell’art. 3 della legge 6 marzo 1992, n. 216, in materia di riordino delle carriere del personale non direttivo della Polizia di Stato).

Inoltre, l’art. 24-quater del decreto in esame, nella formulazione originaria introdotta dall’art. 2 del decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 197, stabiliva, al sesto comma, che al termine del corso gli idonei conseguivano la nomina a vice sovrintendente nell’ordine determinato dalla graduatoria finale del corso con decorrenza dalla data di fine dello stesso.

Pertanto, in precedenza tra i promossi nella qualifica di vice sovrintendenti per meriti straordinari e i promossi a seguito di concorso non vi era alcuna differenza in ordine alla decorrenza giuridica della nuova nomina. Sennonché le modifiche legislative intervenute successivamente hanno causato un disallineamento relativo alla decorrenza giuridica della progressione in carriera ottenuta secondo modalità ordinarie per concorso o per meriti straordinari.

Infatti, il d.lgs. 28 febbraio 2001, n. 53, con l’art. 2 ha novellato l’art. 24-quater e introdotto il comma 7: “7. I frequentatori che al termine dei corsi di cui ai comma 1, lettere a) e b), abbiano superato l'esame finale, conseguono la nomina a vice sovrintendente nell'ordine determinato dalla rispettiva graduatoria finale del corso, con decorrenza giuridica dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze e con decorrenza economica dal giorno successivo alla data di conclusione del corso medesimo. I vincitori del concorso di cui al comma 1, lettera a), precedono in ruolo i vincitori del Concorso di cui alla successiva lettera b)”.

Il comma 7 è stato a sua volta modificato dall'art. 1, comma 1, lettera h), numero 5), del d.lgs. 29 maggio 2017, n. 95 e, nell’attuale formulazione, dispone: “7. I frequentatori che al termine dei corsi di cui al comma 1, lettere a) e b) , abbiano superato l'esame finale, conseguono la nomina a vice sovrintendente nell'ordine determinato dalla rispettiva graduatoria finale del corso, con decorrenza giuridica dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze e con decorrenza economica dal giorno successivo alla data di conclusione del corso medesimo. Gli assistenti capo ammessi al corso di formazione, a seguito della procedura di cui al comma 1, lettera a), precedono in ruolo i vincitori del concorso di cui alla successiva lettera b). Agli assistenti capo di cui al comma 1, lettera a), è assicurato il mantenimento della sede di servizio”.

Infine, il legislatore, con l'art. 3, comma 1, lettera g), n. 1) del d.lgs. 27 dicembre 2019, n. 172, ha inserito nell’art. 24-quater il comma2-bis che dispone: “resta ferma la facoltà, per il personale che ha conseguito la qualifica di vice sovrintendente per merito straordinario, di presentare istanza di partecipazione alle procedure di cui al comma 1 quando ne consentano l'accesso alla qualifica di vice sovrintendente con una decorrenza più favorevole. L'esito positivo delle procedure di cui al primo periodo rientra nell'ambito delle risorse ad esse destinate. Ai soggetti interessati è assicurata la conseguente ricostruzione di carriera”.


3. La sentenza della Corte costituzionale 27 ottobre 2020, n. 224.

Delineato il quadro normativo, occorre ora esaminare in modo più approfondito la sentenza 27 ottobre 2020, n. 224, con la quale è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, primo comma, del d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335 (Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia), nella parte in cui non prevede l’allineamento della decorrenza giuridica della qualifica di vice sovrintendente promosso per merito straordinario a quella più favorevole riconosciuta al personale che ha conseguito la medesima qualifica all’esito della selezione o del concorso successivi alla data del verificarsi dei fatti”.

La Corte riferisce che il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, primo comma, d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 97, primo comma, della Costituzione.

In sintesi, il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale della disposizione nella parte in cui, ancorando la decorrenza giuridica della promozione per merito straordinario nel ruolo di vice sovrintendente della Polizia di Stato alla data nella quale si è verificato il fatto che ha dato luogo alla promozione stessa, determina, a suo avviso, un’illegittima disparità di trattamento, che si riverbera anche sui principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa, rispetto ai vice sovrintendenti che hanno avuto accesso alla medesima qualifica a seguito di procedure selettive o concorsuali interne, per le quali l’art. 24-quater dello stesso d.P.R. n. 335 del 1982 contempla, al settimo comma, una retrodatazione giuridica nella qualifica alla data del 1° gennaio successivo a quello in cui si sono verificate le vacanze.

L’articolo da ultimo citato prevede dunque una decorrenza giuridica più favorevole e diversa dalla decorrenza giuridica ancorata, invece, per la promozione per merito straordinario (ex primo comma dell’art. 75) alla data del verificarsi dei fatti che hanno giustificato l’attribuzione della qualifica e con ciò determinando, in mancanza di strumenti di riallineamento in favore dei vice sovrintendenti già precedentemente nominati per merito straordinario, l’irragionevole effetto distorsivo lamentato dall’ordinanza di rimessione. È infatti ipotizzabile il superamento di questi ultimi, ai fini dell’accesso alle qualifiche superiori, da parte di assistenti o agenti che abbiano superato il corso-concorso bandito successivamente alla promozione di altri assistenti o agenti per merito straordinario, in virtù della maggiore anzianità di servizio nella qualifica.

La Corte, ricostruito il quadro normativo di riferimento, ritiene fondate le questioni sotto entrambi i profili della violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e del principio di imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).

Osserva il Giudice delle leggi che il meccanismo della retrodatazione della decorrenza giuridica – non di quella “economica” – della nomina (1° gennaio dell’anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze) ad opera del comma 7 del novellato art. 24-quater per i soli vice sovrintendenti che accedono a tale qualifica per concorso o procedura selettiva, senza la contestuale previsione di un meccanismo di riallineamento per i vice sovrintendenti già in precedenza promossi per merito straordinario (rimasto invece inalterato per questi ultimi il disposto dell’art. 75, primo comma) può comportare una illegittima disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost., tra i vice sovrintendenti della Polizia di Stato promossi nella qualifica per merito straordinario e coloro che hanno avuto accesso alla stessa qualifica per concorso o procedura selettiva.

Infatti, posto che la diversità dei percorsi di accesso alla qualifica - di cui, del resto, non è posta in discussione la legittimità - non consente una differenziazione tale da collocare in una posizione più o meno elevata gli uni rispetto agli altri (tant’è che la decorrenza “economica” fa data, in entrambe le ipotesi, dal perfezionamento della nomina) il risultato finale dello “scavalcamento” determinato dalla retroattività “giuridica” nella qualifica riconosciuta solo ai vice sovrintendenti che hanno superato le procedure selettive interne non è legittimo, poiché ridonda in ingiustificata disparità di trattamento e violazione del principio di eguaglianza.

Alla violazione dell’art. 3 Cost., prosegue la Corte, si accompagna anche la violazione dell’art. 97 Cost., poiché l’amministrazione, in ragione del meccanismo della retrodatazione nell’anzianità giuridica della qualifica limitata ai vice sovrintendenti nominati per concorso, finisce per trattare in modo arbitrariamente diverso situazioni simili, ossia quelle di vice sovrintendenti che sono stati nominati con decorrenze giuridiche differenti a seconda delle modalità di accesso alla qualifica.

Ciò posto, la Corte da ultimo osserva altresì che “8.– La ritenuta ingiustificatezza della disciplina differenziata e del conseguente “scavalcamento” da parte dei vice sovrintendenti, che hanno avuto accesso alla qualifica per concorso o procedura selettiva, rispetto a quelli già prima promossi nella medesima qualifica per merito straordinario, trova riscontro e conferma nella circostanza che l’“ingiustizia” è stata avvertita dallo stesso legislatore, il quale, come già evidenziato, per il futuro ha dettato, nell’art. 3, comma 1, lettera g), numero 1), del d.lgs. n. 172 del 2019, la già richiamata regola del comma 2-bis dello stesso art. 24-quater del d.P.R. n. 335 del 1982; regola che consente ai vice sovrintendenti promossi per merito straordinario di accedere, al fine di beneficiare di una decorrenza giuridica più favorevole, ai concorsi e alle selezioni previste per la medesima qualifica già posseduta.

Ciò connota anche di specialità la fattispecie qui esaminata rispetto a quelle interessate in passato da altri meccanismi di allineamento dell’anzianità di servizio che, in situazioni diverse, il legislatore ha ritenuto di abbandonare abrogandoli (sentenza n. 24 del 2018).

9.– La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata può farsi – con riferimento alla fattispecie in esame – escludendo lo “scavalcamento” nella decorrenza giuridica della qualifica di vice sovrintendente da parte di coloro che l’abbiano conseguita con procedura concorsuale o selettiva (e quindi dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze) in un momento successivo rispetto alla nomina di quelli che la stessa qualifica abbiano in precedenza già ottenuto per merito straordinario (e quindi con decorrenza «dalla data del verificarsi dei fatti» posti a fondamento della nomina stessa).

Ciò può realizzarsi mediante il necessario riallineamento della decorrenza giuridica della nomina di questi ultimi a quella dei primi nell’ipotesi in cui, in concreto, tale evenienza si verifichi, senza peraltro che ciò incida sulla decorrenza economica che – come già rilevato – non soffre la differenziazione qui censurata”.


4. La decisione adottata dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia.

Il Tar per la Sicilia, sez. I, 15 febbraio 2021, n. 579, si è pronunciato sulla richiesta di accertamento del diritto dei ricorrenti (vice sovrintendenti della Polizia di Stato promossi, per meriti straordinari, ai sensi degli artt. 72 e 75 d.P.R. 335/82, negli anni 2006 e 2007) alla retrodatazione dell'attribuzione della loro qualifica a far data dal 1° gennaio 2002, data di decorrenza della immissione in ruolo dei vincitori del concorso bandito con d.m. 22 aprile 2008 per la nomina alla qualifica di vice sovrintendente del ruolo dei sovrintendenti della Polizia di Stato, riservato al personale in possesso della qualifica di Assistente Capo alla data del 31 dicembre 2001.

In questi termini è la decisione del giudice di primo grado: “Per le ragioni chiaramente esposte dalla Consulta, il ricorso merita accoglimento con conseguente obbligo dell’amministrazione di procedere al riallineamento della decorrenza giuridica della nomina a vice sovrintendenti dei ricorrenti, ottenuta per merito straordinario, a quella di chi l’ha invece ottenuta attraverso procedura concorsuale. Nella specie, a seguito del mutato quadro normativo, come modificato ex tunc per effetto dalla pronuncia della Consulta, i ricorrenti hanno diritto alla retrodatazione dell’attribuzione della qualifica di Vice Sovrintendenti della Polizia di Stato a far data dal 1° gennaio 2002, data di decorrenza della immissione in ruolo dei vincitori del concorso bandito con D.M. 22 aprile 2008, il primo bandito dopo i fatti che hanno determinato la promozione per meriti straordinari degli stessi ricorrenti (anni 2006/2007) con conseguente ricostruzione della carriera”.

La Sezione osserva che, da un’interrogazione del sistema, non emerge che sia stato proposto appello avverso la citata sentenza e, dunque, occorre presumere che la stessa sia passata in giudicato.


5. I limiti all’attività consultiva.

5.1. I quesiti formulati dal Ministero impongono di ricostruire l’esatto perimetro della funzione consultiva assegnata dalla Costituzione al Consiglio di Stato (art. 100, comma 1, Cost.)

Come è noto, accanto ai pareri obbligatori si affiancano i pareri facoltativi, i quali possono essere diretti o all’esame di atti normativi per cui non è obbligatoria la richiesta di parere al Consiglio di Stato o a risolvere questioni concernenti l’interpretazione o l’applicazione del diritto, in questo caso prendendo la forma di “quesiti” sull’interpretazione delle norme. Codesti pareri hanno in particolare una “funzione di ausilio tecnico-giuridico indispensabile per indirizzare nell’alveo della legittimità e della buona amministrazione l’attività di amministrazione attiva” (Consiglio di Stato, Ad. gen., 18 gennaio 1980, n. 30).

Dopo le modifiche introdotte con l’articolo 17 della legge 15 maggio 1997, n. 127, il parere facoltativo deve riguardare solo “le attività che più incisivamente impegnano l’azione del Governo o degli altri organi di maggior rilevanza dello Stato-ordinamento e non può essere attivata da una mera pretesa o esigenza dell’amministrazione interessata, la quale, al contrario, deve esporre, nella sua richiesta di parere, i rilevanti motivi di interesse pubblico strumentali alle attività fondamentali o comunque più significative, che quasi impongono il ricorso al parere facoltativo, il quale, altrimenti, andrebbe a sovrapporsi all’esclusiva autonomia e responsabilità dirigenziale” (Consiglio di Stato, Sez. II, 25 luglio 2008, n. 5172). Nell’esercizio dell’attività consultiva, il Consiglio di Stato, quale organo di consulenza imparziale e terzo dello Stato-ordinamento e non dello Stato-apparato, non è destinato dunque a supportare le scelte decisionali delle Amministrazioni, quante volte esse ritengano, a loro discrezione, di avvalersi della consulenza del Consiglio stesso, dal momento che la funzione consultiva svolta nell’interesse non dell’ordinamento generale, ma dell’Amministrazione assistita, compete all’Avvocatura dello Stato.

Il Consiglio di Stato fornisce il proprio parere solo su questioni di massima, la cui soluzione potrà guidare la successiva azione amministrativa nel suo futuro esplicarsi (Consiglio di Stato, Sez. II, 9 marzo 2011, n. 1589; Comm. Spec., 26 settembre 2017, n. 2065).

In altri termini, va esclusa la possibilità di emettere pareri su aspetti minimali relativi ad “un ordinario segmento del procedimento amministrativo” (Consiglio di Stato, Sez. I, 2 febbraio 2012, n. 1), in quanto il supporto consultivo, da un lato, non può e non deve sostituirsi all’amministrazione nel dovere di provvedere (cfr. pareri n. 118/02; n. 2994/02; n. 9/03; n. 1212/03; n. 1274/03; n. 82/99; n. 4212/02; n. 2564/02; n. 2250/2007) e, dall’altro, non può invadere l’ambito di operatività delle attribuzioni dell’Avvocatura dello Stato nella sua funzione generale di consulenza alle pubbliche amministrazioni.

Ciò è pienamente coerente con l’idea “di un’evoluzione sostanziale delle funzioni consultive del Consiglio di Stato di cui all’articolo 100 della Costituzione” e con la necessità di inquadrare le funzioni consultive “in una visione sistemica e al passo coi tempi, confermando il ruolo del Consiglio di Stato come un advisory board delle Istituzioni del Paese anche in un ordinamento profondamente innovato e pluralizzato” (cfr. pareri: Comm. Spec., 18 ottobre 2017, n. 2162; Comm. Spec., 17 gennaio 2017, n. 83; Comm. Spec., 2 agosto 2016, n. 1767). Così ragionando, le funzioni consultive del Consiglio di Stato si rivolgono, nella prassi più recente, oltre che a singoli ‘atti’, anche a sostenere “i ‘processi’ di riforma, accompagnandoli in tutte le loro fasi e indipendentemente dalla natura degli atti di attuazione, fornendo sostegno consultivo ai soggetti responsabili dell’attività di implementazione” (Consiglio di Stato, Comm. spec., 2 agosto 2016, n. 1767).

Va inoltre aggiunto, per quanto di rilevanza nel presente quesito, che il Consiglio ha reiteratamente escluso la “possibilità di richiedere pareri facoltativi su materie o fattispecie per le quali già siano pendenti o in corso di attivazione controversie giurisdizionali” (parere 2941/2005).

In talune pronunce è stato inoltre affermato che “in presenza di contrasti interpretativi già insorti, la richiesta di parere è inammissibile” (Consiglio di Stato, Sez. II, 26 giugno 2013, n. 3006 e Sez. II, 9 marzo 2011, n. 1589). Dai summenzionati pareri si evince come l’attività consultiva, di tipo facoltativo, non possa richiedersi quando vada ad incidere, direttamente od indirettamente, su un contenzioso in atto, o potenziale, avente lo stesso oggetto del quesito posto dall’amministrazione, poiché in tali casi l’esercizio della funzione consultiva potrebbe dar luogo ad indebite sovrapposizioni, che arrecherebbero un vulnus al principio di imparzialità del giudice e di parità fra le parti, sancito espressamente oggi a livello costituzionale dall’art. 111, comma 2, della Costituzione (cfr. pareri n. 118/02; n. 2994/02; n. 9/03; n. 1212/03; n. 1274/03; n. 82/99; n. 4212/02; n. 2564/02; n. 2250/2007).

Questa Sezione ha ribadito, di recente, tale orientamento affermando che per garantire il corretto equilibrio istituzionale, va esclusa la «possibilità di richiedere pareri facoltativi su materie o fattispecie per le quali già siano pendenti o in corso di attivazione controversie giurisdizionali» (Consiglio di Stato, Sez. I., 13 novembre 2020, n. 1807).

5.2. Per tali ragioni le risposte ai quesiti oggi posti dal Ministero saranno fornite nei limiti di ciò che è consentito dall’ordinamento.

Giova, altresì, affermare con la dovuta chiarezza che il presente parere si limiterà a individuare i principi consolidati che reggono la materia; non sarà effettuata, né espressamente né implicitamente, qualsivoglia interpretazione della sentenza della Corte costituzionale in relazione al caso specifico.


6. La sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale.

Occorre ricordare innanzi tutto che l’art. 136 Cost. dispone che, quando la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

Inoltre, l’art. 30 l. 11 marzo 1953, n. 87, prevede che “la sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, entro due giorni dal suo deposito in Cancelleria, è trasmessa, di ufficio, al Ministro di grazia e giustizia od al Presidente della Giunta regionale affinché si proceda immediatamente e, comunque, non oltre il decimo giorno, alla pubblicazione del dispositivo della decisione nelle medesime forme stabilite per la pubblicazione dell'atto dichiarato costituzionalmente illegittimo.

La sentenza, entro due giorni dalla data del deposito viene, altresì, comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario adottino i provvedimenti di loro competenza.

Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”.

Va osservato che l’invalidità della legge impugnata per contrasto con norme gerarchicamente superiori non produce effetto ipso iure, ma va affermata con una sentenza di natura costitutiva, vincolante erga omnes, che riguarda tutti i soggetti dell’ordinamento e tutti i rapporti non ancora definiti.

Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale, anche solo parziale, della disposizione impugnata che, come visto, cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione (ex art. 136 Cost.).

È stato correttamente osservato dalla dottrina che un’interpretazione letterale dell’art. 136 Cost. lascerebbe qualificare l’effetto delle sentenze di accoglimento come una sorta di abrogazione, dal momento che la norma perde efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, riguardando, pertanto, solo i rapporti futuri e non quelli pendenti alla data della decisione.

In tal modo, tuttavia, si creerebbe una sorta di “corto circuito” con il meccanismo dell’instaurazione del giudizio di costituzionalità in via incidentale, poiché, da un lato, il giudice rimettente può sollevare la questione di incostituzionalità, sul presupposto della sua rilevanza nel giudizio a quo, e, dall’altro, la decisione di incostituzionalità non dovrebbe poter produrre effetti proprio sul giudizio a quo in quanto la sua efficacia riguarderebbe solo i rapporti futuri.

La migliore dottrina sul punto ha rilevato che in un ordinamento a Costituzione rigida sarebbe contraddittorio che leggi dichiarate costituzionalmente illegittime continuino a spiegare effetti; peraltro, se la “perdita di efficacia” valesse solo per l’avvenire, nessuna parte solleverebbe la questione di legittimità costituzionale “per il semplice motivo che non ne avrebbe interesse”.

L’incongruenza lamentata – da parte di autorevole dottrina definita “assurda” – è stata superata con l’interpretazione dell’art. 136 Cost. ad opera del citato art. 30 l. 11 marzo 1953, n. 87, articolo quest’ultimo che ha chiarito che le norme dichiarate incostituzionali “non possono avere applicazione” dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Pertanto, la “perdita di efficacia” dell’art. 136 Cost. diventa “perdita di ulteriore applicabilità” delle norme dichiarate incostituzionali, con riferimento a tutti i rapporti, anche quelli già pendenti. In questo senso l’effetto delle sentenze di accoglimento è qualificato in termini di “annullamento” della legge dichiarata incostituzionale che viene espunta dall’ordinamento, mentre le leggi soltanto abrogate da ulteriori disposizioni di legge (fatte salve eventuali previsioni di retroattività delle norme successive) continuano ad applicarsi ai rapporti ancora pendenti alla data dell’abrogazione.

Il limite all’efficacia delle sentenze di accoglimento è invece rappresentato dai rapporti ormai esauriti per effetto di prescrizione, decadenza o passaggio in giudicato di una sentenza, prevalendo in questi casi il principio di certezza del diritto.

In altri termini, mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico, salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si è realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto.

Unica eccezione alla regola appena descritta si realizza in materia penale, come chiaramente disposto dall’art. 30, comma 4, l. 11 marzo 1953, n. 87. Si tratta in questo caso di un’applicazione del principio già stabilito dall’articolo 2, comma 2, c.p., nonché “dalla particolare tutela della libertà personale voluta dalla nostra Costituzione”.


7. Gli effetti della sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale nel diritto amministrativo.

Come ora spiegato, dunque, nel nostro sistema di giustizia costituzionale è jus receptum l’affermazione secondo la quale le pronunce della Consulta producono effetti tanto per il passato quanto per il futuro. Per la giurisprudenza, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes e la norma di diritto c.d. sostanziale (ma anche la norma processuale) - dichiarata incostituzionale - cessa di operare dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale nella gazzetta ufficiale, ai sensi dell'art. 30, l. 11 marzo 1953, n. 87; inoltre, avendo l'illegittimità costituzionale per presupposto l'invalidità originaria della legge, sia essa di natura sostanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costituzionale, le pronunce di accoglimento del giudice delle leggi - dichiarative di illegittimità costituzionale - eliminano la norma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione.

Resta fermo naturalmente il principio che gli effetti dell'incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità (ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, 12 luglio 2018, n.4264). La Corte costituzionale – con principio poi che è stato esteso anche alle sentenze e ai pareri del Consiglio di Stato (si veda Cons. Stato, parere 30 giugno 2020, n. 1233) – poi può modularne gli effetti attraverso specifiche indicazioni che, come affermato dalla dottrina, hanno lo “scopo di evitare che alcune pronunce, se operative su tutti i rapporti non ancora esauriti, produc(essero)ano danni così rilevanti, da mettere in ombra i benefici della dichiarazione di incostituzionalità”.

Per una disamina esaustiva degli effetti della sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale occorre allora verificarne le conseguenze nel giudizio a quo, nei rapporti pendenti e, infine, con riferimento ai rapporti esauriti.


7.1. Nel giudizio a quo.

La sentenza della Corte costituzionale è vincolante per il giudice a quo che, nel continuare il giudizio dopo la restituzione degli atti da parte della Corte, si trova di fronte all’avvenuto accertamento di illegittimità della legge, accertamento di illegittimità che la rende inapplicabile e che non può non vincolare il giudice a quo.

Del resto, per costante giurisprudenza costituzionale (ex multis, Corte Cost. n. 303/07), ai fini dell’ingresso della questione di costituzionalità sollevata nel corso di un giudizio dinanzi ad un’autorità giurisdizionale, è requisito necessario, unitamente al vaglio della non manifesta infondatezza, che essa sia rilevante, ovvero che investa una disposizione avente forza di legge di cui il giudice rimettente è tenuto a fare applicazione, quale passaggio obbligato ai fini della risoluzione della controversia oggetto del processo principale.

La rilevanza della questione di costituzionalità comporta, dunque, che, primo fra tutti, il giudice rimettente dovrà fare applicazione concreta della decisione della Consulta nella soluzione della controversia a lui sottoposta.

Ciò è quanto accaduto, come sopra visto, nel caso qui in esame: il Tar per la Sicilia, sez. I, 15 febbraio 2021, n. 579 ha dichiarato infatti che “i ricorrenti hanno diritto alla retrodatazione dell’attribuzione della qualifica di Vice Sovrintendenti della Polizia di Stato”.


7.2. Nei rapporti esauriti

7.2.1. L'efficacia retroattiva della sentenza (ossia l’annullamento ex tunc della norma censurata oggetto della declaratoria di incostituzionalità) che dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate e intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale.

Per la Corte Costituzionale, “a differenza dello ius superveniens, che attiene alla «vigenza normativa», la dichiarazione di illegittimità costituzionale rimuove la norma censurata dall'ordinamento in quanto affetta da una invalidità «genetica», legata al sistema di gerarchia delle fonti: invalidità che impone di considerarla tamquam non fuisset, con il solo limite - non del giudicato - ma di quegli effetti «già compiuti e del tutto consumati», per loro natura insuscettibili di neutralizzazione”(Corte cost.. 16 aprile 2021, n. 68).

Più nello specifico, con sentenza 8 ottobre 2021, n. 191, la Corte Costituzionale ricorda che “per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la cosiddetta efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale incontra il limite dei rapporti esauriti, tra i quali rientrano quelli che non possano più dare materia a un giudizio in ragione della disciplina dei termini di inoppugnabilità degli atti amministrativi (sentenza n. 10 del 2015, ordinanza n. 135 del 2010)”.


7.2.2. Occorre ora qui, affrontare più in dettaglio, quanto già esposto al § 7 in relazione alla materia penale (atteso il chiaro tenore dell’ultimo comma dell’art. 30 l. 11 marzo 1953, n. 87), non perché rilevante per la risposta ai quesiti formulati ma per l’individuazione di una regola vigente nella materia penale che è certamente diversa da quella esistente nel diritto amministrativo, come più ampiamente si esporrà al § 7.2.3.

Come prima anticipato, la ragione per cui in materia penale la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme travolge il giudicato risiede nella considerazione della gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà o su altri interessi fondamentali della persona. La Corte Costituzionale ha chiaramente affermato che “il principio della retroattività degli effetti delle pronunce di illegittimità costituzionale di cui al terzo comma del medesimo articolo - che, come questa Corte ha più volte ribadito, «è (e non può non essere) principio generale valevole nei giudizi davanti a questa Corte» (da ultimo, sentenza n. 10 del 2015) - si estende oltre il limite dei rapporti esauriti nel solo ambito penale, in considerazione della gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà o su altri interessi fondamentali della persona” (Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 43).

In termini ancora più chiari, si è stabilito che esiste un principio “in base al quale le sentenze di accoglimento producono i loro effetti anche sui rapporti sorti precedentemente, purché, però, non definitivamente "chiusi" sul piano giuridico; dunque, con esclusione dei rapporti «esauriti» (sentenze n. 10 del 2015, n. 1 del 2014, n. 3 del 1996, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966; ordinanza n. 135 del 2010), quali, anzitutto, quelli coperti sul piano processuale dal giudicato (sentenze n. 235 del 1989, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966). Soluzione, questa, coerente con l'esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche (sentenze n. 10 del 2015 e n. 26 del 1969).

Il quarto comma dell'art. 30 della legge n. 87 del 1953, … pone, tuttavia, una regola specifica e distinta con riguardo alla materia penale, stabilendo che «[q]uando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali».

Come emerge anche dai relativi lavori parlamentari, si tratta di regola suggerita dalle peculiarità della materia considerata e dalla gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà personale o su altri interessi fondamentali dell'individuo” (Corte cost. 16 aprile 2021, n. 68).


7.2.3 Nel diritto amministrativo, a differenza che nel diritto penale (si veda il precedente § 7.2.2), l'efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale si arresta, invece, dinanzi ai rapporti esauriti.

Il ruolo affidato alla Corte come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, «effetti ancor più incompatibili con la Costituzione» (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l'affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro.

Per la Corte è pacifico che l'efficacia delle sentenze di accoglimento non retroagisce fino al punto di travolgere le «situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti». Diversamente, ne risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici (sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966).

Pertanto, il principio della retroattività «vale [...] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla sentenza n. 1 del 2014). In questi casi, l'individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina di settore - relativa, ad esempio, ai termini di decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi - che precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra nell'ambito dell'ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice comune (principio affermato, ex plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n. 49 del 1970 e poi ribadito con ordinanza 135 del 2010, sentenza 10 del 2015 e 191 del 2021).

Nel diritto amministrativo, dunque, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge non può travolgere i provvedimenti amministrativi ormai divenuti definitivi per mancata impugnazione o per formazione del giudicato sulla relativa controversia.

Tra i provvedimenti amministrativi soggetti alla disciplina ora esposta vi rientra certamente anche il ruolo di anzianità del personale di una pubblica amministrazione – soprattutto se in regime di diritto pubblico – relativamente alle specifiche posizioni ricoperte da ciascun dipendente. Conseguentemente le posizioni in ruolo non tempestivamente contestate dai singoli interessati, con riferimento al posto in cui sono collocati, nell’ordinario termine di decadenza previsto per impugnare innanzi al giudice amministrativo (sessanta giorni decorrenti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 29 e 41 c.p.a., “dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge”) si consolidano, resistendo dunque anche alle pronunce di illegittimità costituzionale. Tale regola, oltre che scaturire dai principi prima esposti, ha un fondamento logico perché evita che, come nel caso sottoposto all’attenzione di questo Consiglio da parte del Ministero, si rimettano in discussione assetti amministrativi consolidati risalenti anche a venti anni orsono e riferibili pure a soggetti che non hanno mai preso parte a giudizi.

Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha nel tempo affermato che le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall'origine la validità e la efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche "consolidate" per effetto di eventi che l'ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudicato, l'atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza (Cass., sez. III, 28 luglio 1997, n. 7057; nello stesso senso sez. I, 14 maggio 1999, n. 4766; sez. I 7 giugno 2000, n. 7704; sez. I 25 giugno 2001, n. 10115; in relazione ai rapporti di lavoro, sez. lavoro, 25 agosto 2003, n. 12454).


7.3. Nei giudizi ancora pendenti innanzi al giudice amministrativo.

7.3.1. L’efficacia retroattiva delle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale non è dunque illimitata ma al contrario presuppone che i rapporti su cui la decisione può produrre effetti siano ancora “non esauriti” o perché relativi al giudizio a quo o perché incardinati in altri giudizi ancora pendenti in cui non è stata sollevata questione di legittimità costituzionale.

L’indagine sulla c.d. fase discendente del giudizio di costituzionalità, ossia del seguito nei giudizi amministrativi ancora pendenti, diversi da quello a quo, della dichiarazione di incostituzionalità di una norma sulla genesi o sull’esercizio del potere amministrativo, si traduce in un’indagine sulla sorte del provvedimento amministrativo adottato sulla base della disposizione incostituzionale, se cioè questo debba essere considerato inesistente, nullo o annullabile.

Nella fase discendente, osserva la dottrina, si ripropone una tensione tra dimensione soggettiva dei vincoli imposti dai motivi di ricorso e dimensione oggettiva dell’interesse al controllo di costituzionalità che sembrerebbe attribuire al giudice un potere eccezionale, cioè al di là delle regole processuali del giudizio amministrativo di annullamento di un atto anche per un motivo diverso da quello fatto valere dal ricorrente. Tale tensione non emerge tanto nel giudizio amministrativo in cui la questione di costituzionalità è stata sollevata (giudizio a quo), quanto nei giudizi amministrativi pendenti, in cui sia stato impugnato un provvedimento adottato sulla base della norma oggetto del giudizio di costituzionalità.

In definitiva, dovrà verificarsi se in questi casi il potere di annullamento (d’ufficio) dell’atto impugnato, al di fuori dei vizi dedotti dal ricorrente, trovi o meno significativo ostacolo nel principio della domanda, costituendo una peculiare limitazione agli effetti erga omnes del sindacato di costituzionalità.

7.3.2. In una prima fase (dal 1956 al 1963), le decisioni del Consiglio di Stato sono state oscillanti e hanno considerato l’atto amministrativo emesso sulla base di norma dichiarata incostituzionale inesistente, a volte con conseguente improcedibilità del ricorso proposto contro di esso, a volte con la necessità di una dichiarazione di difetto di giurisdizione a conoscere del ricorso proposto. Altre decisioni, invece, hanno affermato la sopravvivenza dell’atto amministrativo considerandolo annullabile.

7.3.3. Sul tema decisiva è la pronuncia dell’Adunanza Plenaria 8/1963 che fa discendere dall’efficacia della pronuncia d’incostituzionalità della legge l’annullabilità dell’atto amministrativo ed afferma, inoltre, che il vizio dell’atto amministrativo fondato su norme incostituzionali non incontra i limiti derivanti dal non essere stato denunciato nel relativo giudizio, né quello del diverso apprezzamento espresso precedentemente dal giudice sullo stesso vizio.

Quando, con la dichiarazione di incostituzionalità, la legge perde l’efficacia, la conseguenza che bisogna trarre” relativamente agli atti amministrativi “è solo che vi è stata una illegittima attribuzione di potestà discrezionale”, quindi “l’esercizio di un potere viziato per riflesso del vizio di costituzionalità che inficia la norma attributiva”.

La pronuncia smentisce definitivamente la teoria, sino allora sostenuta, della inesistenza degli atti amministrativi emanati in base ad una norma dichiarata incostituzionale; ciò che rileva infatti, secondo l’Adunanza Plenaria, per l’esistenza dell’atto è che l’amministrazione abbia agito nell’esercizio di funzioni attribuite dalla legge vigente al momento in cui l’atto è stato emanato.

Così l’Adunanza Plenaria: “la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha efficacia ex tunc, salvo il limite degli effetti irrevocabilmente prodotti dalla norma incostituzionale (situazioni e rapporti divenuti incontrovertibili per il maturarsi di termini di prescrizione o di decadenza, o perché definiti con giudicato, etc.) ed opera erga omnes, cioè anche fuori dell’ambito del rapporto processuale in cui è stato sollevato l’incidente di incostituzionalità, distinguendosi dalla abrogazione della legge, perchè si estende ai fatti anteriori.

La norma dichiarata incostituzionale non può dichiararsi inesistente (con conseguente inesistenza dell’organo creato in base ad essa e degli atti emessi da tale organo). Fra legge ed atto amministrativo non sussiste un rapporto di consequenzialità analogo a quello ravvisabile tra atto preparatorio e atto finale del procedimento amministrativo. L’atto amministrativo, quale manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ha una sua vita ed una sua individualità propria e non resta direttamente travolto dalla cessazione di efficacia della legge. … L’invalidità dell’atto derivata dalla incostituzionalità della norma non ha sempre pieno effetto satisfattorio, indipendentemente dalla rimozione reale dell’atto stesso. Il giudice amministrativo, pertanto, richiesto della pronunzia di annullamento dell’atto per tale causa non può limitarsi a dichiarare la cessazione della materia del contendere, privando il ricorrente della possibilità di rendere coercibile l’esecuzione del giudicato relativo ad un dovere giuridico della P.A. solo incidentalmente affermato nella motivazione.

La dichiarazione di incostituzionalità di una norma che attribuisce alla P.A. un potere discrezionale, non trasforma ex tunc le originarie posizioni di interesse legittimo in diritti soggettivi, privando di giurisdizione l’adito Consiglio di Stato. Infatti nel momento della emanazione dell’atto il potere discrezionale non poteva dirsi mancante ma veniva esercitato in base ad una legge viziata di incostituzionalità (…) i ricorsi impostati sulla intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale vanno decisi dal giudice amministrativo tenendo presente che l’atto amministrativo continua ad avere vita autonoma finché non sia rimosso con uno degli strumenti a ciò idonei e che persiste l’interesse di chi ne ha chiesto l’annullamento ad ottenerlo. Tale annullamento va pronunziato sia se la questione incidentale è stata sollevata nel corso del giudizio risolvendosi in un motivo di impugnazione dell’atto, sia se pur essendo stata sollevata non sia stata ancora delibata dal giudice amministrativo al momento della intervenuta pronunzia della Corte Costituzionale, non avendo rilievo la circostanza che la fondatezza del dubbio di costituzionalità sia stata accertata nel corso del medesimo giudizio o nel corso di altro giudizio”.

7.3.4. Questo orientamento che, in definitiva, vuole l’atto amministrativo emanato sulla base di una legge successivamente dichiarata incostituzionale, anche se invalido, produttivo dei suoi effetti sino alla sua formale rimozione a mezzo dell’annullamento (purché non sia già divenuto definitivo e/o non sia “sceso” il giudicato sulla relativa controversia), è stato confermato in seguito dalla giurisprudenza e dalla dottrina.

La giurisprudenza amministrativa ha infatti utilizzato la categoria dell’invalidità “sopravvenuta” (o “derivata”), alludendo ad un atto amministrativo conforme al proprio modello legale nel momento della emanazione e, quindi, nel momento di esercizio del potere sotteso, ma divenuto viziato a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della stessa norma, attributiva o regolativa.

7.3.5. Posta l’utilizzabilità della categoria della invalidità derivata e del regime della annullabilità, si pone il problema del rilievo ex officio, degli spazi di esercizio del potere di annullamento e se tale potere sia vincolato ad un motivo del ricorso.

La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che “legittimamente il giudice adito annulla l'atto impugnato fondato su una norma dichiarata incostituzionale, anche nel caso in cui la relativa questione non abbia formato oggetto di uno specifico motivo di ricorso, considerato che detto giudice è chiamato, sia pur in modo indiretto o implicito, a far applicazione della norma nella quale trova legittimazione l'atto impugnato” (Consiglio di Stato, sez. V, 6 febbraio 1999, n. 138).

Sempre che il relativo giudizio sia ancora pendente al momento della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, dunque, la mancata deduzione del vizio derivabile dalla pronuncia di incostituzionalità in seno al ricorso introduttivo non comporta, quindi, né la preclusione della deduzione, né la necessità di deduzione integrativa (con motivi aggiunti). In questo modo, è stato osservato dalla dottrina, la disciplina del processo amministrativo è stata sottoposta ad una interpretazione di adeguamento alle dinamiche del controllo di costituzionalità in via incidentale.

Unico limite rimane tuttavia la pendenza della controversia e la rilevanza della questione ai fini della decisione del giudice amministrativo. La giurisprudenza afferma infatti che il giudice non può applicare d’ufficio l’intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale della norma in ipotesi in cui, ex ante, non avrebbe potuto sollevare, di ufficio o su istanza di parte, la questione di legittimità costituzionale della norma predetta per difetto di rilevanza. È stato correttamente osservato in dottrina che l’interesse generale che norme dichiarate incostituzionali non trovino più applicazione legittima sì il potere di annullamento ex officio, ma questo elemento di novità e di tensione nel processo amministrativo deve rimanere pur sempre ancorato ai motivi del ricorso, essendo l’esame della norma utile ai fini della decisione, e all’attuale pendenza della controversia.

7.3.6. La giurisprudenza ha inoltre distinto tra le norme sul quomodo di esercizio del potere e quelle sulla genesi del potere, aggiungendo che il rilievo d’ufficio dell’incostituzionalità della norma non incontra il limite dei motivi del ricorso quando la Corte costituzionale dichiari illegittima una norma sulla “genesi” del potere. In questo caso, sempre che il relativo giudizio sia ancora pendente al momento della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, il giudice amministrativo può esercitare un potere di annullamento d’ufficio, anche quando il ricorrente abbia assunto come violate tutt’altre norme (così Consiglio di Stato, sez. VI, 20 novembre 1986, n. 855: “la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma nella quale trova esclusivo fondamento il potere esercitato dalla p.a. con il provvedimento impugnato, svolge i suoi effetti ex tunc nei giudizi in corso, comportando l’illegittimità del provvedimento stesso, del quale va dichiarato l’annullamento con sentenza del giudice amministrativo”)

L’orientamento giurisprudenziale appena riferito è stato confermato dal Consiglio di Stato, riaffermando la tesi dell’annullabilità dell’atto amministrativo e distinguendo tra norme incostituzionali che incidono sull’an o sul quomodo del potere amministrativo solo ai fini del potere di rilievo officioso che non può essere esercitato quando la norma sul quomodo del potere dichiarata incostituzionale non sia stata richiamata dal ricorrente nei motivi di ricorso o si sia altrimenti esaurito il potere.


8. Estensione del giudicato amministrativo e suoi limiti.

L’articolo 2909 c.c. dispone che l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (c.d. efficacia soggettiva del giudicato).

Nel diritto amministrativo, è jus receptum che la decisione di annullamento di un provvedimento - che per i limiti soggettivi del giudicato esplica in via ordinaria effetti solo fra le parti in causa - acquista efficacia erga omnes esclusivamente nei casi di atti a contenuto inscindibile, ovvero di atti a contenuto normativo (regolamenti) o amministrativi generali, rivolti a destinatari indeterminati ed indeterminabili a priori, in relazione ai quali gli effetti dell'annullamento non sono circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi in presenza di un atto a contenuto generale sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può esistere per taluni e non esistere per altri (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 4 aprile 2018, n. 2097).

Per insegnamento costante, e risalente nel tempo, invece, l’annullamento giurisdizionale dell'atto plurimo e scindibile (sulla nozione si veda, Cons. Stato, sez. VI, 13 febbraio 2009, n. 765), qual è il ruolo di anzianità di una pubblica amministrazione, non può avere efficacia erga omnes ma solo effetti inter partes. Ed invero, sarebbe errato ammettere l’applicazione dello stesso principio di efficacia generalizzata ultra partes della sentenza di annullamento degli atti inscindibili perché significherebbe sottrarre i singoli destinatari dell’atto plurimo – che sono portatori di uno specifico interesse personale e differenziato in relazione ad una volontà amministrativa rivolta distintamente a più destinatari occasionalmente raggruppati in un unico provvedimento – dai principi del processo impugnatorio e dei relativi termini decadenziali (Cons. Stato, sez. V, 15 dicembre 2005, n. 7144). In tal caso la diligenza e la solerzia di alcuni andrebbe a beneficio di coloro che non hanno fatto valere tempestivamente il loro diritto di difesa.

Con specifico riferimento al pubblico impiego occorre inoltre considerare che l’art. 1, comma 132, l. 30 dicembre 2004, n. 311 dispone che “per il triennio 2005-2007 è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di cui agli articoli 1, comma 2, e 70, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, di adottare provvedimenti per l'estensione di decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato, o comunque divenute esecutive, in materia di personale delle amministrazioni pubbliche” e che il successivo art. 41, comma 6, l. 207/2008 prevede che “il divieto di cui all'articolo 1, comma 132, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, è prorogato anche per gli anni successivi al 2008”.

La giurisprudenza di questo Consiglio ha di recente ricordato che: “in tema di divieto di estensione di decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato nel pubblico impiego, la posizione giuridica di coloro che abbiano presentato un tempestivo ricorso avverso un atto di macro-organizzazione si differenzia sotto il profilo soggettivo da quella degli altri dipendenti che avevano prestato acquiescenza nei confronti del suddetto atto rimanendo inattivi. Il giudicato amministrativo, in assenza di norme ad hoc nel c.p.a., è sottoposto alle disposizioni generali sul processo civile, per cui il giudicato opera solo inter partes, secondo quanto prevede per il giudicato civile l' art. 2909 c.c. e, quindi, sono eccezionali i casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes, i quali si giustificano solo grazie all'inscindibilità degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del vizio dedotto (nel caso in esame il provvedimento impugnato aveva ad oggetto una vicenda amministrativa specifica e temporalmente circoscritta, ossia la mobilità connessa alla c.d. «riforma della Buona Scuola” (Consiglio di Stato, sez. VI, 26 gennaio 2021, n. 799).

Anche l’Adunanza Plenaria, sempre di recente, ha ribadito che: “Il giudicato amministrativo ha di regola effetti limitati alle parti del giudizio e non produce effetti a favore dei cointeressati che non abbiamo tempestivamente impugnato; i casi di giudicato con effetti ultra partes sono eccezionali e si giustificano in ragione dell'inscindibilità degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l'indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l'esistenza di un legame altrettanto inscindibile fra le posizione dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile, logicamente, ancor prima che giuridicamente, che l'atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato; per tali ragioni deve escludersi che l'indivisibilità possa operare con riferimento a effetti del giudicato diversi da quelli caducanti e, quindi, per gli effetti conformativi, ordinatori, additivi o di accertamento della fondatezza della pretesa azionata, che operano solo nei confronti delle parti del giudizio” (Consiglio di Stato, ad. plen., 27 febbraio 2019, nn. 4 e 5).

Alla luce del quadro normativo e delle pronunce della giurisprudenza amministrativa riferiti è chiaro che nella materia oggetto di esame viga il divieto di estensione del giudicato.


9. Legalità costituzionale e autotutela amministrativa.

L'esercizio del potere di autotutela, che trova fondamento nei principi di legalità, imparzialità, buon andamento cui deve essere improntata l'attività della P.A., è facoltà ampiamente discrezionale (soprattutto nell'an) dell'Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla; detto potere si esercita discrezionalmente d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell'Amministrazione e non su istanza di parte. Ne consegue che, fatte salve ipotesi eccezionali, essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l'esercizio e che alla richiesta del privato di autotutela deve essere riconosciuta una funzione meramente sollecitatoria, in quanto, in caso contrario, si verificherebbe l'elusione del termine decadenziale di impugnazione il cui rispetto è funzionale all'esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico.

Giova ricordare che l’esercizio del potere di autotutela è legato altresì al rispetto dell’art. 21 nonies l. 241/1990, ai sensi del quale: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21 octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21 octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.

Resta ferma infine la necessità poi di valutare la successiva azione amministrativa con l’articolo 1, comma 132, l. 30 dicembre 2004, n. 311, prima illustrato al § 8.


10. Conclusioni.

La Sezione, per le ragioni esposte al § 5, ritiene di aver dato - e di poter dare - risposta ai quesiti esclusivamente attraverso la individuazione del quadro giuridico vigente, senza suggerire la concreta attività amministrativa che l’amministrazione riterrà, o non riterrà, di porre in essere o la corretta interpretazione della sentenza della Corte costituzionale con riferimento al caso di specie (si veda ancora § 5.2).

P.Q.M.

nei termini suindicati è il parere della Sezione.


 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Vincenzo Neri Mario Luigi Torsello
 
 
 
 

IL SEGRETARIO

Maria Grazia Salamone


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