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Consiglio di Stato, Adunanza Sezione I, 3/6/2022 n. 934
Sulla legittimazione dell’AGCM a proporre impugnazione dinanzi al G.A.

La funzione consultiva del Consiglio di Stato può esercitarsi nella forma del parere facoltativo sull’interpretazione di una norma di diritto ove ciò avvenga nell’interesse dell’ordinamento generale e in presenza di rilevanti motivi di interesse pubblico, a condizione che in questo modo essa non vada ad incidere, direttamente od indirettamente, su un contenzioso in atto o potenziale avente lo stesso oggetto del quesito posto dall’amministrazione.

L’AGCM- Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad impugnare ai sensi dell’art. 21 bis della l. 10 ottobre 1990, n. 287 i bandi di gara emessi dalle imprese operanti nei settori speciali di cui agli artt 114-121 del d. lgs. 18 aprile 2016 n. 50, trattandosi di atti che le imprese in questione devono emettere nel rispetto dei principi del procedimento amministrativo, e quindi di atti amministrativi ai sensi dell’art. 7 comma 2 c.p.a.

Materia: pubblica amministrazione / Autorità amministrative indipendenti

Numero 00934/2022 e data 03/06/2022 Spedizione

REPUBBLICA ITALIANA

Consiglio di Stato

Sezione Prima

Adunanza di Sezione del 27 aprile 2022


NUMERO AFFARE 00355/2022

OGGETTO:

Autorità garante della concorrenza e del mercato.


Quesito in merito all’applicazione dell’articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287, ai bandi di gara delle società operanti nei settori speciali di cui agli artt. 115 ss. del codice dei contratti pubblici.

LA SEZIONE

Vista la nota 22 marzo 2022 con la quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha chiesto il parere del Consiglio di Stato, formulando il quesito sull’applicabilità dell’articolo 21 bis l. n. 287/1990 ai bandi di gara delle società operanti nei settori speciali di cui agli artt. 115 ss. del codice dei contratti pubblici;

esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri;


Premesso e considerato

1. La richiesta di parere.

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (da ora in poi AGCM) riferisce di aver ricevuto alcune segnalazioni riguardanti bandi di gara asseritamente discriminatori provenienti da società operanti nei settori c.d. speciali in relazione ai quali è stato chiesto un intervento ai sensi dell’articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287.

L’Autorità spiega che, a seguito della richiesta di intervento ex articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287, è sorto il dubbio interpretativo se i bandi di gara, adottati da imprese che operano nei settori speciali e che sono tenute ad osservare le regole dell’evidenza pubblica solo in quanto operanti in uno dei settori previsti dagli artt. 115-121 cod. cont., possano essere impugnati giusta il disposto dell’articolo 21 bis cit., anche se riferibili ad atti emanati da soggetti che non rientrano né tra le amministrazioni pubbliche né tra gli organismi di diritto pubblico, trattandosi di società che non svolgono funzioni pubbliche ma solo attività economiche, al cui esercizio lo stesso atto eventualmente impugnabile risulta finalizzato.

Rileva AGCM che i soggetti operanti nei settori c.d. speciali sono attratti nell’ambito della disciplina sui contratti pubblici unicamente in ragione dell’oggetto dell’attività economica svolta, rientrando nella nozione cosiddetta oggettiva di pubblica amministrazione e mai in quella soggettiva; l’Autorità spiega che il dubbio origina dal fatto che, al di fuori dei settori speciali, questi soggetti non sono tenuti a rispettare la disciplina prevista dal codice degli appalti.

In queste ipotesi, infatti, è la natura dell’attività a rilevare ai fini dell’attrazione nella sfera pubblica e non quella del soggetto e delle funzioni dallo stesso esercitate. Occorre comprendere dunque se soggetti di siffatto genere, che sono senza dubbio imprese ai fini dell’enforcement antitrust, possano essere anche destinatari, in relazione ai bandi di gara da essi adottati, dei poteri di cui all’articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287, attraverso una sorta di applicazione funzionale della norma.

Osserva l’Autorità che tale disposizione si presta ad un’interpretazione sostanziale e conforme all’evoluzione che la nozione di pubblica amministrazione ha avuto nella giurisprudenza amministrativa, soprattutto con riferimento agli istituti dell’organismo di diritto pubblico e dell’ente aggiudicatore.

AGCM si domanda, dunque, se la qualifica di pubblica amministrazione in senso oggettivo, riconosciuta dalla giurisprudenza alle società operanti nei settori speciali limitatamente agli atti di gara da esse adottati, possa rendere tali atti assoggettabili anche alle disposizioni dell’articolo 21 bis cit.

L’Autorità suggerisce una risposta positiva perché, pur essendo vera la differenza esistente tra organismi di diritto pubblico e imprese che operano nei settori speciali – non necessariamente coincidente con le imprese pubbliche – la nozione funzionale e cangiante di amministrazione, elaborata negli ultimi decenni dalla dottrina e dalla giurisprudenza, permetterebbe di estendere l’articolo 21 bis, oltre il dato letterale (che fa riferimento ad atti adottati da qualsiasi amministrazione pubblica), all’impugnazione degli atti che, pur adottati da società che svolgono attività economica (attività questa del tutto diversa da quella svolta dalla pubblica amministrazione), riguardano settori in cui si applica il codice degli appalti.

AGCM, tuttavia, rileva che potrebbero esserci argomenti in senso contrario.

In primo luogo, il fatto stesso che l’articolo 21 bis individui come proprio ambito di applicazione non gli atti amministrativi in quanto tali ma quelli delle "pubbliche amministrazioni”, potrebbe ingenerare il dubbio che la norma non sia concepita per contemplare anche atti (come i bandi di gara) adottati da soggetti che, non esercitando una funzione pubblica, sono pacificamente considerati imprese private ai fini del diritto antitrust e che si colorano di una connotazione ‘pubblicistica’ solo perché esercitano un determinato tipo di attività in specifici settori.

In secondo luogo, altro argomento a sostegno di una lettura restrittiva dell’ambito di applicazione dell’articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287 potrebbe dedursi dalla “storia” della norma che è stata inserita all’interno della legge antitrust per dotare AGCM degli strumenti necessari ad intervenire nei confronti delle restrizioni alla concorrenza discendenti da atti e condotte non aggredibili attraverso i poteri di enforcement di tipo privato.

In terzo luogo, sotto il profilo logico-sistematico, la possibilità di trattare come pubblica amministrazione, in relazione ad un singolo atto, un soggetto la cui unica iniziativa è rappresentata dall’esercizio di un’attività economica potrebbe sollevare un problema di coordinamento con i principi espressi, in sede di individuazione dell’ambito di applicazione delle norme antitrust indirizzate alle imprese, dalla giurisprudenza che fino ad ora ha qualificato come pubblico potere solo il potere esercitato da soggetti investiti di funzioni pubblicistiche del tutto distinguibili dall’esercizio dell’attività di impresa.

Premesse queste considerazioni, l’Autorità chiede al Consiglio di Stato “un parere in merito all’applicabilità dell’articolo 21 bis l. n. 287/1990 ai bandi di gara delle società operanti nei settori speciali di cui agli artt. 115 ss. del codice dei contratti pubblici, nell’ipotesi in cui tali atti, pur incidendo sul corretto dispiegarsi delle dinamiche concorrenziali, non siano parte di una più ampia strategia idonea a dare luogo ad una violazione degli artt. 2 e 3 della legge 287/90 e/o degli artt. 101 e 102 TFUE”.


2. Le funzioni consultive del Consiglio di Stato.

Nel rimettere alla Sezione l’esame della delineata questione interpretativa, come detto, AGCM riferisce di avere ricevuto alcune segnalazioni riguardanti bandi di gara, a dire dei segnalanti discriminatori, provenienti da società operanti nei settori c.d. speciali, ai sensi del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, in relazione ai quali veniva chiesta l’attivazione dei poteri contemplati dall’articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287.

Il quesito formulato da AGCM impone di ricostruire l’esatto perimetro della funzione consultiva assegnata dalla Costituzione al Consiglio di Stato (art. 100, comma 1, Cost.)

Come è noto, accanto ai pareri obbligatori resi dal Consiglio di Stato si affiancano i pareri facoltativi, i quali possono essere diretti o all’esame di atti normativi per cui non è obbligatoria la richiesta di parere al Consiglio di Stato o a risolvere questioni concernenti l’interpretazione o l’applicazione del diritto, in questo caso prendendo la forma di “quesiti” sull’interpretazione delle norme. Codesti pareri hanno in particolare una “funzione di ausilio tecnico-giuridico indispensabile per indirizzare nell’alveo della legittimità e della buona amministrazione l’attività di amministrazione attiva” (Consiglio di Stato, Ad. gen., 18 gennaio 1980, n. 30).

Dopo le modifiche introdotte con l’articolo 17 della legge 15 maggio 1997, n. 127, il parere facoltativo deve riguardare solo “le attività che più incisivamente impegnano l’azione del Governo o degli altri organi di maggior rilevanza dello Stato-ordinamento e non può essere attivata da una mera pretesa o esigenza dell’amministrazione interessata, la quale, al contrario, deve esporre, nella sua richiesta di parere, i rilevanti motivi di interesse pubblico strumentali alle attività fondamentali o comunque più significative, che quasi impongono il ricorso al parere facoltativo, il quale, altrimenti, andrebbe a sovrapporsi all’esclusiva autonomia e responsabilità dirigenziale” (Consiglio di Stato, Sez. II, 25 luglio 2008, n. 5172).

In altri termini, va esclusa la possibilità di emettere pareri su aspetti minimali relativi ad “un ordinario segmento del procedimento amministrativo” (Consiglio di Stato, Sez. I, 2 febbraio 2012, n. 1), in quanto il supporto consultivo, da un lato, non può e non deve sostituirsi all’amministrazione nel dovere di provvedere (cfr. pareri n. 118/02; n. 2994/02; n. 9/03; n. 1212/03; n. 1274/03; n. 82/99; n. 4212/02; n. 2564/02; n. 2250/2007) e, dall’altro, non può invadere l’ambito di operatività delle attribuzioni dell’Avvocatura dello Stato nella sua funzione generale di consulenza alle pubbliche amministrazioni.

Ciò è pienamente coerente con l’idea “di un’evoluzione sostanziale delle funzioni consultive del Consiglio di Stato di cui all’articolo 100 della Costituzione” e con la necessità di inquadrare le funzioni consultive “in una visione sistemica e al passo coi tempi, confermando il ruolo del Consiglio di Stato come un advisory board delle Istituzioni del Paese anche in un ordinamento profondamente innovato e pluralizzato” (cfr. pareri: Comm. Spec., 18 ottobre 2017, n. 2162; Comm. Spec., 17 gennaio 2017, n. 83; Comm. Spec., 2 agosto 2016, n. 1767). Così ragionando, le funzioni consultive del Consiglio di Stato si rivolgono, nella prassi più recente, oltre che a singoli ‘atti’, anche a sostenere “i ‘processi’ di riforma, accompagnandoli in tutte le loro fasi e indipendentemente dalla natura degli atti di attuazione, fornendo sostegno consultivo ai soggetti responsabili dell’attività di implementazione” (Consiglio di Stato, Comm. spec., 2 agosto 2016, n. 1767).

Va inoltre aggiunto, per quanto di rilevanza nel presente quesito, che il Consiglio ha reiteratamente escluso la “possibilità di richiedere pareri facoltativi su materie o fattispecie per le quali già siano pendenti o in corso di attivazione controversie giurisdizionali” (parere 2941/2005). In talune pronunce è stato difatti affermato che “in presenza di contrasti interpretativi già insorti, la richiesta di parere è inammissibile” (Consiglio di Stato, Sez. II, 26 giugno 2013, n. 3006 e Sez. II, 9 marzo 2011, n. 1589) nel senso che “nell’esercizio dell’attività consultiva, il Consiglio di Stato, quale organo di consulenza imparziale e terzo dello Stato-ordinamento e non dello Stato-apparato, non è destinato (...) a supportare le scelte decisionali delle Amministrazioni, quante volte esse ritengano, a loro discrezione, di avvalersi della consulenza del Consiglio stesso, dal momento che la funzione consultiva svolta nell’interesse non dell’ordinamento generale, ma dell’Amministrazione assistita, compete all’Avvocatura dello Stato. Il Consiglio di Stato fornisce il proprio parere solo su questioni di massima, la cui soluzione potrà guidare la successiva azione amministrativa nel suo futuro esplicarsi” (Consiglio di Stato, Sez. II, 9 marzo 2011, n. 1589; Comm. Spec., 26 settembre 2017, n. 2065).

Dai summenzionati pareri si evince dunque come l’attività consultiva, di tipo facoltativo, non possa richiedersi quando vada ad incidere, direttamente od indirettamente, su un contenzioso in atto, o potenziale, avente lo stesso oggetto del quesito posto dall’amministrazione, poiché in tali casi l’esercizio della funzione consultiva potrebbe dar luogo ad indebite sovrapposizioni, che arrecherebbero un vulnus al principio di imparzialità del giudice e di parità fra le parti, sancito espressamente oggi a livello costituzionale dall’art. 111, comma 2, della Costituzione (cfr. pareri n. 118/02; n. 2994/02; n. 9/03; n. 1212/03; n. 1274/03; n. 82/99; n. 4212/02; n. 2564/02; n. 2250/2007).

Questa Sezione ha ribadito, di recente, tale orientamento affermando che per garantire il corretto equilibrio istituzionale, va esclusa la «possibilità di richiedere pareri facoltativi su materie o fattispecie per le quali già siano pendenti o in corso di attivazione controversie giurisdizionali» (Consiglio di Stato, Sez. I., 13 novembre 2020, n. 1807).

Per i motivi sino a qui esposti, deve precisarsi dunque che l’oggetto del presente parere non può estendersi alla cognizione di fattispecie concrete o di profili fattuali, rispetto ai quali potrebbero insorgere controversie giurisdizionali.


3. L’articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287.

L’articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287 (rubricato “Poteri dell'Autorità Garante della concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza”), introdotto dall’articolo 35, comma 1, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in l. 22 dicembre 2011, n. 214, così dispone:

“1. L'Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato.

2. L'Autorità garante della concorrenza e del mercato, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l'Autorità può presentare, tramite l'Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni.

3. Ai giudizi instaurati ai sensi del comma 1 si applica la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”.

L’articolo in questione, dunque, attribuisce all’Autorità garante della concorrenza e del mercato la legittimazione ex lege a impugnare innanzi al giudice amministrativo i provvedimenti e i regolamenti delle pubbliche amministrazioni adottati in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, previo esperimento della procedura ivi descritta; l’istituto è diretto ad eliminare tutte quelle condotte ingiustificatamente restrittive della concorrenza e del libero mercato poste in essere da qualsiasi amministrazione pubblica, sia centrale che locale.

Si tratta, in definitiva, di uno strumento che contribuisce significativamente a rafforzare i poteri di advocacy attribuiti all’Autorità nei confronti dei soggetti pubblici al fine di influenzarne in senso pro-concorrenziale le regolazioni ed evitare l’adozione di misure amministrative che restringono o ostacolano la concorrenza all’interno del mercato. Da parte della dottrina è stato ritenuto lo strumento più incisivo di competition advocacy.

Al riguardo è stato osservato che l’articolo 21 bis segna un ulteriore passo avanti nell’attribuzione all’interesse pubblico alla concorrenza di un rango sempre più elevato nella gerarchia degli interessi pubblici e nasce dall’esigenza di superare lo scarso successo dei poteri di segnalazione e consultivi attribuiti all’Autorità antitrust dagli artt. 21 (“Potere di segnalazione al Parlamento ed al Governo”) e 22 (“Attività consultiva”) nei confronti delle amministrazioni.

Le principali questioni che l’articolo ha posto riguardano la legittimazione e l’interesse al ricorso.

Dal tenore letterale dell’articolo 21 bis emerge che siffatto istituto coinvolge:

- sotto il profilo oggettivo, tutti gli atti generali, a carattere normativo (“gli atti amministrativi generali, i regolamenti”) e anche gli atti “particolari” (i “provvedimenti”), purché suscettibili di violare le regole concorrenziali;

- sotto il profilo soggettivo, gli atti adottati da “qualsiasi amministrazione pubblica”.

Attenta dottrina ha osservato che “il nuovo art. 21-bis crea una distonia rispetto a un’acquisizione recente nel nostro sistema di giustizia amministrativa che, soprattutto, in seguito all’approvazione del Codice del processo amministrativo del 2010 e di alcune importanti pronunce dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 3 e n. 4 del 2011), ha ormai assunto, per quanto riguarda la tutela offerta dal giudice amministrativo, una connotazione puramente soggettiva”.

La principale questione affrontata all’indomani dell’emanazione dell’articolo 21 bis è se esso introduca un’eccezionale forma di giurisdizione di diritto oggettivo (in cui il ricorso è proposto a tutela di un interesse generale e non a difesa di situazioni giuridiche individuali) o se, invece, tale potere di azione sia comunque riconducibile nell’ambito della tradizionale giurisdizione a tutela di situazioni soggettive giuridicamente qualificate e differenziate, con la sola peculiarità che, in questo caso, l’interesse a tutela del quale è proposto il ricorso è affidato alla cura di un soggetto pubblico.

Secondo l’orientamento maggioritario in dottrina, l’articolo 21 bis non può leggersi se non qualificando la legittimazione ad agire in giudizio di AGCM quale espressione della titolarità in capo a quest’ultima di una situazione giuridica soggettiva, personale e differenziata, che si assume lesa. In particolare, la concorrenza deve intendersi quale bene della vita giuridicamente rilevante, normalmente adespota che, tuttavia, ai sensi dell’articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287, il legislatore ‘soggettivizza’ in capo all’Autorità.

E’ stato ritenuto, infatti, che il corretto funzionamento del mercato ed il libero esplicarsi in esso della libertà di iniziativa economica debbano identificarsi quale bene della vita (distinto dall’interesse di mero fatto al ripristino della legalità violata), protetto a livello costituzionale e comunitario nonché riconosciuto dalla giurisprudenza. Si tratta, di un interesse certamente “giuridicizzato”, tuttavia difficilmente “soggettivizzabile” in tutti quei casi in cui la lesione del mercato non si traduca anche in una lesione particolare della sfera giuridica del privato (impresa, consumatore, associazione di categoria).

E’ stato altresì rilevato come tale modello sia analogo al modello comunitario della procedura di infrazione. Così come la Commissione UE è legittimata a proporre ricorso per far accertare la violazione da parte degli Stati degli obblighi comunitari, allo stesso modo dovrebbe ritenersi che anche nell’ordinamento nazionale ciascuna autorità pubblica possa attivare il controllo giurisdizionale, anche nei confronti di altri enti pubblici, per far accertare la violazione delle norme che ne delimitano prerogative e sfere di competenza.

Si sostiene, in altri termini, che un soggetto pubblico, istituito per la tutela di un determinato interesse pubblico, è titolare di un interesse personale, specifico e qualificato nell’ipotesi di violazione delle regole poste a tutela di tale interesse.

Per quel che attiene l’interesse a ricorrere, una parte della dottrina ha sostenuto che il ricorso di AGCM, potendo indirizzarsi anche contro atti che non sono ancora immediatamente lesivi (atti amministrativi generali e regolamenti), prescinderebbe dalla verifica dell’interesse al ricorso.

Altra dottrina ritiene invece che nel caso di cui all’articolo 21 bis, AGCM agisca a tutela della concorrenza in quanto tale. Il suo interesse al ricorso deve, quindi, essere ridefinito in relazione alla finalità dell’azione. La possibilità di impugnare atti che non sono ancora immediatamente lesivi delle situazioni giuridiche soggettive dei singoli si giustifica proprio in base alla considerazione che quegli atti, pur non ledendo i privati, sono comunque lesivi del valore “concorrenza”, che AGCM è legittimata a tutelare in sé come ente esponenziale di un interesse diffuso. L’interesse al ricorso, in questo caso, si identifica nel semplice interesse a rimuovere un atto lesivo della concorrenza, perché è questa la sola utilità che AGCM persegue con il ricorso.

Altra questione dibattuta è quella relativa alla natura giuridica del parere, previsto dal secondo comma dell’articolo più volte citato, che l’Autorità deve indirizzare nei confronti dell’amministrazione che ha emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato. Il comma da ultimo prevede che, se l’amministrazione nei sessanta giorni dalla comunicazione non si conforma al parere (che deve indicare specifici profili delle violazioni riscontrate), il ricorso può essere presentato nei successivi trenta giorni. Si è sostenuto che esso, al di là del nomen iuris utilizzato dal legislatore, abbia natura sostanziale di un atto di diffida, con fissazione di un termine per l’eliminazione dell’infrazione. Il ‘parere’ fa sorgere, dunque, in capo al destinatario un obbligo di conformazione la cui inottemperanza comporta la possibilità di impugnazione dell’atto dinanzi al giudice amministrativo.

Altra questione affrontata riguarda l’individuazione del provvedimento nei cui confronti l’impugnativa deve rivolgersi.

La dottrina è divisa tra quanti hanno ritenuto che debba impugnarsi il provvedimento amministrativo che si assume originariamente lesivo della concorrenza e del buon funzionamento del mercato e quanti hanno ritenuto, viceversa, che l’Autorità debba proporre gravame nei confronti della determinazione (o dell’eventuale silenzio-inadempimento) assunta dalla amministrazione interessata a seguito della fase interlocutoria introdotta col parere.

Risulta maggiormente convincente la tesi prevalente per cui il provvedimento con il quale l’amministrazione non si conforma, o si conforma solo in parte, al parere, non è immediatamente impugnabile potendo l’azione ex art. 21 bis essere rivolta esclusivamente nei confronti del provvedimento originariamente adottato dall’amministrazione cui poi viene diretto l’atto col quale si indicano le specifiche violazioni riscontrate. Ed invero, l’articolo 21 bis prevede espressamente che la legittimazione ad agire in giudizio si riferisce all’atto originario assunto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato in relazione al quale è stato formulato il parere-diffida.

Anche la giurisprudenza di primo grado si è espressa in tal senso: v. TAR Lazio, sez. III bis, n. 2720 del 2013, che rileva come “l'atto attraverso il quale la P.A. decide di non conformarsi al parere emesso dall'Autorità ha natura endoprocedimentale, pertanto l'oggetto del ricorso instaurato per iniziativa dell'AGCM è costituito dall'atto originario, ritenuto dalla stessa anticoncorrenziale e in quanto tale colpito dal parere”.

Una seconda questione interpretativa affrontata attiene alla tipologia delle azioni esperibili dall’Autorità nel ricorso proposto ai sensi dell’articolo 21 bis.

Sul punto la disposizione è silente, limitandosi a precisare che ai giudizi instaurati si applica il rito abbreviato disciplinato dal codice del processo amministrativo al Libro IV, Titolo V (articolo 119 e ss.).

Al riguardo, è stato affermato che, in assenza di disposizioni espresse derogatorie rispetto alla disciplina generale, l’Autorità possa proporre contro l’amministrazione tutta la gamma di azioni previste dal codice e non soltanto la tradizionale azione di annullamento.

In via generale, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 20 del 14 febbraio 2013, ha osservato che detta norma, piuttosto che introdurre un "nuovo e generalizzato controllo di legittimità" in capo all'Autorità nei confronti degli atti delle pubbliche amministrazioni, ha soltanto integrato "...i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all'Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della legge n. 287 del 1990".

La giurisprudenza di questo Consiglio, dal canto suo, si è assestata sui principi elaborati nella sentenza della sesta sezione, 15 maggio 2017, n. 2294, ove è stato affermato che le disposizioni in questione prevedono una legittimazione straordinaria dell'Autorità – definita “peculiare legitimatio ad causam all'Autorità nei confronti degli atti amministrativi generali, dei regolamenti e dei provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato” da Cons. St., sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246 – che si inserisce in un sistema nel quale rileva il principio di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, secondo il quale l'assetto di interessi creato dall'atto amministrativo - salvo l'esercizio dei poteri di autotutela - deve consolidarsi dopo il decorso di un termine di impugnazione perentorio e non prorogabile.

Tale esigenza si pone anche di fronte ad una “legittimazione straordinaria al ricorso” come quella in esame, pur se posta certamente a presidio di valori primari dell'ordinamento, come la concorrenza.

Per la giurisprudenza, la funzione del parere di AGCM è duplice: esso mira innanzitutto a sollecitare la pubblica amministrazione a rivedere le proprie determinazioni e a conformarsi agli indirizzi dell'Autorità, attraverso uno speciale esercizio del potere di autotutela giustificato proprio dalla particolare rilevanza dell'interesse pubblico in gioco, in tal modo auspicando che la tutela di quest'ultimo sia assicurata innanzitutto all'interno della stessa pubblica amministrazione e restando pertanto il ricorso all'autorità giudiziaria amministrativa l'extrema ratio (non essendo stata d'altra parte dotata l'Autorità di poteri coercitivi nei confronti dell'amministrazione pubblica che non intenda conformarsi al predetto parere motivato); d'altro canto, la fase pre - contenziosa e il relativo parere, in coerenza con i principi comunitari, sono stati ragionevolmente concepiti anche come significativo strumento di deflazione del contenzioso, potendo ammettersi che il legislatore guardi con disfavore le situazioni in cui due soggetti pubblici si rivolgano direttamente (ed esclusivamente) al giudice per la tutela di un interesse pubblico (Cons. St., sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246).

Il Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., con sentenza 9 ottobre 2017, n. 428, riassume efficacemente che il ricorso di cui all'articolo 21 bis, comma 2, l. 10 ottobre 1990, n. 287 è preceduto, a pena d'inammissibilità, da una fase precontenziosa caratterizzata dall'emanazione di un parere motivato rivolto alla p.a. procedente, nel quale sono segnalate le violazioni riscontrate e indicati i rimedi per eliminarle e ripristinare il corretto funzionamento della concorrenza e del mercato: per la proposizione del ricorso, l'Autorità deve attendere lo spirare del termine di 60 giorni assegnato alle amministrazioni per conformarsi a quanto rilevato nel parere e dallo spirare infruttuoso del citato termine decorre il termine di 30 giorni fissato dalla legge.

Il Consiglio ha ritenuto altresì che l'impugnazione da parte di AGCM di un atto amministrativo che violi "le norme a tutela della concorrenza e del mercato" è sottoposta ad un termine massimo di centocinquanta giorni, decorrente dalla comunicazione ovvero dalla conoscenza dell'atto adottato dall’amministrazione.

La sussistenza di tale termine si desume tenendo conto del termine di sessanta giorni che AGCM ha a disposizione per emettere il proprio parere, dell'altro termine di sessanta giorni entro il quale l'amministrazione destinataria può decidere di conformarvisi e dell'ulteriore termine di trenta giorni, previsti per la proposizione del ricorso vero e proprio.

Si tratta di un termine massimo, perché - come rilevato nella sentenza del 2017 - il 'secondo' termine di sessanta giorni, assegnato all'amministrazione ricevente, comincia effettivamente a decorrere dal momento della comunicazione, anche quando è anteriore alla scadenza del 'primo' termine entro il quale l'Autorità può rendere il parere (così Consiglio di Stato, sez. VI, 30 aprile 2018, n. 2583).

Per la giurisprudenza di primo grado (T.A.R. Toscana, sez. I, 7 dicembre 2017, n. 1521), l'articolo 21 bis, comma 2, l 287/90 delinea un ordinario potere di azione, riconducibile alla giurisdizione a tutela di situazioni giuridiche individuali qualificate e differenziate, benché soggettivamente riferite ad una autorità pubblica, ed individua una prima fase a carattere consultivo, che concerne l'emissione del parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate e una seconda fase in sede giurisdizionale. L'instaurazione del ricorso è rimedio solo eventuale e, comunque, successivo all'esercizio di un potere prettamente amministrativo e ciò in considerazione del fatto che il ricorso potrebbe anche non essere proposto, nell'eventualità in cui la stessa Amministrazione proceda in autotutela o, ancora, nell'ipotesi in cui AGCM consideri esaustivi i chiarimenti e le osservazioni proposte dall'Amministrazione.

Inoltre, è stato chiarito che “sebbene la giurisprudenza richieda, in linea generale, l'instaurazione della fase precontenziosa di cui all'art. 21-bis della legge n. 287 del 1990 quale condizione di ammissibilità dell'impugnativa da parte dell'Autorità (in tal senso, si v. CGARS, sent. n. 428 del 2017 e Cons. St., sez. IV, sent. n. 323 del 2016 nonché, con specifico riferimento ai motivi aggiunti, sez. VI, sent. n. 4715 del 2020), un'interpretazione della norma in armonia con il divieto di aggravamento del procedimento di cui all'art. 1, co. 2, della legge n. 241 del 1990, da un lato, e con le esigenze di particolare celerità sottese al rito speciale di cui agli artt. 119 e ss. cod. proc. amm., dall'altro, consente di ritenere che l'AGCM sia esonerata laddove l'atto impugnato con motivi aggiunti sia consequenziale a quello cui si riferisce il ricorso introduttivo e venga censurato per illegittimità derivata” (T.A.R. Liguria, sez. II, 13 febbraio 2021, n. 116).


4. Nozione di pubblica amministrazione. Cenni di carattere generale.

Dopo aver esaminato la disposizione di legge oggetto del presente parere, va aggiunto che per rispondere al quesito, in considerazione del chiaro tenore testuale della norma, è altresì necessario ricostruire la nozione di pubblica amministrazione.

A tal fine è opportuno ricordare che la nostra Costituzione (artt. 2, 5, 114 e 118 Cost.) afferma il principio del pluralismo della pubblica amministrazione, per cui coesistono, accanto allo Stato, altri soggetti dotati, oltre che di capacità giuridica privata, anche di capacità giuridica di diritto pubblico che perseguono fini di interesse pubblico.

Pertanto, per pubblica amministrazione si intendono oggi, dal punto di vista soggettivo, sia gli organi amministrativi dello Stato sia gli altri enti pubblici; questi ultimi, tuttavia, non trovano nel nostro ordinamento una definizione legislativa generale né tantomeno esistono indicatori normativi per individuarli; è stata la giurisprudenza a elaborare gli indici che denotano la “pubblicità” di un ente, come si dirà tra poco.

Occorre premettere che essenziale norma di riferimento in materia è senz’altro l’articolo 4, l. 20 marzo 1975, n. 70 (c.d. legge sul parastato), laddove, in attuazione della riserva di legge sancita dagli artt. 95 e 97 Cost., si stabilisce che “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”.

Se solo la legge attribuisce la personalità di diritto pubblico, può tuttavia accadere, come spesso accade, che il riconoscimento legislativo non sia esplicito, con conseguenti problemi di interpretazione del dato normativo.

Per questa ragione, come prima accennato, la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato indici di riconoscimento degli enti pubblici, quali ad esempio: la costituzione ad iniziativa pubblica, per legge o comunque in virtù di un atto pubblico; la presenza di controlli pubblici; l'ingerenza dello Stato nella nomina e nella revoca dei dirigenti e nell'amministrazione dell'ente; la partecipazione dello Stato o di altra P.A. alle spese di gestione; il potere di direttiva dello Stato; il finanziamento pubblico; il perseguimento di finalità pubblicistiche; la presenza di poteri pubblici caratteristici, come il potere disciplinare e di certificazione.

In assenza di previsione legislativa espressa, dunque, il problema della qualificazione pubblicistica di un ente è risolto di volta in volta in via interpretativa, valutando comparativamente il dato normativo e gli indici sintomatici della pubblicità dell’ente.

Dalla qualificazione di un ente come pubblico scaturiscono importanti conseguenze.

Innanzitutto, ogni ente pubblico gode del potere di auto-organizzarsi, ossia di dettare, in via statutaria o regolamentare, le regole fondamentali della propria organizzazione interna.

Inoltre hanno il potere di emanare atti unilaterali ed autoritativi capaci di incidere, anche negativamente, nella sfera giuridica dei terzi. Nei rapporti con i terzi, quindi, gli enti pubblici dispongono di poteri che li pongono in una posizione di supremazia, attraverso poteri di autarchia e di autotutela (capacità degli enti pubblici di risolvere autonomamente i conflitti, attuali e potenziali, derivanti dai propri provvedimenti, senza necessità di ricorrere all’autorità giudiziaria).

A fronte di tali privilegi, l’ente pubblico è sottoposto ad una serie di controlli sulla legittimità dell’attività e la rispondenza di questa all’interesse pubblico.

Da tutto ciò dipende, in primo luogo, l’assoggettamento alle regole sul procedimento amministrativo contenute nella l. 7 agosto 1990, n. 241.

È poi compressa, in secondo luogo, la libertà negoziale, dovendo essere l’attività della pubblica amministrazione sempre teleologicamente orientata al soddisfacimento dell’interesse pubblico affidato alle sue cure dal legislatore e svolta attraverso procedimenti amministrativi che consentono una scelta trasparente del miglior contraente.

Quanto al patrimonio, infine, i beni pubblici sono sottoposti ad un particolare regime. Ad esempio, i beni demaniali e indisponibili delle pubbliche amministrazioni non sono suscettibili di esecuzione forzata né di espropriazione per pubblica utilità (salvi casi eccezionali).


5. La nozione funzionale e cangiante di pubblica amministrazione.

Occorre tuttavia osservare che oggi il concetto di pubblica amministrazione è profondamente cambiato, così come le regole per l’individuazione della natura pubblica di un soggetto.

Le ragioni dell’evoluzione sono essenzialmente due: la presenza di soggetti privati che svolgono attività amministrativa e le modifiche del nostro ordinamento dovute alla disciplina di derivazione europea.

Sotto il primo aspetto, la presenza di soggetti privati è riconducibile a tre recenti fenomeni.

In primo luogo, la trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni, ossia la privatizzazione formale degli enti pubblici e/o la privatizzazione sostanziale.

In secondo luogo, la trasformazione di enti pubblici non economici in persone giuridiche di diritto comune: è il caso, ad esempio, degli enti operanti nel settore scientifico e culturale.

In terzo luogo, la costituzione per legge di apposite società per il perseguimento di scopi di interesse pubblico a carattere non imprenditoriale.

La nozione di pubblica amministrazione oggi si è pertanto allargata rispetto a qualche decennio fa, ricomprendendo non solo soggetti sin dall’inizio pubblici ma anche soggetti privati che possono svolgere pubbliche funzioni, vuoi perché nel soggetto privato c’è una partecipazione della pubblica amministrazione vuoi perché la pubblica amministrazione, attraverso provvedimenti amministrativi di concessione, di affidamento o di aggiudicazione, ha consentito l’esercizio di attività di pubblico interesse.

Numerose norme della l. 7 agosto 1990, n. 241 confermano quanto appena detto: si vedano gli artt. 1, comma 1 bis -1 ter, 22, comma 1, lett. e) nonché 29, comma 1).

In ordine al secondo fattore che ha determinato l’evoluzione della nozione di pubblica amministrazione nel nostro ordinamento, ovvero l’influenza del diritto eurounitario, occorre ricordare che l’ordinamento europeo si disinteressa di indici e criteri formali di qualificazione e, con un approccio di tipo sostanziale-teleologico, valorizza il fatto che il soggetto, pur se formalmente privato, sia controllato dalla pubblica amministrazione e agisca per perseguire fini pubblici. Emblematico è il caso degli organismi di diritto pubblico nelle direttive europee e nel Codice dei Contratti pubblici (d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50).

Inoltre, in applicazione della c.d. logica delle “geometrie variabili”, in ambito europeo la nozione di ente pubblico non è intesa come categoria unitaria e statica, ma ha carattere ‘elastico’: un ente può essere considerato pubblico anche solo settorialmente, ossia in relazione al particolare ambito di disciplina che viene in considerazione.

La nozione flessibile o dinamica di pubblica amministrazione nel diritto europeo è coerente il c.d. principio dell’effetto utile, principio in base al quale una determinata norma deve essere interpretata, preferibilmente, in modo da favorire il raggiungimento dell’obiettivo in essa prefissato.

In altri termini, mentre una volta la condizione di ente pubblico, attribuita attraverso il riferimento ad indici formali, era una sorta di status permanente, caratterizzante l’ente in ogni sua sfera di azione, attualmente si registra una nozione sostanziale, dinamica e settoriale, secondo la quale non è necessario qualificare in modo rigido un soggetto come pubblico o privato, dovendosi invece guardare di volta in volta alle funzioni concretamente svolte dall’ente.

Per la giurisprudenza, si assiste alla “progressiva frantumazione della pubblica amministrazione” (Cass., sez. un., 19 aprile 2021, n. 10244) e l'ingresso di nuovi soggetti e l'ampliamento delle funzioni svolte dagli apparati amministrativi, si riflettono nell'evoluzione legislativa e giurisprudenziale: sotto il primo versante, sono significativi gli interventi del legislatore che sottopone, con espresse disposizioni, soggetti formalmente privati a regole pubblicistiche; sotto il secondo, viene in rilievo l'attività interpretativa dei giudici che, attraverso l'analisi di elementi sostanziali e funzionali, attribuisce natura pubblicistica a soggetti formalmente privati, al fine di assoggettarli in tutto o in parte ad un regime di diritto pubblico (cfr. Cass., sez. un., 1 aprile 2020, n. 7645).

Anche la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3043; Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2660) fa propria una nozione di pubblica amministrazione non più "statica" e "formale", bensì "dinamica" e "funzionale" (a "geometrie variabili"), nel senso che il concetto di ente pubblico muta a seconda dell'istituto o del regime normativo che deve essere applicato.

Ciò implica che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblica a certi fini non ne comporta l'automatica e integrale sottoposizione alla disciplina prevista in generale per la pubblica amministrazione: "al contrario, l'ordinamento si è ormai orientato verso una nozione "funzionale" e "cangiante" di ente pubblico. Si ammette senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica" (Cons. Stato, sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3043, prima cit.).

In altri termini “la considerazione di soggetti formalmente o anche sostanzialmente privati come "enti pubblici" varia, così, da disciplina a disciplina e sta ad indicare non una diversa natura giuridica ma, semplicemente, l'applicazione di alcune regole in luogo di altre: può apparire dunque inutile, o addirittura (come opinano alcuni studiosi) sbagliato qualificare tali soggetti come "enti pubblici": la realtà è che, a seconda dei fini e dei casi, si applicano ad essi discipline tipicamente pubblicistiche e discipline tipicamente privatistiche. Alle certezze delle letture dicotomiche si sostituisce pertanto la continua e sempre mutevole ricostruzione degli istituti” (Cass., sez. un., 19 aprile 2021, n. 10244).

In sostanza, tutto ciò implica che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico muta a seconda dell'istituto o del regime normativo che deve essere applicato. La nozione di ente pubblico nell'attuale assetto ordinamentale non può, dunque, ritenersi fissa ed immutevole. Non può ritenersi, in altre parole, che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi in maniera automatica la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione.

Si ammette senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica.

Questo Consiglio ha inoltre chiarito che la c.d. nozione funzionale di ente pubblico non contrasta con la previsione contenuta nell'art. 4 l. 20 marzo 1975, n. 70, dal momento che la nozione "funzionale" e "dinamica" non predica che un soggetto possa essere qualificato come "pubblico" a prescindere dall'esistenza di una base legislativa che sottoponga quel soggetto ad un regime pubblicistico.

Al contrario, alla base della qualificazione funzionale di ente pubblico ci deve essere sempre un fondamento normativo da cui derivano, per quell'ente, obblighi e doveri, oppure prerogative e poteri, di natura pubblicistica.

Il Consiglio ha poi osservato che nel settore degli appalti pubblici, ad esempio, ciò che fa dell'organismo di diritto pubblico (ad onta della veste formale che può essere privatistica) un soggetto equiparato alla pubblica amministrazione (e, quindi, sostanzialmente e funzionalmente un ente pubblico) è proprio la disciplina legislativa che espressamente lo sottopone al regime dell'evidenza pubblica. Con la conseguenza che l'organismo di diritto pubblico diviene pubblica amministrazione non sempre e comunque (in maniera fissa e immutevole), ma solo nello svolgimento di quel tratto di attività esplicitamente sottoposto alla disciplina del diritto amministrativo.

Quando svolge altre attività, invece, l'organismo di diritto pubblico dismette la sua veste pubblicistica e soggiace di regola al diritto privato.

Esso è, quindi, un ente pubblico dinamico, funzionale e cangiante.

Sempre più di frequente il legislatore sottopone certi soggetti, prescindendo dalla veste formale che essi possono avere, ad obblighi di natura amministrativa o attribuisce loro poteri di natura amministrativa.

Si pensi, solo per fare qualche esempio, al gestore del servizio pubblico rispetto alla disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi (art. 23, l. 7 agosto 1990, n. 241), alle società strumentali o titolari di funzioni amministrative esternalizzate, sottoposte alle norme del procedimento amministrativo ex art. 29 l. 7 agosto 1990, n. 241 (se si tratta di società con totale o prevalente capitale pubblico) o ai soli principi ex art. 1, comma 1 ter, l. 7 agosto 1990, n. 241 negli altri casi e, infine, alle società a controllo pubblico rispetto all'obbligo di reclutare il personale nel rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all'art. 35, comma 3, d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (secondo quanto previsto dall'art. 19 del "Testo unico delle società a partecipazione pubblica").

Quando un ente viene dalla legge sottoposto a regole di diritto pubblico, l'ente, limitatamente allo svolgimento di quell'attività procedimentalizzata, diviene, di regola, "ente pubblico" a prescindere dalla sua veste formale. Deve essere ribadito ancora una volta che lo diviene non in maniera statica ed immutevole, ma dinamica e mutevole, perché dismette quella veste quando svolge altre attività non procedimentalizzate.

In tutti gli esempi richiamati la qualificazione pubblicistica, seppur dinamica e funzionale, si verifica comunque sulla base di un dato normativo che sottopone il soggetto ad obblighi pubblicistici, in ossequio, quindi, a quanto previsto dall'articolo 4 l. 20 marzo 1975, n. 70.

Conferme di tale orientamento si trovano anche in recenti pronunce dell’adunanza plenaria.

In una prima decisione, il Consiglio di Stato ha ricostruito la linea evolutiva che - a livello nazionale e comunitario - interessa la nozione stessa di "pubblica amministrazione", quale nozione non univoca, ma da ricondurre, di volta in volta, a normative diverse e alle relative finalità. Aggiungendo, altresì, che all'apparato - centrale e decentrato - dello Stato ed alle Autonomie locali si aggiungono diverse tipologie di soggetti privati (o privatizzati), cui sono attribuite prerogative pubblicistiche e che si introduce in tal modo quella nozione funzionale di Stato, individuata dalla giurisprudenza comunitaria a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia del 20 settembre 1988 (causa 31/87 - Beentjes), che riconduceva a detta nozione personalità giuridiche distinte, ma dipendenti in modo sostanziale dai pubblici poteri, per il perseguimento di interessi che lo Stato stesso intende soddisfare direttamente o nei confronti dei quali sceglie di mantenere un'influenza determinante (Cons. St., a.p., 28 giugno 2016, n. 13).

Con altra decisione il Consiglio ha in seguito confermato la incompatibilità della cd. «riserva di nazionalità» per gli incarichi dirigenziali delle amministrazioni statali con il divieto di discriminazione dei lavoratori degli Stati Membri dell'UE — sancito al par. 2 dell'art. 45 TFUE — se non all'esito di una verifica della sussistenza di prevalenti funzioni di imperio delle singole posizioni apicali, ribadendo dunque, in linea con la nozione dinamica e cangiante di pubblica amministrazione, che non è sufficiente la mera qualifica formale dell'impiego oggetto di esenzione, ma è necessario verificare, caso per caso, se esso effettivamente implichi lo svolgimento di mansioni di rilievo pubblicistico (Cons. St., a.p., 25 giugno 2018, n. 9).

Con sentenza 3 settembre 2019, n. 9, sempre l’adunanza plenaria, ha osservato che il G.S.E. rientra nel novero dei soggetti privati che svolgono funzioni pubbliche in quanto, pur rivestendo formalmente la veste di società di capitali di diritto privato, è soggetto munito dalla legge di funzioni pubbliche correlate, tra l'altro, alla diffusione delle energie da fonte rinnovabile, al controllo e alla gestione dei flussi energetici di tale provenienza, nonché all'assolvimento degli obblighi imposti dalla legge agli operatori del settore energetico. In ordine alla natura degli atti emanati dal gestore, la sentenza ha affermato che essi hanno una diversa declinazione ontologica, a seconda degli esiti della verifica.

In particolare, l’adunanza plenaria ha ritenuto che gli atti con cui il gestore accerta il mancato assolvimento, da parte degli importatori o produttori di energia da fonte non rinnovabile, dell'obbligo di cui all' art. 11 d.lgs. 16 marzo 1999, n. 79, hanno natura provvedimentale, considerato che il potere del G.S.E. di accertare unilateralmente e definitivamente (in via amministrativa) lo stato (eventuale) di inadempienza degli operatori economici rispetto al ridetto obbligo di legge non può che manifestarsi attraverso la forma ed i contenuti propri dell'attività provvedimentale. Di contro, gli atti con cui il G.S.E. accerta in positivo l'avvenuto puntuale adempimento all'obbligo da parte degli operatori economici del settore non hanno natura provvedimentale. Infine, l'adunanza plenaria osserva come tale soluzione duale riguardo alla natura degli atti del G.S.E. (provvedimentale/non provvedimentale, a seconda degli esiti del procedimento di verifica) risulti pienamente coerente con la scelta legislativa, non altrimenti giustificabile ove non connessa all'esercizio di poteri amministrativi (cfr. Corte cost. n. 292 del 2000, n. 204 del 2004 e n. 140 del 2007), di affidare alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo la giurisdizione anche di questa materia, sia che vengano in gioco poteri autoritativi in senso tecnico e quindi interessi legittimi, sia che si controverta di meri diritti soggettivi di natura patrimoniale, solo indirettamente collegati all'esercizio di un potere autoritativo nel cui ambito pur si inseriscono.

L’individuazione degli enti da qualificare come pubblici è una questione che si è posta anche nel diritto penale. Anche qui, come nel diritto amministrativo, è evidente che la nozione di ente pubblico non può essere quella del tempo di emanazione del codice penale né quella degli anni ’90, allorché iniziano le privatizzazioni e il modello dell’ente pubblico economico diventa recessivo.

Come affermato dalla Corte di cassazione “l'esame della questione non può prescindere dal considerare il sistema ordinamentale nel quale è stato elaborato il codice penale ed è stato utilizzato, di conseguenza, il concetto di "ente pubblico". Il problema dei criteri di identificazione della natura giuridica di un ente è un problema che si è posto sin da quando sono state abbandonate le teorie che basavano l'identificazione della pubblicità di un ente pubblico sui suoi collegamenti con lo Stato- persona. Superato il dogma dello statalismo, con l'affermazione nel nostro sistema politico dei principi di pluralismo autonomistico, laddove la natura pubblica o privata di un ente non risultasse chiaramente dalla legge o non fosse convalidata da una lunga tradizione giuridica, si è posto il problema degli "indici di riconoscimento" della natura pubblica di un ente, variamente individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sul presupposto comune, peraltro, della impossibilità di individuare una nozione unitaria di ente pubblico, abbracciando tale nozione una fenomenologia estremamente varia e multiforme. Il problema si è accentuato con il processo di privatizzazione di enti pubblici e la sempre più accentuata tendenza legislativa a riconoscere in capo a soggetti operanti normalmente iure privatorum la titolarità o l'esercizio di compiti di spiccata valenza pubblicistica. Proprio questa tendenza ha accentuato il dibattito concentrandolo, in modo particolare, sulla configurabilità di enti pubblici a struttura societaria” (Cass. penale, sez. II, 21 settembre 2012, n. 42408).

Ritiene dunque la Corte che la nozione di "ente pubblico" nel nuovo sistema ordinamentale nel quale si inserisce, rilevante anche ai fini dell’applicazione delle fattispecie penali, può essere mutuata dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria, recepita nella legislazione italiana, certamente corrispondente all'originario intento del legislatore del codice penale di sanzionare tutte quelle condotte che incidono su soggetti - persone giuridiche strumentali al perseguimento di "bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale" e, in tal senso, posti in situazione di stretta dipendenza nei confronti dello Stato, degli enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico in senso formale.

La concezione sostanzialistica di ente pubblico presente nei diversi ambiti di giurisdizione trova dunque una comune ragione d’essere, come più volte rilevato anche dalla Corte costituzionale, nella necessità di evitare che l’impiego della società per azioni, quale strumento organizzativo per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, impedisca il controllo, e le sanzioni relative, sulla dispersione del patrimonio pubblico.

In conclusione, quanto stabilito ormai ottanta anni fa dal codice civile agli artt. 11-13 – a mente dei quali alle persone giuridiche di diritto pubblico si applicava il diritto amministrativo e alle persone giuridiche di diritto privato si applicava il diritto civile (in particolare il I libro del codice civile per gli enti senza finalità di lucro ed il V libro per quelli con finalità di lucro) – è superato. Oggi, infatti, come prima accennato, da un alto, vi sono soggetti che hanno veste formalmente privatistica ai quali si applicano norme di diritto amministrativo, come gli organismi di diritto pubblico e le imprese pubbliche, dall’altro, è sempre più frequente che alle pubbliche amministrazioni si applichi il diritto civile.

A conferma di quanto ora detto, basti richiamare l’articolo 1, comma 1 ter, l. 7 agosto 1990, n. 241 (ai sensi del quale “i soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1, con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla presente legge”) nonché l’articolo 7, comma 2, c.p.a. nella parte in cui chiarisce che “per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo”.


6. Nozione di stazione appaltante, di amministrazione aggiudicatrice e di ente aggiudicatore.

Poste tali premesse, prima di dare risposta al quesito, è necessario soffermarsi sulle specifiche definizioni contenute nel cod. app. (d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50) con riferimento ai soggetti tenuti al rispetto della disciplina in materia di appalti e concessioni.

L’articolo 3, comma 1, cod. app., come è noto, contiene le definizioni più rilevanti.

Per le ragioni che meglio si chiariranno più avanti, giova ricordare che il Codice definisce stazioni appaltanti “le amministrazioni aggiudicatrici di cui alla lettera a), gli enti aggiudicatori di cui alla lettera e), i soggetti aggiudicatori di cui alla lettera f) e gli altri soggetti aggiudicatori di cui alla lettera g)” (lett. o).

Amministrazioni aggiudicatrici sono “le amministrazioni dello Stato; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti pubblici non economici; gli organismi di diritto pubblico; le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti” (lett. a).

Nello specifico campo dei settori speciali (artt. 114-121 cod. app.), sono invece enti aggiudicatori gli enti che “sono amministrazioni aggiudicatrici o imprese pubbliche che svolgono una delle attività di cui agli articoli da 115 a 121” oppure gli enti che pur non essendo amministrazioni aggiudicatrici né imprese pubbliche, esercitano una o più attività tra quelle di cui agli articoli da 115 a 121 e operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi loro dall'autorità' competente” (lett. e). Tale definizione trova poi conferma all’articolo 114, comma 2, cod. app., nella parte in cui stabilisce che “le disposizioni di cui al presente Capo si applicano agli enti aggiudicatori che sono amministrazioni aggiudicatrici o imprese pubbliche che svolgono una delle attività previste dagli articoli da 115 a 121; si applicano altresì ai tutti i soggetti che pur non essendo amministrazioni aggiudicatrici o imprese pubbliche, annoverano tra le loro attività una o più attività tra quelle previste dagli articoli da 115 a 121 ed operano in virtù di diritti speciali o esclusivi”.

La titolarità di “diritti speciali o esclusivi” ha dunque una rilevanza decisiva ai fini della qualificazione di soggetti privati, diversi dalle imprese pubbliche, quali enti aggiudicatori. Il codice specifica che “per diritti speciali o esclusivi si intendono i diritti concessi dallo Stato o dagli enti locali mediante disposizione legislativa, regolamentare o amministrativa pubblicata compatibile con i Trattati avente l'effetto di riservare a uno o più enti l'esercizio delle attività previste dagli articoli da 115 a 121 e di incidere sostanzialmente sulla capacità di altri enti di esercitare tale attività” (articolo 114, comma 3, Cod. App.). Con la precisazione che non costituiscono diritti speciali o esclusivi, ai sensi del comma 3, i diritti concessi in virtù di una procedura ad evidenza pubblica basata su criteri oggettivi (articolo 114, comma 4, cod. app.).

La disciplina dei settori speciali ha una matrice comunitaria; la speciale disciplina è orientata - mediante un avvicinamento alle regole contrattuali imposte alle amministrazioni - a prevenire la chiusura dei mercati dal frequente monopolio degli esercenti in relazione a quelle che per l'articolo 106 TFUE sono "imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale". Il legislatore, dunque, in presenza di soggetti che godono di particolari situazioni di vantaggio correlate all’attività esercitata, “compensa” il vantaggio competitivo che ne può derivare imponendo l’applicazione della procedura di evidenza pubblica, seppur nelle forme attenuate di cui alla Parte II, Titolo VI, del Codice.

I settori speciali sono considerati tali perché riguardano, in generale, attività corrispondenti a bisogni fondamentali dei cittadini europei.

La particolarità dei settori speciali dipende, da un lato, dalla “strategicità” degli ambiti di riferimento che oggi giustifica le semplificazioni rispetto alla disciplina dei settori ordinari. Dall’altro lato, la disciplina dei settori speciali si applica a un insieme di soggetti più ampio rispetto a quello considerato per i settori ordinari: le attività proprie di tali settori vengono infatti spesso esercitate da soggetti, formalmente privati, che erogano i servizi corrispondenti in regime di monopolio o in forza di un rapporto particolare con autorità pubbliche.

Per la giurisprudenza, la disciplina per i settori speciali opera solo se l'affidamento si pone in rapporto di mezzo a fine rispetto al settore speciale di pertinenza: il nesso di strumentalità per giurisprudenza prevalente va inteso in senso restrittivo; e quando l'impresa pubblica affida un servizio estraneo all'attività speciale, il servizio soggiace, anche quanto ad affidamento selettivo, alle norme di diritto comune, con conseguente giurisdizione ordinaria per le controversie (Cons. St., sez. V, 30 dicembre 2019, n. 8905).

Concludendo sul punto, può affermarsi che in talune ipotesi anche i soggetti privati – “gli enti che pur non essendo amministrazioni aggiudicatrici né imprese pubbliche, esercitano una o più attività tra quelle di cui agli articoli da 115 a 121 e operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi loro dall'autorità competente” – sono qualificabili come stazioni appaltanti e sono tenuti al rispetto delle procedure di evidenza pubblica con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’articolo 133 c.p.a.


7. Risposta al quesito.

7.1. Alla luce delle considerazioni che precedono, la Sezione ritiene di potere rispondere positivamente al quesito formulato da AGCM ritenendo possibile dunque il controllo, ed eventualmente l’attivazione dei poteri previsti dall’art. 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti dei bandi adottati dalle società operanti nei settori speciali di cui agli artt. 115 ss. cod. cont.

Il dubbio circa l’equiparabilità delle imprese e degli enti operanti nei settori speciali alle pubbliche amministrazioni deve essere sciolto in senso positivo nei limiti in cui tali soggetti sono tenuti al rispetto delle procedure di evidenza pubblica.

Tale conclusione è avvalorata da un triplice ordine di considerazioni.

7.2. In primo luogo, quando le imprese operanti nei settori speciali sono obbligate al rispetto della disciplina del cod. app., gli atti da queste emanati sono, ai sensi dell’articolo 7, comma 2, c.p.a., atti amministrativi perché sottoposti ai principi e alle regole procedurali del codice dei contratti pubblici.

Si tratta, in definitiva, di atti compiuti da soggetti equiparati, ai sensi dell’articolo 7, comma 2, c.p.a., alle pubbliche amministrazioni poiché “tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo” e, dunque, di atti rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo stando al chiaro disposto del codice del processo amministrativo.

Conseguentemente, per la Sezione, tali atti devono rientrare anche nell’ambito applicativo dell’articolo 21 bis l. 10 ottobre 1990, n. 287 perché, ragionando diversamente, verrebbe a verificarsi un’insanabile contraddizione in quanto lo stesso atto (ad esempio, un bando di gara), pur essendo certamente provvedimento amministrativo (ai sensi degli articoli 3 e 114 cod. app. e 7, comma 2, e 133 c.p.a.), sarebbe, ai sensi dell’articolo 21 bis più volte citato, solo atto adottato da soggetto privato.

Detto in altri termini, quando un soggetto per il codice degli appalti è qualificabile come stazione appaltante, adotta – nelle materie in cui è tenuto al rispetto della normativa di derivazione eurounitaria – atti equiparati ai provvedimenti amministrativi dall’articolo 7, comma 2, c.p.a.

7.3. In secondo luogo, è la stessa nozione funzionale e cangiante di amministrazione a rendere possibile – se non ad imporre – la qualificazione di tali atti quali atti adottati, ratione materiae, da soggetti equiparati alla pubblica amministrazione per le ragioni meglio esposte nei paragrafi precedenti. Se tale equiparazione è ammessa addirittura dalla giurisprudenza penale, come prima dimostrato al paragrafo 5, in un settore nel quale vige lo stretto principio di tipicità delle fattispecie penali, a fortiori deve ritenersi possibile nel diritto amministrativo.

7.4. In terzo luogo, va evidenziato che ulteriore conferma di quanto qui affermato può ritrovarsi all’articolo 211 cod. app.

Va ricordato, invero, che l'articolo 52 ter, comma 1, d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, ha aggiunto all’articolo 211 del codice dei contratti pubblici il comma 1 bis e il comma 1 ter, prevedendo in favore di ANAC un sistema di controllo, già sperimentato dal legislatore proprio con l’articolo 21 bis più volte citato.

È stato infatti osservato dalla dottrina che la legittimazione a ricorrere attribuita per legge all’ANAC si inserisce nel solco di altre fattispecie di fonte legislativa che in passato hanno riconosciuto alle autorità amministrative indipendenti il potere di agire in giudizio, come appunto l’articolo 21 bis cit. per AGCM.

Come affermato dall’adunanza plenaria, con sentenza 26 aprile 2018, n. 4, “si tratta, invero, del conferimento all'ANAC di una legittimazione processuale straordinaria al pari di quanto disposto da altre previsioni normative”.

Per quanto di interesse in questa sede, vale la pena notare che nella disposizione contenuta all’articolo 211, comma 1 bis, cod. app. – emanata di recente e come tale maggiormente coerente con l’evoluzione del sistema e dei principi – il riferimento è più correttamente effettuato agli atti delle “stazioni appalti” e, dunque, anche agli atti adottati dalle imprese quando sono qualificabili come enti aggiudicatori, giusta la ricostruzione operata al precedente paragrafo 6.

Sotto tale aspetto, il riconoscimento ad ANAC del potere di impugnazione degli atti adottati dalle società operanti nei settori speciali – quando possono essere qualificate come stazioni appaltanti – rende opportuno interpretare l’articolo 21 bis, più volte citato, nel senso di contemplare un analogo potere, per quanto di competenza, in capo ad AGCM.

8. In conclusione, il Consiglio di Stato esprime parere nel senso che l’articolo 21 bis cit. è applicabile ai bandi di gara delle società operanti nei settori speciali di cui agli artt. 115 e ss. del codice dei contratti pubblici, nei casi in cui tali società siano tenute al rispetto del d. lgs 18 aprile 2016, n. 50.

P.Q.M.

Nei termini suesposti è il parere della Sezione.


 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Vincenzo Neri Mario Luigi Torsello
 
 
 
 

IL SEGRETARIO

Elisabetta Argiolas


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