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Consiglio di Stato, Sez. VI, 15/2/2023 n. 1597
L'inversione dell’onere della prova, ex art. 34, c.5, del codice del consumo, può trovare applicazione solo a rapporti business to consumer e non anche business to business.

Materia: commercio / consumatori
Pubblicato il 15/02/2023

N. 01597/2023REG.PROV.COLL.

N. 06207/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6207 del 2021, proposto da
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

Esselunga S.p.A., rappresentata e difesa dagli avvocati Antonio Pavan, Enrico Adriano Raffaelli, Elisabetta Teti e Alessandro Raffaelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

nei confronti

Associazione Italiana Panificatori ASSIPAN - Confcommercio - Imprese per L'Italia, non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, Sezione I, n. 4014 del 2021.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Esselunga S.p.A.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2023 il Cons. Giovanni Gallone;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. L'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (in seguito anche “A.G.C.M.”) ha avviato diversi procedimenti nei confronti di soggetti della grande distribuzione organizzata (in seguito anche “G.D.O.”), diretti a verificare l'esistenza di violazioni all'art. 62, comma 1 e comma 2, del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 recante "Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività", nonché dell'art. 4, comma 1 e 2, del decreto n. 199/2012 del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (“Regolamento di attuazione dell'articolo 62 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1”).

1.1 Nello specifico, il procedimento oggetto di causa aveva ad oggetto le condotte consistenti nell'imporre, in particolare dal 2014, ai propri fornitori di pane fresco: i) il ritiro e lo smaltimento a proprie spese dell'intero quantitativo di prodotto invenduto a fine giornata, in percentuale rilevante rispetto al prodotto ordinato; ii) il ri-accredito alla catena distributiva del prezzo corrisposto per l'acquisto della merce restituita (c.d. obbligo di reso).

In tal modo, la catena distributiva avrebbe sfruttato la propria posizione di forza commerciale a danno dei fornitori di pane fresco, soggetti deboli del rapporto negoziale, imponendo loro condizioni ingiustificatamente gravose.

1.2 Al termine dell'istruttoria, veniva adottato il provvedimento n. 27823 del 27 giugno 2019, con il quale l'A.G.C.M. ha ritenuto che le condotte commerciali poste in essere da Esselunga S.p.A. violavano l'art. 62, comma 2, lettere a) ed e) del D.L. 1/2012, così come interpretato anche ai sensi dell'art. 4, comma 1, del Decreto di attuazione, conseguentemente irrogando una sanzione di euro 50.000 e formulando a porre immediatamente termine a tale violazione.

2. La società appellata ha impugnato avanti il T.A.R. per il Lazio, Roma, tale provvedimento, chiedendone l’annullamento e, in subordine, la riduzione della sanzione.

2.1 A sostegno del ricorso introduttivo di primo grado ha lamentato:

- l’irragionevole tardività della contestazione formulata dall’Autorità nonché la illegittima durata della fase pre-istruttoria ai sensi dell’articolo 14 L. n. 689/1981 (primo motivo);

- la violazione del principio di “parità delle armi” tra accusa e difesa, a causa della inaccessibilità a taluni dei dati relativi alle risposte ai questionari somministrati dall’Autorità, tra cui le risposte integrali e i nominativi dei fornitori di pane (secondo motivo);

- l’illegittima modalità di acquisizione delle prove da parte della Direzione Istruttoria di A.G.C.M., tenuto conto in particolare della scarsa significatività statistica delle risposte date ai questionari, dal fatto che l’impianto accusatorio si baserebbe su considerazioni generali e dalla modalità di costruzione del questionario stesso, che sarebbe poco trasparente ed obiettiva (terzo motivo); - l’assenza di prove circa la presenza di uno squilibrio contrattuale tra Esselunga S.p.A. e i panificatori, dell’imposizione della clausola del reso e del trasferimento di un rischio sproporzionato (quarto motivo)

- ; l’illogicità della motivazione nella parte in cui contesta a Esselunga S.p.A. l’applicazione della clausola del reso, che implica ritiro logistico e riaccredito economico, per poi sostenere che la proposta di Esselunga implicasse il solo aspetto logistico e non anche quello economico (quinto motivo); l’errata quantificazione della sanzione, per non aver tenuto conto che Esselunga fa ricorso per oltre al 95% del proprio fabbisogno all’autoproduzione di pane, dell’opera svolta per eliminare o attenuare la presunta infrazione, nonché per disparità di trattamento rispetto alle sanzioni irrogate ad altre imprese operanti nella grande distribuzione organizzata (sesto e ultimo motivo).

3. Con la sentenza indicata in epigrafe, il T.A.R. per il Lazio, Roma, adito ha accolto il ricorso, annullando il provvedimento in ragione del ravvisato difetto di istruttoria in merito all'imposizione ai fornitori di una clausola contrattuale contraria all'art. 62, comma 2, lett. a) e d), del d.l. 1/2012 ritenendo, in particolare, condivisibili, “censure riguardanti l’attività istruttoria svolta, avuto riguardo alla inidoneità dei dati raccolti a dimostrare l’imposizione generalizzata ai fornitori di Esselunga dell’obbligo di reso del pane invenduto” e disponendo l’assorbimento degli altri motivi di gravame.

4. Con ricorso notificato il 25 giugno 2021 e depositato il 5 luglio 2021 l'Autorità ha proposto appello avverso la suddetta sentenza.

4.1 A sostegno dell’impugnazione ha dedotto i motivi così rubricati:

1) violazione dell’art. 62 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. con mod. in l. 24 marzo 2012, n. 27, sotto il profilo della vessatorietà della prassi commerciale, con contestuale violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. nonché falsa applicazione dell’art. 34, comma 5, del Codice del consumo;

2) difetto di motivazione per travisamento dei fatti in merito all’istruttoria amministrativa in merito alla imposizione di una condizione ingiustificatamente gravosa e al trasferimento di un rischio sproporzionato in capo ai fornitori di pane fresco, con contestuale violazione dell’art. 62 d.l. n. 1 del 2012 e del d.m. del 19 ottobre 2012, n. 199, sotto diverso e ulteriore profilo.

5. In data 21 dicembre 2021 si è costituita in giudizio la società appellata chiedendo la reiezione dell’appello.

6. In data 17 gennaio 2023 la società appellata ha depositato memorie difensive anche riproponendo, ai sensi dell’art. 101, comma 2 c.p.a., i motivi di censura articolati in primo grado, già dichiarati assorbiti con la sentenza impugnata.

7. All’udienza pubblica del 2 febbraio 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. L’appello è infondato e deve essere respinto.

2. Con il primo motivo di appello si censura l’impugnata sentenza nella parte in cui, in violazione dell’art. 62 del d.l. n. 1 del 2012 ha sancito che la prova dell’illecito in contestazione non può essere fornita per presunzione da parte dell’Autorità e che l’istruttoria procedimentale sarebbe insufficiente, perché basata essenzialmente su questionari, il cui esito non è univoco.

Osserva parte appellante che, nel caso di specie, sarebbe pacifico e incontestato che un numero significativo di fornitori di pane fosse obbligato al reso dell’invenduto e che, in una situazione di acclarato squilibrio negoziale, una siffatta condizione, vantaggiosa per il contraente più forte e dannosa per il contraente con minore potere negoziale, sarebbe un indizio del fatto che la stessa sia stata “subita” dalla parte debole e che sia stata apposta senza nessuna trattativa commerciale. In proposito, si evidenzia che il panificatore gravato dall’obbligo del reso sarebbe tenuto a sopportare interamente i costi vivi della produzione e del trasporto di consistenti quantità di prodotto, che gli vengono ordinate ma non pagate. Inoltre, una volta ritirato il pane invenduto, il panificatore sarebbe tenuto anche a farsi carico degli oneri del suo smaltimento, risultando assenti, o presenti in misura trascurabile, le possibilità di riutilizzo profittevole del prodotto. In ultimo, a questi non verrebbe fornita alcuna certezza in merito alla percentuale del prodotto consegnato che genererà un effettivo ricavo.

Ad avviso della appellante erra, dunque, il giudice di prime cure a porre a carico dell’Autorità un onere della prova eccessivamente gravoso e contrario ai principi generali in tema di utilizzabilità della prova presuntiva.

Sostiene, sul punto, l’appellante che, nella fattispecie in esame, a fronte di una pratica (quale l’obbligo di reso dell’invenduto) pacificamente attuata dal grande distributore, fosse onere di quest’ultimo dimostrare che essa era stata il frutto di una specifica negoziazione con il fornitore e che, trattandosi di fatto negativo, sarebbe, in ogni caso, ammessa la sua prova per presunzioni a mezzo degli indizi, plurimi, univoci e concordanti emersi nel corso dell’istruttoria procedimentale (tra cui l’insieme dei questionari somministrati ai panificatori).

Si denuncia, in ultimo, l’erronea applicazione da parte del giudice di primo grado dell’art. 34, comma 5, del Codice del consumo atteso che l’inversione dell’onere della prova ivi prevista sarebbe applicabile anche ai rapporti “business to business” e non solo a quelli “business to consumer”. Ciò in quanto la disciplina dell’art. 62 del d.l. n. 1 del 2012 sarebbe stata introdotta proprio per tutelare il contraente debole (fornitore/panificatore) in un rapporto contrattuale caratterizzato da uno squilibrio contrattuale a favore della grande distribuzione.

2.1 Con il secondo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha accolto le doglianze relative al difetto di istruttoria in cui sarebbe incorsa l’Autorità nell’accertamento dell’effettiva imposizione a danno dei fornitori di una clausola contrattuale in contrasto con l’art. 62, comma 2, lett. a) ed e), del d.l. n. 1 del 2012.

Tale conclusione muoverebbe, ad avviso dell’appellante, dell’errore di fondo che, nel caso in esame, l’accertamento della condotta sarebbe stato basato esclusivamente su elementi presuntivi e, in particolare, sul solo questionario inviato ai panificatori fornitori della grande distribuzione organizzata. Più segnatamente, il giudice di prime cure avrebbe tralasciato del tutto di considerare che l’accertamento degli elementi costitutivi dell’illecito sarebbe suffragato da un’analisi molto puntuale e documentata.

In proposito si osserva che il provvedimento emesso dall’Autorità conterrebbe una puntuale e documentata analisi della fattispecie, da cui risulta comprovata non solo l’esistenza di un significativo squilibrio di potere negoziale tra le catene della grande distribuzione organizzata e i fornitori di pane fresco ma anche lo sfruttamento abusivo da parte delle società di distribuzione della propria posizione di forza commerciale, sostanziatasi nell’imposizione di una condizione ingiustificatamente gravosa in capo ai panificatori e nel trasferimento sugli stessi di un rischio sproporzionato, tipico dell’attività distributiva.

Quanto, nel dettaglio, all’esistenza di un considerevole buyer power delle catene distributive nei confronti dei propri fornitori di pane fresco, detta condizione sarebbe emersa da una serie di elementi quali:

- una forte asimmetria dimensionale, in termini di fatturato, numero di dipendenti e unità locali, tra società appellante e le imprese di panificazione (per lo più piccole imprese artigiane e a conduzione familiare, con un fatturato inferiore ai 10 milioni di euro e un esiguo numero di dipendenti);

- la natura altamente deperibile del pane fresco che, dovendo essere necessariamente venduto in giornata, non può essere stoccato per modulare le quantità da immettere nel mercato;

- il fatto che il pane fresco viene per lo più venduto senza marchio (quando è sfuso) o (quando è confezionato) con un marchio di scarsissima notorietà e forza commerciale, per cui la merce dei diversi fornitori confluisce in modo indistinto sugli scaffali dei punti vendita non consentendo al consumatore di associarne le caratteristiche qualitative al produttore. Il che rende particolarmente agevole la sostituzione dei fornitori, anche in vigenza del rapporto contrattuale;

- la non sostituibilità da parte dei panificatori delle catene della G.D.O., che rappresentano uno dei principali canali di approvvigionamento di pane per il consumatore e, conseguentemente, un canale di sbocco essenziale e di difficile sostituzione per i panificatori, specie qualora essi non dispongano di una propria rivendita diretta;

- la capacità della catena distributiva di soddisfare parte del proprio bisogno di pane tramite l’autoproduzione, che incrementa il potere negoziale della catena nei confronti dei panificatori consentendo flessibilità negli acquisti e maggiore facilità di sostituzione dei fornitori esterni.

Quanto, poi, alla circostanza che le catene distributive avrebbero fatto leva su detto squilibrio per imporre l’obbligo del reso alla maggior parte dei propri fornitori, pur trattandosi di una condizione per essi non conveniente, essa sarebbe desumibile sulla base delle seguenti considerazioni:

- quella in parola era una prassi stabilita dalle catene di distribuzione che non necessariamente risultava (e nella quasi totalità dei casi non lo era) formalizzata in una previsione contrattuale scritta (come invece imporrebbe l’art. 62, comma 1, del d.l. n. 1 del 2012);

- la disomogeneità circa le modalità applicative dell’obbligo di reso che la sentenza impugnata ha ritenuto sintomatica di una carenza istruttoria e dell’insussistenza dell’illecito sarebbe, in realtà, diretta conseguenza dell’assenza nella maggioranza dei casi di una “cristallizzazione” contrattuale di tale obbligo;

- nel descrivere le condotte della società di distribuzione in relazione all’obbligo di reso, l’Autorità avrebbe dato puntualmente conto delle risultanze derivanti dalle evidenze documentali disponibili, riservando ai dati emergenti dal questionario una funzione aggiuntiva di conferma/supporto ulteriore di tali evidenze;

- il fatto che le risposte al questionario siano state “fornite da un numero limitato di panificatori” non sarebbe affatto sintomatico di un quadro istruttorio carente, nella misura in cui il provvedimento gravato ha dato conto dell’esistenza di timori da parte dei panificatori di esporsi al rischio di subire ritorsioni commerciali da parte delle catene della grande distribuzione organizzata; a tale riguardo, appare particolarmente indicativo il caso di un panificatore che - nonostante le ampie rassicurazioni ricevute in merito al mantenimento della più assoluta riservatezza sull’identità dei rispondenti - ha chiesto comunque la riservatezza integrale delle risposte fornite in quanto ritenute “sensibili per la sopravvivenza” dell’azienda stessa.

Nello specifico caso in scrutinio relativo alla appellata Esselunga S.p.A. sarebbe, inoltre, emersa la totale assenza nell’accordo quadro stipulato dalla stessa con i fornitori di pane di una clausola disciplinante l’obbligo di reso (cfr. docc. 4-7 del fascicolo di primo grado). In particolare, l’Autorità afferma di aver accertato che (par. 50 del provvedimento impugnato) la prassi adottata da Esselunga S.p.A. avrebbe previsto che:

i) Esselunga S.p.A. acquistasse l’intera quantità di pane fresco ordinata e, quindi, consegnata dai singoli panificatori;

ii) a fine giornata, ciascun fornitore ritirasse, per poi smaltire a proprie spese, tutto il prodotto rimasto invenduto sugli scaffali;

iii) periodicamente (generalmente ogni quindici giorni), il fornitore riaccreditasse al cliente l’intero corrispettivo ricevuto per l’acquisto del pane fresco invenduto e da questi ritirato (e, in molti casi, anche di altri prodotti di panetteria freschi, quali pizze e focacce, per i quali è ugualmente previsto l’obbligo di reso) mediante emissione, da parte del panificatore, di una nota di credito di importo pari al valore di acquisto del prodotto ritirato.

In particolare, l’istruttoria avrebbe fatto invero emergere che il panificatore fosse costretto ad inviare una mail/una nota ad Esselunga S.p.A. con la quale, nel trasmettere il contratto sottoscritto, dava “conferma delle condizioni per il reso del pane invenduto: per pane non confezionato Vostra nota di debito al prezzo di costo” (cfr., ad esempio, pag. 10 del doc. 7 del fascicolo di primo grado).

3. Le suddette censure, che possono essere esaminate congiuntamente stante l’intima connessione tra loro esistente, sono infondate.

Come noto, l’onere della prova del fatto costituente l’illecito grava, secondo le regole generali, a carico dell’Autorità garante procedente ma, in difetto di specifiche preclusioni di legge, può da questa essere assolto anche a mezzo di presunzioni semplici purché dotate dei crismi della gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c..

Ebbene, nel caso di specie, A.G.C.M., partendo dal fatto noto costituito dalla diffusa applicazione da parte della appellata della clausola di reso nell’ambito dei propri rapporti di distribuzione commerciale, ha desunto sul piano logico l’esistenza di un fatto ignoto (positivo e non negativo, come invece sostenuto dalla difesa erariale) costituito dall’imposizione della medesima clausola ai panificatori. Siffatta presunzione è stata fatta riposare sul risultato dei questionari somministrati ai panificatori e sul rilievo che la clausola di reso sarebbe ictu oculi sfavorevole per gli stessi. Ciò lascerebbe, infatti, intendere che i panificatori, in quanto parte debole del rapporto, ne abbiano passivamente subito l’applicazione senza alcuna trattativa individuale.

3.1 Ritiene il Collegio che il ragionamento presuntivo in parola non risponda ai requisiti ex art. 2729 c.c., che non valga, pertanto a sostenere il provvedimento impugnato e che ciò si riverberi, come condivisibilmente affermato dal T.A.R., in un difetto di istruttoria dello stesso.

A difettare è, anzitutto, l’attributo della gravità, con ciò intendendosi l’attitudine dimostrativa della presunzione anche in termini di solidità della deduzione inferenziale alla sua base.

E, infatti, nonostante la clausola di reso in parola abbia trovato larga applicazione nei rapporti di distribuzione della società appellata preme rilevare che, nel caso di specie, come correttamente osservato dal giudice di prime cure, secondo i dati risultanti dal questionario, a fronte di un totale di 17 panificatori che rifornivano la società appellata nel periodo interessato dall’istruttoria, hanno dato risposta al questionario solo 6 panificatori (che hanno “confermato di avere sottoscritto l’obbligo di ritiro dell’intero quantitativo di pane sfuso invenduto e di riaccredito dello stesso al costo di acquisto”), e di questi 6 solo 4 hanno dichiarato che tali condizioni erano state “proposte/imposte” dalla catena distributiva. Uno dei 4 panificatori, inoltre, ha dichiarato di avere concordato gli ordinativi con il cliente per minimizzare i resi.

Né può obliterarsi che la stessa formulazione della domanda relativa al reso contenuta sia in certa misura equivoca perché pone sul medesimo piano la “proposta” e l’“imposizione” con la conseguenza che non è in alcun modo dato sapere in quanti dei suddetti casi di risposta positiva vi sia stata effettiva imposizione (e non anche accettazione, a seguito di “proposta” e negoziazione).

Inoltre, va, per contro, evidenziato che risultano documentate trattative individuali di Esselunga S.p.A. con alcuni singoli panificatori, con la conseguenza che la clausola di reso non era applicata a tutti indistintamente e che, ove applicata, lo era a condizioni diversificate.

Nel senso dello svolgimento di una trattativa individuale tra le parti depone, in particolare, la circostanza che la clausola del reso del pane non fosse inserita nel contratto standard di Esselunga S.p.A. (Accordo Quadro) ma avesse carattere aggiuntivo e non fosse prevista indistintamente per tutte le tipologie di pane fornito da un dato panificatore.

Più segnatamente, sui 14 fornitori di pane della società appellata nel 2017:

- nel caso di Toscana Pane S.r.l. le parti hanno negoziato l’esclusione della clausola del reso per sei tipologie di pane fornito, mentre hanno concordato l’applicazione di tale clausola per le altre (docc. 5.B, 6 e 7 del fascicolo di primo grado);

- nel caso di Grissitalia S.r.l. le parti hanno negoziato l’esclusione della clausola del reso per una tipologia di pane fornito, mentre hanno concordato l’applicazione di tale clausola per le altre (docc. 5.a, 7 del fascicolo di primo grado);

- nel caso di Te.ni S.r.l. le parti hanno negoziato la totale esclusione della clausola del reso (docc. 5.l, 7 del fascicolo di primo grado);

- nel caso di Bresciapan Meini S.r.l. le parti hanno concordato che al “pane reso” si attribuisce il valore di euro 1,30 indipendentemente dal costo di acquisto per Esselunga per le singole tipologie di pane (costo di acquisto in ogni caso superiore al predetto valore di 1,30) (docc. 5 del fascicolo di primo grado);

- nel caso del Panificio Menchetti Pietro S.r.l. le parti hanno concordato l’abrogazione del conteggio delle differenze di pane invenduto a fine anno, escludendo nei fatti l’applicazione del reso del pane (docc. 5. e 7 del fascicolo di primo grado).

In ultimo, non può ragionevolmente sostenersi, come fa la difesa erariale, che il risultato non omogeneo del sondaggio sia legato al timore dei panificatori nel rispondere al questionario posto che quest’ultimo era sostanzialmente anonimo (vedi nota 1 di pag. 1 del modello di questionario ove si legge che “I questionari verranno trattati in forma anonima e le risposte utilizzate soltanto in forma aggregata, a fini statistici, in modo che nessuna risposta possa essere ricondotta alla società che l’ha fornita. Sarà altresì considerato riservato l’elenco dei soggetti rispondenti”).

3.2 L’istruttoria svolta in sede procedimentale dall’Autorità restituisce, pertanto, sulla base del risultato dei questionari, un quadro non univoco in cui la clausola di reso non ha trovato applicazione omogenea.

Ciò indebolisce di molto, fino a quasi escludere del tutto, la capacità dimostrativa della presunzione semplice posta a base del provvedimento impugnato (che avrebbe avuto ben altra forza ove l’applicazione del reso non avesse conosciuto eccezioni ovvero declinazioni peculiari).

Nel solco della giurisprudenza ormai costante di questa Sezione occorre, del resto, “tenere conto della complessiva regolazione del rapporto contrattuale”, non potendosi escludere che il trasferimento del rischio connaturato alla clausola di reso “si declini in termini differenti in ciascun singolo rapporto, con l’effetto di rendere la clausola «non gravosa» e non espressione di un «abuso» da parte della catena di distribuzione” (così Cons. Stato, sez. VI, nn. 3293, 3294 e 3295, 3334, 3335, 3338, 3339 e 3340 del 27 aprile 2022).

In questo senso merita conferma la sentenza impugnata che ha annullato il provvedimento proprio per l’assenza in esso di una completa analisi delle fattispecie contrattuali che di fatto intercorrevano tra fornitore e distributore, mettendo in luce come le stesse non rispondessero affatto ad un modello identico.

Sotto altro profilo, la capacità dimostrativa della presunzione impiegata dall’Autorità pare incrinata dalla circostanza messa in evidenza dalla difesa dell’appellata (deduzione invero non avversata dall’appellante), che lungi dall’essere vessatoria o imposta, la clausola in parola era fortemente voluta da alcuni panificatori fornitori di Esselunga S.p.A. posto che il reso invenduto poteva essere impiegato per realizzare mangimi impiegabili in zootecnia. Ad esempio, come emerge dalla documentazione versata in atti, Sfera Italia S.p.A. ha dichiarato, nel carteggio intervenuto con la società appellata in merito ad una possibile rinegoziazione della clausola di reso, che i “prodotti di scarto e di ritorno (pane reso) dai clienti sono destinati ad uso Zootecnico che da Ns manuale HACCP. Si evidenzia che tutti i materiali interni della lavorazione non destinati alla vendita o di recupero / pulizia seguono la via del differenziato con destinazione organico” (doc. 22 del fascicolo di primo grado). Grissitalia S.r.l. ha analogamente dichiarato che “la nostra azienda sta già operando in base ad un accordo con alcuni mangimifici locali, ai quali viene regolarmente consegnato il pane invenduto per uso zootecnico. Quindi, preferiamo continuare a gestire in modo autonomo lo smaltimento del pane, anche in considerazione dei rapporti esistenti da anni con tali mangimifici” (doc. 23 del fascicolo di primo grado). Brusa S.r.l., alla stessa maniera, ha riferito ad Esselunga S.p.A. che “la ns. società preferisce continuare ad interessarsi al ritiro e smaltimento del pane invenduto, mantenendo le attuali condizioni commerciali invariate” (doc. 24 del fascicolo di primo grado).

3.3 Non sussiste neppure il requisito della concordanza ex art. 2729 c.c., con ciò intendendosi che il risultato del ragionamento presuntivo deve porsi in armonia con il complesso delle altre risultanze probatorie emerse in sede istruttoria.

E, infatti, in disparte dalla circostanza che non risultano essere stati addotti dall’Autorità elementi fattuali diversi dal mero risultato del questionario in grado di confermare l’effettiva imposizione della clausola di reso, si riscontra, come già si è accennato, la presenza di emergenze documentali di segno opposto e, quindi, dissonanti rispetto al risultato del ragionamento presuntivo (tra tutti le risposte rese da alcuni panificatori da cui emerge lo svolgimento di trattative individuali).

3.4 Va da sé che se il ragionamento presuntivo non presenta i crismi della gravità e concordanza e, quindi, non risulta raggiunta la prova per presunzione semplice del fatto ignoto non si può predicare, come sostenuto dalla difesa erariale, alcuna inversione dell’onere della prova a carico del sanzionato circa l’avvenuta effettiva negoziazione della clausola di reso.

3.5 In ultimo, quanto al meccanismo di inversione dell’onere della prova disegnato dall’art. 34 comma 5 Codice del Consumo invocato dalla difesa di parte appellante, preme rilevare che, come correttamente ritenuto nella sentenza impugnata, esso può trovare applicazione solo a rapporti business to consumer e non anche, come nel caso di specie, business to business. La giurisprudenza è stata, infatti, molto chiara nell'affermare che nei “contratti del tipo “B2B” (business to business), ossia tra operatori commerciali […] non vale la presunzione di vessatorietà della clausola inserita in uno schema di contratto, prevista dall’art. 34, comma 5, del Codice del Consumo per i soli contratti tra professionista e consumatore, vale a dire “B2C” (business to consumer). Dunque, la regola secondo cui incombe sul professionista l’onere di provare che la clausola predisposta unilateralmente sia stata oggetto di specifica trattativa riguarda solo l’ipotesi in cui la controparte contrattuale sia un «consumatore», non potendo trovare applicazione nei rapporti tra professionisti" (così Cons. Stato, nn. 8844, 8845, 8846,8847, 8848, 8850, 8852, 8853 del 29 luglio 2020; n. 4012 del 22 aprile 2021; nn. 4534, 4536, 4537, 4546 del 19 aprile 2021; n. 4014 del 2 aprile 2021).

Né tale regola eccezionale può estendersi in via analogica al campo delle relazioni asimmetriche tra imprese (l’ambito del cd. “terzo contratto) a cui inerisce la disciplina di cui all’art. 62 d.l. n. 1 del 2012. Quest’ultima previsione disegna, del resto, una disciplina specifica che è autosufficiente, non bisognevole di eterointegrazione e che non reca alcuna analoga specifica previsione in tema di onere della prova.

Parimenti fuori fuoco è il richiamo operato dall’Autorità alla disciplina contenuta nella Direttiva (UE) 2019/633 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019 in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, in quanto sopravvenuta alla fattispecie in esame e ad essa pacificamente non applicabile (come pure ammesso dalla stessa difesa erariale).

4. Per le ragioni esposte, l'appello dell'Autorità non risulta idoneo a superare le valutazioni del giudice di prime cure secondo cui “tenuto conto dell’eterogeneità dei dati raccolti e del carattere presuntivo dell’indagine svolta, non è sufficientemente dimostrata l’affermazione dell’Autorità secondo cui la ricorrente avrebbe imposto ai fornitori una clausola contrattuale contraria agli obblighi di cui all’art. 62, comma 2, del D.L. n. 1/2012”.

5. Per le ragioni esposte, l'appello dell'Autorità va respinto con conferma della sentenza impugnata.

Tale esito esonera dallo scrutinio delle censure, dichiarate assorbite in primo grado, riproposte dall’appellata a mezzo di memoria ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.a..

6. Le spese di lite, stante la novità delle questioni trattate, possono essere compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati:

Giancarlo Montedoro, Presidente

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Stefano Toschei, Consigliere

Lorenzo Cordi', Consigliere

Giovanni Gallone, Consigliere, Estensore

 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Giovanni Gallone Giancarlo Montedoro
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO


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