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I confini dell'evidenza pubblica nelle procedure costitutive di società miste.
di Maria Elena Boschi 19 settembre 2007
Materia: società / scelta del socio privato

I CONFINI DELL’EVIDENZA PUBBLICA NELLE PROCEDURE COSTITUTIVE DI SOCIETA’ MISTE

 

 

SOMMARIO

 

 

1. Il problema dell'esistenza di un obbligo di evidenza pubblica in sede di scelta del socio privato di una società a capitale prevalentemente pubblico

 

2. I differenti contesti dell'azione imprenditoriale pubblica: necessità di distinguere tra azione in ambiti riservati o concessi dall'Amministrazione e azione in ambiti esposti al mercato

 

3. (Segue) Carattere riservato del bene o del servizio oggetto della concessione e necessità della gara ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato

 

4. L’applicazione concreta di un obbligo generalizzato di evidenza pubblica: rischi e paradossi

 

5. La procedura ad evidenza pubblica quale principio generale dell’ordinamento         

 

6. (Segue) Evidenza pubblica e servizio pubblico        

 

7. Il servizio pubblico come "modulo complesso di azione amministrativa": necessità di una lettura contestualizzata dell'evidenza pubblica  

 

8. Ricorso all'evidenza pubblica ed eterogeneità delle forme di disciplina dei servizi pubblici: un equilibrio difficile        

 

 

1.         Il problema dell'esistenza di un obbligo di evidenza pubblica in sede di scelta del socio privato di una società a capitale prevalentemente pubblico

 

Recentemente è stata espressa una posizione giurisprudenziale sul problema della comunque sussistente necessità dell’obbligo di evidenza pubblica in tema di scelta (1). La sentenza rappresenta l’occasione privilegiata per affrontare, tra le altre, la tematica relativa alla necessità dell’esperimento della procedura ad evidenza pubblica ai fini della scelta del socio privato di una società mista. Questione quanto mai delicata e dibattuta nel panorama amministrativo dottrinale e giurisprudenziale, essa viene in questa sede affrontata in una prospettiva tanto innovativa quanto discutibile.

Sebbene tale problematica venga trattata in modo particolarmente articolato nella pronuncia in oggetto, l’aspetto che appare senza dubbio preponderante è costituito dall’analisi circa l’ammissibilità di un eventuale obbligo di ricorrere all’impiego dell’evidenza pubblica in sede di scelta del socio privato di una società a capitale prevalentemente pubblico.

Il metodo di scelta del socio privato in una società con partecipazione pubblica (società mista) è stato, per lungo tempo, un profilo pressoché ignorato dalla dottrina così come dalla giurisprudenza. Nella pratica e nelle controversie che insorgevano non era mai stato posto seriamente in dubbio che la scelta dei soggetti privati, con i quali costituire o da ammettere a partecipare ad una società mista, fosse una scelta fiduciaria.

Soffermando l’attenzione sul settore dei servizi pubblici locali, nel quale la problematica della scelta del socio privato ha assunto particolare rilievo, si può notare che la sostanziale insussistenza del problema derivava dal fatto che una società con partecipazione pubblica non rappresentava una figura tipizzata, nel senso che una società siffatta era del tutto equiparata alle altre società indipendentemente dall’azionariato. Solo a seguito della legge 8 giugno 1990, n. 142 la società con partecipazione pubblica – nel caso, con partecipazione degli enti locali – veniva menzionata separatamente rispetto alla concessione a terzi (art. 22, comma 3° lett. a), aprendosi così la strada per la relativa qualificazione come modulo organizzativo distinto dalla concessione a terzi.

Ed infatti, nella prima più importante sentenza (Cons. Stato, sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192) che ha affrontato il tema del metodo di scelta del socio privato, la soluzione del problema è stata fatta discendere dal presupposto giuridico della differente qualificazione tra “società con partecipazione pubblica” e “concessione a terzi” quali modelli di gestione dei servizi pubblici. E ciò nel senso che alla società partecipata è stata riconosciuta natura di modello di gestione diretta (assimilabile all’azienda speciale) della Pubblica Amministrazione (2).

 Se ad una determinata figura soggettiva viene ascritto il carattere di forma di gestione diretta di attività e servizi dell’Amministrazione, è logico pretendere che il socio privato nella società venga selezionato con procedure di gara ad evidenza pubblica.  In tal senso si esprime anche la Corte di Cassazione in una risalente pronuncia, nella quale sono rinvenibili argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle condotte dal Consiglio di Stato (3).

Del resto, dopo la previsione positiva della utilizzabilità di società miste in alternativa alla concessione a terzi, se ne era registrata una grande diffusione, con la conseguente non applicazione delle procedure di concessione dei servizi pubblici locali o di assegnazione degli appalti di servizi. Sicché, pretendere la gara per la scelta del socio privato in una società partecipata dalla Pubblica Amministrazione e chiamata a fornire alla medesima prestazioni di vario tipo, rappresentava la garanzia minima da pretendere (4).

Ad ogni modo, la particolare complessità della materia deriva, in primo luogo, dalla molteplicità di profili a cui inerisce la nozione stessa di evidenza pubblica: sorta in un contesto storico-normativo che doveva ristabilire la correttezza e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione, in un ottica di superamento di frequenti fenomeni di abuso, l’evidenza pubblica ha assunto un ruolo centrale in materia di contratti pubblici, identificandosi propriamente con il procedimento di formazione di quei contratti di cui è parte l’Amministrazione. L’impiego delle procedure di scelta c.d. ad evidenza pubblica, peraltro, è andato progressivamente rappresentando una costante anche nel settore dei servizi pubblici locali, nel quale tali procedure risultano ad oggi espressamente positivizzate dal legislatore.

Per quanto attiene all’ambito della contrattualistica pubblica, esso è senza dubbio quello in cui il concetto di evidenza pubblica mostra la sua  sostanza ontologica e la ratio che ha contrassegnato la sua origine. Sin dai primi decenni del secolo scorso infatti – la legge sulla contabilità generale dello Stato (r.d. 18 novembre 1923, n. 2440) ed il relativo regolamento (r.d. 23 maggio 1924, n. 827)  ne hanno rappresentato le prime sedi normative – la previsione dell’ammissibilità di contratti stipulati tra Pubbliche Amministrazioni e soggetti privati, ha fatto emergere la necessità di predisporre un sistema idoneo di garanzie a tutela della parte tradizionalmente più esposta ad eventuali soprusi da parte del potere pubblico e, per questo, più debole. Fu proprio in tale ottica che il legislatore individuò nell’esperimento delle procedure ad evidenza pubblica lo strumento più efficace per assicurare il maggior equilibrio possibile tra le parti del rapporto contrattuale, nell’intento di scongiurare il pericolo di un uso improprio del sinallagma contrattuale stesso da parte del soggetto pubblico. In altre parole, il rispetto delle regole in cui si estrinseca, sul piano propriamente procedimentale, la nozione di evidenza pubblica, mira a realizzare un contemperamento tra la tutela della posizione del contraente privato da un lato, e la necessaria funzionalizzazione delle scelte del soggetto pubblico dall’altro: la trasparenza e la garanzia di partecipazione senza il pericolo di trattamenti discriminatori, rappresentano dunque alcuni degli aspetti in cui si sostanziano la nozione stessa di evidenza pubblica e le relative modalità operative.

Quanto poi all’impiego dell’evidenza pubblica nel settore dei servizi locali, la complessità che accompagna tale nozione rappresenta – come più sopra accennato - l’esito di una vera e propria stratificazione normativa prodottasi nel corso degli anni, caratterizzata dal veloce susseguirsi di leggi ed altri analoghi interventi che hanno concorso alla configurazione di un panorama, almeno per alcuni anni, incerto e confuso. La semplice osservazione della versione attuale dell’art. 113, comma 5° del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (t.u.e.l.) mostra una lunga serie di interventi legislativi di non sempre facile coordinamento sia con la disciplina previgente che con il panorama normativo circostante: la tripartizione prevista in materia di forme di gestione dei servizi pubblici locali di cui alla citata disposizione, appare, infatti, l’esito dell’ultima modifica operata dall’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, mediante il quale si è realizzato il superamento della società di capitali quale unica modalità gestoria del servizio, così come previsto dall’art. 35 della l. 28 dicembre 2001, n. 448.

Anticipando quelle che saranno le conclusioni di questa analisi, si può certamente affermare che le procedure di cui si tratta costituiscono ormai un principio giuridico di valenza generale dal quale non potrebbe più prescindersi, sebbene, proprio ricordando la finalità originaria che ha connotato il loro ingresso nel nostro ordinamento, tale assunto non debba essere portato alle sue più estreme conseguenze: infatti, è la ratio stessa del concetto di evidenza pubblica ad imporne un’interpretazione sì valorizzante, ma non enfatica, in quanto l’esperimento di simili procedure nell’ambito di rapporti tra soggetti sostanzialmente equiordinati – ed il conseguente obbligo di rispettare le relative garanzie formali e procedurali – ne decreterebbe la perdita della funzione tipica di strumento di bilanciamento di posizioni giuridiche riconducibili a soggetti collocati su piani ontologicamente differenti.    

In altre parole, una valutazione corretta in ordine alla reale portata del principio di evidenza pubblica non può prescindere dalla consapevolezza dell'evoluzione interpretativa avutasi a riguardo. Quando si parla di carattere generale dell'evidenza pubblica ci si riferisce, innanzitutto, all'avvenuto superamento delle logiche derogatorie ad essa, le quali si sono tradizionalmente espresse in norme ove si ammetteva il ricorso alla trattativa privata qualora si ravvisassero "speciali circostanze". Tali norme sono state, nel tempo, opportunamente abrogate: si pensi, a titolo esemplificativo, all'art. 87, ultimo comma del r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (5), nonché all'art. 267 del r.d. 14 settembre 1931, n. 1175 (6).

Nel passato si è fatto un uso eccessivo, se non addirittura improprio, delle disposizioni che abusavano della discrezionalità della P.A. nella previsione di deroghe all'applicabilità dell'evidenza pubblica, con la conseguenza che il giudice amministrativo ha ravvisato la necessità, seppur nella loro vigenza, di circoscriverne – almeno in via interpretativa – l'ambito di operatività (7).

Il profilo maggiormente rischioso di tali comportamenti risiedeva nella volontà degli operatori giuridici di dissimulare condotte sostanzialmente abusive: troppo spesso, infatti, si invocavano pretesti di fiduciarietà nella traslazione di funzioni pubbliche a giustificazione dell'impraticabilità di una procedura di gara. In altre parole, la disciplina della contabilità pubblica prevista per la scelta delle imprese appaltatrici non si applicava, attesa la peculiarità della concessione di opera pubblica, per la scelta del concessionario. Dal complesso della legislazione all'epoca vigente emergeva, infatti, l'indirizzo del legislatore a preferire, per la realizzazione delle più importanti opere pubbliche, le società concessionarie a prevalente capitale pubblico: in quanto caratterizzate dal fatto che la loro attività deve rispettare il principio di economicità della gestione, l'interesse del concedente trovava in esse una più attenta considerazione, giustificando così la preferenza accordata dal legislatore.

Al di là del carattere indubbiamente enfatico di tali posizioni, occorre comunque chiedersi se nelle ipotesi diverse da quelle ricadenti nell'art. 12, comma 1° della l. 7 agosto 1990, n. 241 si debba sempre applicare una procedura ad evidenza pubblica, anche laddove – in realtà – non si tratti delle ipotesi previste espressamente in tale norma (8). In altri termini, questa disposizione costituisce la premessa logica dell'evidenza pubblica e – di conseguenza – un'utile chiave di lettura per accostarsi a tale principio in modo ragionevole, ovvero lontano dagli eccessi ricostruttivi del passato e – nel contempo – da attuali interpretazioni troppo rigide.

 

2. I differenti contesti dell'azione imprenditoriale pubblica: necessità di distinguere tra azione in ambiti riservati o concessi dall'Amministrazione e azione in ambiti esposti al mercato (9)

 

Ai fini di una migliore comprensione della tematica affrontata, appare opportuno richiamare, innanzitutto, gli aspetti identificativi della vicenda che ha dato origine alla pronuncia richiamata in apertura (10): il maggiore profilo problematico è rappresentato, propriamente, dalla individuazione mediante trattativa privata del soggetto privato quale partner di una costituenda società a capitale misto destinata ad operare nel settore idroelettrico.

Le ipotesi di preferenza nei confronti della trattativa privata a scapito dell’esperimento di regolari procedure ad evidenza pubblica possono, invero, prestare il fianco a diversi profili di censura, quali - ad esempio - la violazione delle norme e dei principi in materia di aggiudicazione di appalti pubblici o di affidamento di servizi pubblici locali, primariamente in relazione alla previsione della necessaria osservanza di procedure ad evidenza pubblica contenuta in tali fonti.

Il principale profilo lesivo della condotta dell’ente che si renda in ipotesi responsabile della scelta del socio privato mediante semplice trattativa, risiede nella violazione delle imprescindibili garanzie previste dall’evidenza pubblica:  la preferenza accordata dall’ente territoriale alla trattativa privata rappresenterebbe, dunque, una grave vulnerazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, nonché dei relativi corollari quali l’obbligo di trasparenza dell’azione amministrativa e la ineludibile garanzia della parità di condizioni per tutti i soggetti operanti sul mercato.

Il carattere articolato della questione e la complessità della vicenda che ne costituisce il presupposto non impediscono, tuttavia, di individuare il nucleo problematico fondamentale nel giudizio di ammissibilità di un  eventuale obbligo generalizzato di ricorso alla procedura ad evidenza pubblica. Non v’è dubbio infatti, che il riconoscimento di un obbligo generalizzato di utilizzo delle procedure ad evidenza pubblica, a prescindere dalla natura e dalle finalità dell’attività posta in essere dal soggetto imprenditoriale considerato, e dunque per il solo fatto della presenza di un ente pubblico nella compagine azionaria, potrebbe condurre a conseguenze inaccettabili sia sul piano teorico che su quello pratico: come avremo modo di approfondire nel prosieguo di questa analisi, una simile conclusione, oltre a far perdere di vista la reale finalità dell’impiego dell’evidenza pubblica stessa, produrrebbe inutili dilatazioni nella tempistica delle operazioni tra soggetti pubblici e privati, obbligando le parti al rispetto di garanzie eccessivamente onerose per realtà – come quella in esame – in cui non sono, in verità, ravvisabili le condizioni idonee a giustificare il ricorso a procedure tradizionalmente connotate da finalità garantistiche.

 

3.         (Segue) Carattere riservato del bene o del servizio oggetto della concessione e necessità della gara ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato

 

La problematica di cui ci si occupa attiene, propriamente, al profilo della legittimità della scelta di dar vita ad una società a capitale misto pubblico-privato, senza la previa indizione di una gara ad evidenza pubblica, bensì facendo ricorso alla mera trattativa diretta con un soggetto già legato all’ente da rapporti giuridici pregressi quali, ad esempio, l’essere parte di una precedente convenzione o di uno schema di accordo preliminare concluso ai fini della costituzione della società. Sul piano strettamente giuridico, la preferenza eventualmente accordata alla trattativa privata anziché alla procedura ad evidenza pubblica, potrebbe integrare gli estremi della violazione di legge (relativamente all’art. 113 del t.u.e.l. e all’art. 41 del r.d. n. 827 del 1924), dell’eccesso di potere, sub specie di “ingiustizia manifesta e sviamento dalla causa tipica”, ed infine della violazione dei principi in materia di procedure di affidamento.

L’analisi di tale problematica non può prescindere, tuttavia, dall’indagine circa la natura dell’attività che la società è chiamata a svolgere. Qualora tale attività sia subordinata al rilascio di appositi provvedimenti concessori da parte di una Amministrazione Pubblica, la necessaria confluenza di tale provvedimento nella società finisce per determinare – peraltro - l’insorgenza dell'ulteriore problematica relativa alle modalità di acquisizione della concessione da parte del soggetto pubblico.

A tal proposito, diviene assolutamente necessario stabilire il carattere del bene o del servizio a cui la concessione si riferisce, poiché soltanto qualora esso sia riservato e non liberamente accessibile a qualunque operatore sul mercato in quanto ottenuto in virtù della titolarità di un diritto riservato dell’ente, spettantegli in virtù della sua tradizionale prerogativa pubblicistica, potrà concludersi nel senso della necessità di indire una vera e propria gara per la scelta del socio privato. Quest’ultimo, infatti, entrando a far parte di una società mista, verrebbe di fatto a beneficiare di un bene o di un servizio oggetto di un diritto privilegiato dell’ente, derivante dalla natura ontologicamente pubblica dello stesso: in tale prospettiva, appare dunque evidente come il ricorso alla mera trattativa ai fini dell’individuazione della parte privata, possa integrare gli estremi della vulnerazione del principio di parità di trattamento degli aspiranti soci privati.

Al contrario, qualora l’ente pubblico non benefici di alcun diritto prioritario o riservato, avendo, ad esempio, ottenuto la titolarità della concessione mediante la partecipazione ad una regolare procedura concorsuale, come un qualunque altro operatore economico, concorrente su un piano di assoluta parità di condizioni rispetto agli altri interessati, l’immissione nella società del provvedimento strumentale all’attività di quest’ultima, non risulta aver determinato la partecipazione del socio privato ad un diritto d’uso di carattere preferenziale in quanto riservato al Comune, bensì ad un diritto d’uso avente ad oggetto un bene o un servizio acquisibile da qualunque soggetto potenzialmente interessato (all’assegnazione, s’intende, dell’eventuale concessione).

 

4. L’applicazione concreta di un obbligo generalizzato di evidenza pubblica: rischi e paradossi

 

Prima ancora delle obiezioni strettamente giuridiche che potrebbero essere mosse all’impostazione favorevole ad un’applicazione generale del metodo dell’evidenza pubblica, vengono in rilievo le conseguenze quasi paradossali che si produrrebbero qualora tale obbligo generalizzato venisse attuato sul piano pratico. Qualsiasi soggetto titolare di una concessione, indipendentemente dall’ambito di riferimento della stessa, qualora intendesse costituire una società per l’esercizio della propria attività, sarebbe dunque tenuto a scegliere il partner mediante gara ad evidenza pubblica, data l’imprescindibilità della condivisione del provvedimento concessorio in sede societaria: così, ad esempio, il titolare della concessione del litorale marittimo o di suolo pubblico, incorrerebbero in gravi violazioni ogni qual volta la scelta del socio avvenisse senza il previo esperimento di apposita gara.

Peraltro, anche a voler tacere di simili esiti, non appare comunque possibile parlare di un comportamento del soggetto pubblico finalizzato a vincolarsi al futuro impiego di una procedura ad evidenza pubblica. Al contrario, qualora l’impegno assunto dall’ente sia circoscritto al mero invito del soggetto promotore alle future eventuali procedure ad evidenza pubblica discrezionalmente avviate dal Comune stesso, l’impegno assunto dal suddetto ente non gli impedirebbe di procedere a trattativa privata con il promotore, ma lo obbligherebbe soltanto ad invitare quest’ultimo alla procedura concorsuale, se indetta.

A ciò si aggiunga poi che la profonda evoluzione che ha caratterizzato numerosi settori del mercato italiano quali - ad esempio - quello elettrico, ha determinato una significativa trasformazione delle relative attività, le quali non si connotano più per la funzionalizzazione al soddisfacimento dei fini pubblici, bensì per il carattere di attività liberalizzate e rivolte al mercato. A tacer d’altro, una simile modificazione implica necessariamente la perdita di vincolatività di qualunque eventuale precedente statuizione comunale in materia di evidenza pubblica.

 

5. La procedura ad evidenza pubblica quale principio generale dell’ordinamento

 

Una corretta disamina della tematica considerata non può prescindere dalla ricostruzione della nozione di evidenza pubblica e dall’analisi della sua valenza semantica.

Scopo della procedura ad evidenza pubblica è quello di garantire la competizione tra più concorrenti per consentire alla P.A. di confrontare diverse offerte ed individuare il miglior offerente. Sin dalle origini normative dell’istituto (legge sulla contabilità generale dello Stato r.d. 18 novembre 1923, n. 244 e relativo regolamento r.d. 23 maggio 1924, n. 827), infatti, l’evidenza pubblica si configura quale strumento volto a garantire un più corretto confronto non tra interessi, ma, più propriamente, tra mezzi e risorse strumentalmente offerti alla capacità di scelta della stessa Amministrazione procedente. La connotazione pubblicistica dell’istituto è confermata dall’importanza che tale scelta riveste per la collettività latamente intesa; ciò in quanto è proprio dalla valutazione ponderata dell’Amministrazione che dipende la maggiore o minore efficacia dell’intervento diretto al raggiungimento del fine pubblico.

In altre parole, il sistema di garanzie che costituisce il proprium delle procedure ad evidenza pubblica trova la sua ratio fondamentale nel perseguimento degli obiettivi istituzionali delle Amministrazioni, il cui carattere superindividuale legittima la previsione di obblighi e cautele particolarmente forti e penetranti. Le norme di gara che impongono il rispetto della modalità dell’evidenza pubblica rispondono, da un lato, all’esigenza di consentire alle Amministrazioni di provvedere nel modo più economico e conveniente alla provvista di beni e servizi, nonché alla realizzazione di opere destinate alla fruizione collettiva, mirando, dall’altro lato, a consentire alla generalità dei soggetti dell’ordinamento la partecipazione al procedimento di allocazione delle risorse pubbliche a cui l’ente è preposto (11).

L’inerenza dell’evidenza pubblica all’attività istituzionale tipica dell’Amministrazione radica fortemente l’istituto nella dimensione pubblicistica, con la conseguenza che appare corretto fondare la legittimazione del relativo sistema di garanzie sulla natura superindividuale degli obiettivi al cui raggiungimento è preordinato l’impiego stesso della procedura ad evidenza pubblica. La gara, quale comparazione trasparente delle diverse posizioni giuridiche dei privati che aspirano a contrattare con un’Amministrazione pubblica, è imposta, peraltro, dalle regole del corretto esercizio dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., ai sensi del quale: <<I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione>>.

Ciò posto, può dunque ritenersi che il ricorso all’evidenza pubblica sia funzionale al raggiungimento di un duplice obiettivo: se infatti essa concorre a rendere visibili i motivi di interesse pubblico sottesi alle scelte della P.A., la stessa garantisce – al contempo – la trasparenza e l’intellegibilità delle condizioni predisposte a garanzia della partecipazione dei soggetti interessati (12). Nell’analisi dell’attività dell’Amministrazione pubblica non si può dimenticare, infatti, che, ad eccezione delle ipotesi in cui agisca iure privatorum, essa è sempre tenuta a ricercare la soluzione operativa più idonea a contemperare gli interessi pubblici e privati che vengono in questione, con la conseguenza che appare necessaria una procedimentalizzazione di tale attività che regolamenti correttamente le operazioni aventi ad oggetto beni o servizi di interesse pubblico.

Ed è proprio sulla base di tali considerazioni che la giurisprudenza è giunta a delimitare l’ambito di applicazione del principio dell’evidenza pubblica alle ipotesi <<in cui debba effettuarsi la scelta di un operatore privato chiamato a svolgere attività per conto e nell’interesse della P.A.>> (13). Ogni qual volta si tratti di scegliere un operatore per lo svolgimento di attività di pubblico interesse, <<i principi di buona amministrazione, di trasparenza dell’azione amministrativa, nonché di concorrenzialità – da ritenersi ormai immanenti nell’ordinamento – impongono dunque l’espletamento di procedure ad evidenza pubblica, in virtù della necessità di individuare, mediante valutazione comparativa basata su parametri obiettivi, il soggetto più idoneo>> ad offrire la prestazione richiesta alle condizioni migliori (14).

Tale consacrazione dell’evidenza pubblica non deve, tuttavia, indurre a ritenere che questo principio abbia assunto una valenza generale ed estesa a tutte le ipotesi in cui si tratti di scegliere il partner privato di una società mista: la necessità di ricorrere all’evidenza pubblica non si fonda, infatti, sul semplice requisito della partecipazione pubblica ad un soggetto giuridico, ma trova la sua vera ragion d’essere nella natura “pubblica” dell’attività che deve essere svolta e nella destinazione collettiva della stessa. Anche la giurisprudenza maggioritaria è, peraltro, concorde nel sostenere che non vi sia ragione di imporre il ricorso a procedure ad evidenza pubblica tutte le volte in cui l’attività da svolgere sia configurabile come un’attività liberamente realizzabile sul mercato, e priva, pertanto, di particolari vincoli o riserve (15).

Orbene, nei casi in cui non sussistano i requisiti propri di un’attività pubblicisticamente connotata, poiché, ad esempio, una società sia preordinata all’esplicazione – da parte di un ente pubblico– di una semplice attività d’impresa, del tutto scevra da destinazioni o finalità pubblicistiche, tale società sarà retta dal generale criterio dell’ “investitore privato”: e ciò in quanto il soggetto pubblico non avrà altro scopo se non quello di conseguire un utile mediante la partecipazione alla suddetta società.

 

6. (Segue) Evidenza pubblica e servizio pubblico 

 

Quanto sopra esposto offre l'occasione di richiamare gli elementi identificativi della nozione di servizio pubblico: l'individuazione di tali elementi non rappresenta, in realtà, l'approdo di questa analisi, ma piuttosto un buon punto di partenza per giungere a formulare alcuni rilievi critici.

Anticipando parte dei risultati a cui si perverrà più oltre, può certamente affermarsi che non risulta decisivo stabilire se un’attività sia configurabile o meno come servizio pubblico, essendo invece determinante l'individuazione della disciplina in concreto applicabile.

Ciò posto, nonostante le indubbie difficoltà emerse in proposito, sia la dottrina che la giurisprudenza appaiono ad oggi concordi nell’individuare il tratto distintivo del servizio pubblico nella preordinazione dell’attività di erogazione del servizio stesso al soddisfacimento delle esigenze della collettività, a prescindere dunque dalla natura pubblica o privata del soggetto erogatore.

Tra i contributi dottrinali più autorevoli in materia si segnala senza dubbio quello del Virga, il quale ha enucleato i quattro elementi caratterizzanti la nozione di servizio pubblico nel carattere prevalentemente imprenditoriale dell'attività esercitata dai soggetti erogatori, nell'obbligo per i medesimi di garantire l'accesso alla fruizione del servizio a tutti coloro che ne facciano richiesta, nella finalità esclusivamente pubblica dell'attività svolta, nonché – infine - nel carattere continuativo dell'erogazione del servizio stesso (16).

Un’analisi ancora più dettagliata è stata compiuta negli stessi anni da quella dottrina che, rigettando sia la concezione soggettiva in senso proprio che quella strettamente oggettiva del servizio pubblico, ha mostrato di condividere un’impostazione intermedia, idonea a valorizzare congiuntamente la natura del soggetto erogatore del servizio ed il carattere dell’attività svolta (17).

Lungi dal voler ridurre la complessa nozione di servizio pubblico a mere elencazioni di requisiti, tali ricostruzioni hanno tuttavia il merito di aver almeno in parte chiarito la definizione di un istituto assai controverso, facendo emergere il vero valore semantico dell’aggettivo “pubblico”, quale richiamo alla destinazione collettiva dell’attività posta in essere: in tale prospettiva detta attività risulta epurata da qualunque finalità lucrativa, assumendo – invece – un ruolo centrale la sussistenza di un vincolo tra gestore ed Amministrazione, inteso come strumentalità del servizio nei confronti di una funzione pubblica.

Nella stessa direzione si è recentemente orientata anche la giurisprudenza, la quale, muovendo dalle singole fattispecie concrete, ha provveduto ad enucleare gli elementi identificativi del concetto di servizio pubblico. Avvalorando le conclusioni alle quali è ormai giunta anche la dottrina più autorevole, i giudici amministrativi hanno ulteriormente confermato l’assunto per cui il proprium della nozione risiede nella destinazione “pubblica” del servizio erogato, ovvero nella rilevanza sociale della stessa (18).

Il contesto pubblicistico in cui si inserisce l’istituto ne legittima l’imprescindibile connessione con l’evidenza pubblica, il cui sistema di garanzie risulta posto a tutela della destinazione del servizio stesso alla fruizione collettiva. In altre parole <<al fine di individuare le attività sussumibili sotto la nozione di servizio pubblico assume rilievo decisivo, non già la possibilità di considerarle di pertinenza dell’amministrazione pubblica, bensì il fatto di essere assoggettate ad una disciplina settoriale che assicuri costantemente il conseguimento dei fini sociali: questi ultimi, pertanto, costituiscono la ragione della sottoposizione ad un regime giuridico peculiare, potendosi affermare che i caratteri distintivi del servizio pubblico sono, da un lato, l’idoneità a soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti, e, dall’altro, la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi volti a conformare l’espletamento dell’attività a norme di continuità, regolarità, capacità e qualità, cui non potrebbe essere assoggettata una comune attività economica>> (19).

Da quanto finora esposto può senza dubbio affermarsi che, al di là delle difficoltà relative alla definizione di servizio pubblico e alla molteplicità delle ipotesi che si vorrebbero di volta in volta ascrivere a tale categoria dogmatica, ciò che rimane comunque necessario ai fini della sussistenza dello stesso è la sua destinazione pubblica: non si potrà dunque parlare di servizio pubblico (in senso proprio) ogni qual volta l’attività posta in essere sia destinata al libero mercato, e conseguentemente priva di qualunque funzione di soddisfacimento di esigenze proprie della collettività o di finalità di sviluppo sociale.

Orbene, qualora non siano ravvisabili gli estremi della nozione di servizio pubblico così come sopra enunciati, si potrebbe già escludere la necessità del ricorso all'evidenza pubblica e del relativo apparato di garanzie, non avendo esse ragion d'essere se non in funzione di tutela di quelle esigenze pubbliche che il servizio stesso mira a realizzare. Tuttavia, anche superando la difformità di interpretazione relativa alla nozione di servizio pubblico, la predicabilità dell'attributo di servizio pubblico non risolve tutti i problemi relativi alla disciplina applicabile, in quanto tale categoria dogmatica si presenta particolarmente complessa e variegata: il carattere "pubblico" del servizio erogato inteso come destinazione dello stesso alla fruizione collettiva, non esaurisce le sfumature di un istituto così complesso ed articolato. Non v'è dunque alcun automatismo tra ascrivibilità dell'attività alla categoria del servizio pubblico ed imprescindibilità del ricorso all'evidenza pubblica, in quanto dalla condivisione del profilo definitorio non deriva una corrispondente identità di disciplina applicabile: anche tra ipotesi tutte egualmente definibili come servizio pubblico, non può aversi alcun livellamento delle peculiari differenze tra le une e le altre.

Anche restando nell'ambito delle pronunce dei giudici amministrativi relative alla nozione di servizio pubblico, lo sforzo profuso nel senso di individuare uno o più elementi identificativi dell'istituto non è affatto coinciso con l'azzeramento dei profili di eterogeneità della disciplina applicabile. A tal proposito non possono sfuggire quei contributi giurisprudenziali che, a fronte della necessità di ricercare requisiti comuni all'istituto del servizio pubblico, ne ribadivano al contempo la molteplicità dei regimi giuridici: accanto ai servizi pubblici subordinati al rilascio di provvedimenti autorizzatori o concessori, vi erano quelli liberamente erogabili sul mercato, o quelli soggetti ad ulteriori condizioni previste dal diritto amministrativo (20). Ciò appare confermato - in verità - anche dalle più recenti tendenze della giurisprudenza amministrativa, la quale si mostra sempre più frequentemente incline ad accogliere una nozione particolarmente estesa di servizio pubblico (21). L'ampiezza di una simile scelta ermeneutica corrisponde alla consapevolezza dei giudici (ma anche della dottrina) della ineliminabile eterogeneità dell'istituto del servizio pubblico, la quale appare confermata - per l'appunto - da un'opzione interpretativa volutamente ampia, non riconducibile a rigidi parametri definitori, ma idonea a ricomprendere fattispecie accomunate dalla natura ontologica di servizio pubblico, ma differenti quanto a modalità operative.

 

7. Il servizio pubblico come "modulo complesso di azione amministrativa": necessità di una lettura contestualizzata dell'evidenza pubblica

 

La richiamata centralità del principio dell’evidenza pubblica non coincide – come sopra accennato – con la consacrazione dello stesso a principio cardine imprescindibile in materia di attività contrattuale della P.A. La sussistenza dell’obbligo di ricorso all’evidenza pubblica, infatti, non sorge per il semplice requisito della presenza di un soggetto pubblico nel sinallagma contrattuale, richiedendosi - al contrario - la preordinazione dell’attività (da svolgere) al soddisfacimento di bisogni ed interessi pubblicisticamente connotati.

A sostegno di una simile impostazione possono addursi – invero – le conclusioni a cui è pervenuta la giurisprudenza ordinaria ed amministrativa nonché alcune fonti del diritto nazionale e comunitario. Più precisamente, dalla legislazione e dalla giurisprudenza in materia di scelta del socio privato di società miste, si ricava il principio per cui la procedura ad evidenza pubblica è necessaria ai fini dell’ingresso di privati nelle sole società miste aventi ad oggetto, quale effetto diretto e privilegiato della loro costituzione, la realizzazione di opere o lavori o la fornitura di beni o servizi in favore o nell’interesse dei soci pubblici (o delle collettività dai medesimi rappresentate) a titolo oneroso; attività dunque sostanzialmente configurabili come appalti o concessioni accordati in via diretta dai soci pubblici alla società mista.

Per quanto attiene all’elaborazione giurisprudenziale, sia i giudici ordinari che quelli amministrativi hanno operato una netta distinzione tra le ipotesi di società operanti nel settore dei servizi pubblici e quelle di società miste prive – al contrario – di qualunque rapporto privilegiato con l’ente socio. Segnatamente, i giudici appaiono ormai convinti dell’imprescindibilità del ricorso all’evidenza pubblica soltanto qualora si debba procedere alla scelta di un operatore chiamato a svolgere un’attività di interesse e rilevanza pubblicistica (22).

Anche senza l’impiego esplicito dell’espressione “servizio pubblico”, la giurisprudenza si è generalmente pronunciata nel senso della necessità di ricorrere alle modalità dell’evidenza pubblica ai fini della scelta del socio privato di società miste, ogni qual volta la società nella cui compagine dovrà entrare il suddetto operatore privato sia destinata a svolgere <<attività per conto e nell’interesse della P.A.>> (23): e ciò indipendentemente dalla sussistenza di una previsione normativa che positivizzi tale obbligo, ma soltanto in virtù della connotazione pubblicistica della svolgenda attività.

In questa direzione si è mossa anche la Corte di Cassazione, la quale ha individuato il presupposto argomentativo della propria statuizione nella considerazione per cui il <<modello organizzativo della società mista>> è tale da <<permettere all’imprenditore privato l’accesso alla gestione del servizio pubblico>> essendo egli <<posto nelle condizioni di investire le proprie risorse finanziarie e le proprie capacità organizzative nel settore produttivo della gestione del servizio pubblico>> ed accedendo dunque ad una posizione contrattuale riservata e privilegiata (24). Ancora una volta l’attenzione si concentra sulla condizione peculiare nella quale verrebbe a trovarsi il socio privato, in quanto parte integrante della compagine azionaria della società erogatrice del servizio pubblico: ed è proprio la destinazione collettiva ontologicamente connessa al servizio che impone la necessità di adottare il sistema di garanzie previste dalla procedura ad evidenza pubblica, quale forma imprescindibile di cautela nei confronti della comunità degli utenti.

Ancora più recentemente, il giudice amministrativo ha avuto occasione di ribadire la sussistenza di un obbligo espresso di ricorso all’evidenza pubblica in materia di affidamento dei servizi pubblici locali, senza prevederne la possibilità di estensione alle ipotesi in cui l’ente pubblico socio di una società mista non abbia con quest’ultima alcun collegamento funzionale o rapporto di strumentalità operativa. Conformemente a quanto statuito nella pronuncia a cui ci si riferisce: <<per l’affidamento dei servizi pubblici locali l’obbligo di seguire le procedure concorsuali pubbliche discende direttamente dalle norme e dai principi desumibili dagli artt. 3 e 6 del regio-decreto n. 2440 del 1923, e dall’art. 41 del regio-decreto n. 827 del 1924 >> (…) <<la possibilità dell’affidamento diretto a trattativa privata è circoscritta ad alcune condizioni eccezionali, la cui sussistenza deve essere provata e giustificata dall’amministrazione procedente>> (25).

A conferma della tesi dell’inconfigurabilità di un generale principio di evidenza pubblica da applicarsi indiscriminatamente in tutte le ipotesi in cui si tratti di scegliere il socio privato di una società mista, stanno poi ulteriori pronunce del giudice amministrativo. Al di là dell’eterogeneità dei casi di specie, il profilo ad esse comune è rappresentato dall’attenzione mostrata nei confronti del rapporto esistente tra società a prevalente capitale pubblico ed ente socio: più precisamente – ad avviso della giurisprudenza richiamata – laddove manchi tra società ed ente un rapporto che possa dirsi privilegiato, in quanto la società opera sul mercato in posizione di assoluta parità con le altre imprese concorrenti, non ha ragion d’essere la sussistenza di un obbligo di procedura ad evidenza pubblica ai fini della scelta del socio privato, configurandosi la società mista quale soggetto in tutto e per tutto privato. In altre parole, l’imposizione dell’evidenza pubblica anche ai soggetti imprenditoriali privati non troverebbe legittimazione in quella necessità di tutela propria delle attività c.d. funzionalizzate,  garantita – per l’appunto – dal rispetto delle modalità procedimentali dell’evidenza pubblica.

Quanto appena detto risulta chiaramente da una risalente pronuncia del giudice amministrativo, nella quale si rileva che la società del caso concreto non era stata <<creata per la gestione dei servizi municipalizzati o per la concessione o appalti di attività o opere comunali o di altri enti pubblici>> e che <<tale circostanza limitativa vale[va] a distinguere il caso di specie dalle ipotesi in cui la giurisprudenza indicata dal resistente (Cons. Stato, sez. I, n. 130 del 1985) ha affermato la necessità di procedure ad evidenza pubblica per la scelta dei soci, ed in cui ricorreva il caso di società create per l’affidamento di servizi municipalizzati o attività comunali>> (26).

Per quanto attiene poi al profilo legislativo, non vi è norma, nel nostro ordinamento, che non colleghi l’imposizione espressa della scelta del socio privato con gara al beneficio che detto socio ritrae dall’ingresso in società che godono di affidamenti diretti e privilegiati di attività da svolgere in favore o nell’interesse dei soci pubblici (o delle collettività dai medesimi rappresentate). Sul fronte del diritto interno, appare opportuno citare, a titolo esemplificativo, la disciplina delle società degli enti locali di cui all’art. 113, comma 5°, lett. b) e all’art. 116 del t.u.e.l., le quali beneficiano, una volta scelto il socio privato con gara, del conferimento diretto della gestione di un servizio pubblico locale ovvero della realizzazione di infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico; la portata generale di tale principio è ad oggi formalizzata all’art. 1, comma 2° del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. Codice dei contratti), ove si legge che <<la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica solo nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un servizio>>.

Non è diverso, peraltro, l’atteggiamento mostrato dalla Commissione europea nel “Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni” del 30 aprile 2004, laddove si afferma che <<l’operazione consistente nel creare un’impresa a capitale misto [deve garantire il rispetto delle regole dell’evidenza pubblica solo] quando tale operazione è accompagnata dall’attribuzione [al partner privato] di incarichi tramite un atto che può essere definito appalto pubblico o concessione [ovvero quando si tratti della] scelta di un partner privato destinato a svolgere tali incarichi nel quadro del funzionamento di un’impresa mista>> (punti 57 e 58).

Quanto appena detto deve essere, tuttavia, collocato nel contesto interpretativo più appropriato: conformemente alle conclusioni già maturate circa la nozione di servizio pubblico, non appare corretto ritenere che ogni qual volta ricorrano i requisiti necessari per la configurabilità di un servizio pubblico, sorga la necessità di operare mediante la procedura ad evidenza pubblica, ben potendo aversi servizio pubblico anche in caso di espletamento dello stesso nell'ambito del mercato concorrenziale.

Il servizio pubblico rappresenta dunque un "modulo complesso di azione amministrativa" (27), il cui regime di erogazione appare assai poco idoneo a soddisfare le esigenze proprie delle classificazioni dogmatiche: più semplicemente, se ogni ipotesi di servizio pubblico deve essere connotata dai requisiti della destinazione collettiva e della indubbia rilevanza sociale dell'attività, sul piano propriamente operativo possono benissimo convivere servizi la cui erogazione non può prescindere da una concessione amministrativa, servizi subordinati al rilascio di un mero provvedimento autorizzatorio, o ancora servizi liberamente erogabili a seguito di apposita previsione normativa. L'eterogeneità delle tipologie di discipline non mina in alcun modo la sostanza dell'istituto, né appare idonea a comprometterne la comunione degli elementi definitori: più che al piano teorico essa attiene a quello operativo, il quale si presenta, dunque, inevitabilmente variegato.

Pertanto, qualora il socio pubblico di una società mista abbia conseguito il provvedimento concessorio necessario per lo svolgimento di un’attività riservata a seguito di regolare procedura concorsuale, alla quale, peraltro, hanno partecipato – in qualità di concorrenti – diversi soggetti privati, l'esperimento del momento concorrenziale non potrà dirsi affatto eluso, bensì meramente anticipato alla fase di assegnazione del provvedimento di cui si tratta. In altre parole, la modalità comparativa di selezione ha trovato attuazione in una sede diversa, senza che ciò possa tuttavia integrare alcuna vulnerazione di un principio cardine dell'ordinamento nazionale e comunitario quale è quello dell'evidenza pubblica.

Assai discutibile apparirebbe, pertanto, la scelta di affermare l'imprescindibilità del ricorso alle procedure dell'evidenza pubblica: il rispetto delle dinamiche concorrenziali, infatti, risulta già garantito dalla gara indetta per l'acquisizione del provvedimento di concessione, con la conseguenza che la fase della costituzione della società mista viene a configurarsi come momento - per così dire - meramente operativo della vicenda giuridica.

Non v'è dunque ragione di consentire alla società privata di far valere la pretesa lesione del proprio diritto all'esperimento di una procedura di gara ad evidenza pubblica ai fini della scelta del socio di minoranza, né, tanto meno, di riconoscere la sussistenza della violazione di un principio in realtà già pienamente rispettato: se davvero avesse interesse a prendere parte ad una procedura di selezione improntata al principio della concorrenza, la società dovrebbe partecipare alla gara indetta per l'assegnazione del provvedimento concessorio.

In questo senso si è recentemente espresso il giudice amministrativo attraverso una pronuncia che, ripercorrendo le tappe fondamentali dell'iter normativo in materia di legislazione sui servizi pubblici, ha confermato l'assunto per cui all'omogeneità degli elementi definitori del servizio pubblico corrisponde, in realtà, una molteplicità di regimi giuridici (28). Più precisamente, i giudici si esprimono in termini di possibilità di scelta tra due strade alternative: <<I soggetti economici possono scegliere tra due percorsi distinti. In particolare coloro che si sottopongono alla regola della concorrenza per l’affidamento dei servizi (partecipando alle gare in piena par condicio) non sono tenuti a essere trasparenti e restano liberi di organizzarsi come preferiscono. In questo caso la scelta del partner (compresi i soci privati) rimane libera sulla base di valutazioni di convenienza economica. Quelli che invece intendono conseguire affidamenti diretti sono obbligati alla trasparenza e devono scegliere il partner (maggioritario o minoritario) con procedure ad evidenza pubblica, in quanto l’ingresso nel capitale sociale estende ai nuovi soci l’affidamento diretto>>.

Pertanto, anche qualora si ammettesse la qualificabilità di un’attività come servizio pubblico – questione, lo si ripete, non decisiva – potrebbe trattarsi comunque di un'attività liberamente svolta sul mercato, subordinata alla semplice acquisizione del citato provvedimento concessorio, la cui comprovata assegnazione mediante regolare gara apparirebbe sufficiente per ritenere rispettati i principi di concorrenza e par condicio tra gli interessati.    

 

8. Ricorso all'evidenza pubblica ed eterogeneità delle forme di disciplina dei servizi pubblici: un equilibrio difficile

 

L’analisi fin qui condotta induce senza dubbio a concludere  - come già ricordato – nel senso di una generale inconfigurabilità dell’evidenza pubblica quale principio giuridico suscettibile di applicazione in tutti i casi di scelta del partner privato di una società mista. L’impossibilità di predicare il carattere assoluto e inderogabile del suddetto principio discende propriamente dall’essenza del medesimo: connotato sin dalle origini da chiare finalità di garanzia di effettiva parità di condizioni per tutti gli operatori sul mercato, la modalità procedimentale dell’evidenza pubblica ha tradizionalmente rappresentato il tratto distintivo delle vicende costitutive di soggetti giuridici destinati a svolgere attività pubblicisticamente rilevante (29). Tale rapporto tra evidenza pubblica e destinazione pubblicistica dell'attività spiega, peraltro, anche la fondamentale funzione rivestita dalla gara per la scelta del socio privato di una società mista: l'esperimento di una simile procedura è finalizzato, infatti, a garantire maggiore flessibilità nei settori attribuiti o riservati dalla P.A., in quanto, attraverso la presenza pubblica si mira ad introdurre l'ulteriore controllo del soggetto pubblico quale socio  rispetto a quello già esercitato nella veste di committente (30).

La corrispondenza tra necessità del ricorso all’evidenza pubblica e funzionalizzazione dell’attività in questione non pare essere ritenuta, invece, determinante nella pronuncia richiamata in incipit (31). Esplicita è l’affermazione del giudice secondo la quale: <<L’attività contrattuale della pubblica amministrazione è retta, salvo i casi espressamente esclusi, dalle regole dell’evidenza pubblica, con le connesse forme obbligatorie di pubblicità, sia in base alla risalente e tuttora vigente normativa nazionale sia in base alla normativa comunitaria ed alle relative leggi di recepimento: tanto al fine di garantire una piena e reale concorrenza, l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa, la trasparenza e l’imparzialità delle scelte. A tale inderogabile principio non si sottrae la scelta del contraente con cui costituire una società mista per la realizzazione o la gestione di opere pubbliche o di un servizio>> (…) <<In relazione a quanto evidenziato non vi sono ragioni – come si sottolinea con la censura centrale del ricorso – per ritenere che il contratto di costituzione della società mista di cui trattasi sia affrancato dalle regole di contabilità pubblica e quindi dal rispetto del generale principio dell’evidenza pubblica secondo la discipline dettata dagli articoli 37 e seguenti del regio decreto n. 827 del 1924>>.

L’aspetto maggiormente criticabile attiene al presupposto del ragionamento condotto dai giudici del caso di specie: muovendo dall’assunto per cui la subconcessione in questione è stata acquisita in via diretta senza alcun confronto concorrenziale, si arriva alla conclusione per cui l’acquisizione del provvedimento concessorio nella costituenda società determina, in capo al socio privato, l’insorgenza di un  diritto d’uso riservato e come tale necessitante dell’apparato di garanzie proprie dell’evidenza pubblica. Né rileva – ad avviso dei giudici – l’indubbia liberalizzazione dell’attività in esame di produzione e vendita di energia elettrica sull’intero territorio nazionale introdotta con il d. lgs. n. 79/1999, in quanto attività comunque consistente nello sfruttamento di un provvedimento concessorio rilasciato da una Amministrazione Pubblica: <<Tale circostanza non consente di concludere nel senso che l’attività per il cui espletamento è stata costituita la società mista sia accessibile a qualunque operatore sul mercato: deve ritenersi, al contrario, che la possibilità di sfruttare, ai fini di produzione di energia elettrica, la derivazione d’acqua di cui trattasi, sia riservata – ai sensi dell’art. 2 del Testo unico 11 dicembre 1933, n. 1775 – ai soli soggetti titolari di concessione>>.

Conformemente a tale impostazione, appare dunque imprescindibile l’impiego della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato: del tutto illegittima dovrà ritenersi la scelta della trattativa privata ai fini della costituzione della società mista senza indizione di alcuna gara, risultando tale modalità del tutto carente delle tutele necessarie per i soggetti imprenditoriali interessati.

La perentorietà di tale conclusione si fonda essenzialmente sul carattere asseritamente generale del principio di evidenza pubblica, l’ampiezza del quale non consente ai giudici della richiamata sentenza di assestarsi sulla ormai pacifica dicotomia tra le ipotesi di società miste prive di collegamento funzionale con il socio pubblico, e quelle caratterizzate, invece, da un simile rapporto.

Ciò che sembra essere sfuggito ai giudici è l'impossibilità di uniformare la disciplina di tutte le attività qualificabili come servizio pubblico, stante l'indubbia eterogeneità delle diverse ipotesi concrete.

Tale assunto non deve tuttavia indurre a negare in assoluto il carattere generale dell'evidenza pubblica: questo principio resta senza dubbio un principio cardine del nostro ordinamento giuridico, ormai addirittura immanente ad esso, anche se da una simile interpretazione non può discendere la necessità dell'esperimento delle procedure ad evidenza pubblica ogni qual volta si tratti di scegliere il socio privato di una società chiamata ad erogare un servizio pubblico (32). Come più sopra accennato, all'interno del novero delle attività qualificabili – per l'appunto – come servizio pubblico potranno aversi ipotesi in cui l'individuazione del socio privato non può prescindere dall'impiego di una procedura concorsuale, così come casi in cui il momento concorrenziale è anticipato ad una fase anteriore rispetto alla scelta del partner privato, restando tale operazione liberamente esperibile sulla base di valutazioni di convenienza economica.

Peraltro, condividendo l'ormai diffuso assunto per cui, invece che richiedere l'esperimento di una doppia gara – rispettivamente, quella per l'affidamento diretto del servizio e quella per la scelta del socio privato – appare sufficiente l'impiego della procedura concorsuale per la selezione del partner privato ai fini del rispetto del principio di libera concorrenza (il momento concorrenziale risulta, infatti, soltanto anticipato) (33), si potrà concludere nel senso che, nei settori in cui non sia necessaria una gara in quanto settori non attribuiti o riservati della P.A., si potrà prescindere sia dall'esperimento della procedura per l'affidamento del servizio, sia da quella – ad essa sostitutiva – prevista ai fini della scelta del socio privato.

Dietro il favor garantista della richiamata pronuncia si nascondono, peraltro, i non pochi profili di rischio connessi ad una simile impostazione: se sul piano più propriamente teorico il maggior pericolo attiene alla frustrazione della ratio originaria dell’evidenza pubblica, sul versante pratico ci si troverebbe dinnanzi ad inevitabili appesantimenti dell’attività amministrativa oltre che ad obblighi formali spesso eccessivamente onerosi rispetto alle ipotesi concretamente verificatesi.

Spetterà dunque ai futuri interventi dottrinali e giurisprudenziali fare maggiore chiarezza su un tema così delicato e ricco di implicazioni pratiche, convalidando le opzioni ermeneutiche maggiormente condivisibili ed enucleando espressamente i criteri interpretativi discretivi di volta in volta applicabili.                

 

Note:

(1) Ci si riferisce a T.A.R. Valle D’Aosta, 21 novembre 2006, n. 149, in http://www.giustizia-amministrativa.it

(2) Così si legge, a questo proposito, nella richiamata sentenza: <<Il modulo operativo di cui all'art. 22, comma 3, lett. e), della legge 8 giugno 1990, n. 142, delinea una "gestione diretta" del servizio pubblico a mezzo di una società per azioni a prevalente capitale pubblico; in particolare, il rapporto tra ente locale e società si svolge nell'ambito di un modulo essenzialmente pubblicistico, qualificato dalla gestione diretta del servizio (cfr. Cons. St., Sez. II, 28 febbraio 1996, n. 366/96; A.G., 16 maggio 1996, n. 90/96; Cass., SS.UU., 6 maggio 1995, n. 4990 e 4992). // Sul piano giuridico, poi, la società per azioni costituisce un "organo indiretto" dell'Amministrazione, deputato alla gestione del servizio pubblico (cfr. i pareri A.G. n. 90/96 e Sez. II, n. 366/96, citt., nonché, Cass., SS.UU., 29 dicembre 1990, n. 12221)>>.

(3) Cfr. C. Cass., Sez. Un., 29 ottobre 1999, n. 754, in Giorn. Dir. Amm., 2000, 675 ss.: << Si è considerato, più sopra, che il modello organizzativo della società mista dà luogo ad un modo di gestione diverso dalla concessione e che la legittimazione della società a gestire il servizio pubblico non ritrae il suo fondamento da un provvedimento di concessione. // Ciò detto, non si può tuttavia trascurare che, in rapporto al problema di cui si discute, il modello della società mista presenta tratti in comune col modello della concessione. // L'esame delle norme succedutesi nella disciplina del fenomeno ha consentito di mettere in rilievo il dato che, non diversamente da quanto accade nel caso della concessione, l'atto che vale ad investire della gestione del servizio le società miste, come anche le aziende speciali, è accompagnato da una convenzione (art. 5 del regolamento 533 del 1996; art. 17.59. della legge 127 del 1997), talora denominata contratto di servizio (art. 4.5. del decreto - legge 26 del 1995; art. 18.2. del decreto legislativo 422 del 1997), destinata a regolare i rapporti tra ente locale da un lato, azienda speciale o società mista dall'altro. // Ha anche mostrato come l'ente locale, che per legge o per sua determinazione fornisce il servizio, non ne abbandona la titolarità con l'affidarne ad altri la produzione, ma deve anzi controllare che il servizio venga effettivamente reso e lo sia nel rispetto di determinati requisiti: e così, l'ente locale, da un lato esercita indistintamente in confronto di tutti i soggetti gestori il potere di determinazione della tariffa, dall'altro si riserva in confronto di tutti strumenti di controllo dell'efficienza ed economicità del servizio. // Dunque, come l'attività dell'azienda speciale da un lato e della società a partecipazione maggioritaria dei privati dall'altro, anche l'attività della società a prevalente capitale pubblico locale, non diversamente da quella del concessionario, si inscrive in un rapporto con l'ente locale, il cui oggetto è la gestione del servizio pubblico. // Ancora, se il modello organizzativo della società mista diverge da quello della concessione perché l'ente locale associa a sè l'imprenditore privato nella gestione del servizio anziché rimettergliela, tuttavia esso presenta con la concessione il tratto comune di permettere all'imprenditore privato l'accesso alla gestione del servizio pubblico. // Dal punto di vista economico, della produzione del servizio, la partecipazione alla società mista è uno dei modi attraverso il quale l'imprenditore privato si pone nelle condizioni di ritrarre un lucro dall'investimento dei propri capitali e della sua capacità organizzativa in un determinato settore del mercato. // Ma, lo si è già posto in rilievo, regola generale da osservare nella concessione a terzi dei servizi pubblici locali è quella per cui il concessionario va scelto attraverso le procedure dell'evidenza pubblica. // La norma che configura il modello organizzativo della società a prevalente capitale pubblico locale darebbe allora luogo ad una disciplina irrazionale ed in contrasto con i principi costituzionali dell'imparzialità e del buon andamento, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost., quando se ne accettasse un'interpretazione per cui la sua applicazione potrebbe andare disgiunta da quella delle norme che, nei contratti degli enti locali e dello Stato, impongono di scegliere il contraente attraverso le adeguate procedure dell'evidenza pubblica. // È stato osservato che questa interpretazione parrebbe aver scontato un risultato, invece contraddetto dalle norme che regolano gli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, ed esserne stata in qualche modo condizionata. // Il risultato sarebbe quello per cui, con l'entrare a far parte della società mista di gestione del servizio pubblico, l'imprenditore privato sarebbe posto nella condizione di poter rendere prestazioni alla società sottraendosi al concorso con gli altri imprenditori. // Ma non è necessario soffermarsi sul regime degli appalti conclusi tra l'ente locale e la società o tra la società e i terzi da cui essa debba procurarsi forniture, servizi od opere, terzi tra i quali da un punto di vista giuridico è anche l'imprenditore che ha assunto la qualità di socio. // Va infatti tenuto distinto il profilo del servizio pubblico, ovverosia del servizio da rendere agli utenti e di cui la società assume la gestione come proprio oggetto sociale, da quello dei rapporti di appalto stabiliti, quando ciò possa concretamente profilarsi, tra ente locale e società e da quello dei rapporti di appalto stabiliti tra la società e i terzi, per consentirle di procurarsi le utilità necessarie per organizzare e rendere il servizio. // Il fatto che, assumendo la qualità di socio, l'imprenditore privato è posto nelle condizioni di investire le proprie risorse finanziarie e le proprie capacità organizzative nel settore produttivo della gestione del servizio pubblico, eventualmente conferendo alla società preesistenti sue strutture aziendali, costituisce ragione sufficiente per richiedere che l'accesso a tale posizione contrattuale sia mediata dall'applicazione delle procedure dell'evidenza pubblica>>.

(4) La pratica registrava ipotesi di scelta senza gara di un socio privato in una società che avrebbe eseguito una pluralità di servizi pubblici, ma ciò appariva in contrasto con quanto stabilito da Cons. Stato, sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192 cit., ove si afferma che: <<La possibilità di affidare il servizio in gestione diretta alla società pubblica senza ricorrere al modulo concorsuale non sta, però, a significare che sia indifferente, per l'ordinamento, la scelta del partner privato delle società pubbliche di cui si tratta. // Il socio privato è chiamato, infatti, normalmente ad espletare una molteplicità di compiti di gestione (implicanti il possesso di rilevanti capacità tecnico operative e imprenditoriali e specifiche doti di esperienza) variamente articolati e che si affiancano all'espletamento di attività più latamente amministrative e normalmente anche attinenti all'esercizio di pubblici poteri. E proprio perché il socio privato è chiamato a svolgere, mediante il suo apporto, parte rilevante di un pubblico servizio, la sua scelta non può essere rimessa a generici apprezzamenti soggettivi e, comunque, di mero carattere fiduciario basati sul semplice intuitus personae, altrimenti pervenendosi (con il richiamo al fatto che si tratta essenzialmente di un contratto associativo) a conseguenze chiaramente anacronistiche ed elusive di fondamentali principi di buona amministrazione e di trasparenza dell'azione amministrativa. // Quando, infatti, attiene all'individuazione di un "socio imprenditore" (o "socio industriale di minoranza", come recita espressamente il capitolo 8 dell'allegato alla delibera 48), dotato, come e in quanto tale, di significativi requisiti tecnico finanziari e strutturali, tale scelta non può essere rimessa a semplici giudizi soggettivi unilaterali, ma va esternata all'esito di un giudizio comparativo adeguatamente formalizzato, atto ad evidenziare che la scelta stessa è caduta su un soggetto che più di altri, sul piano della concorrenzialità, è in grado di assicurare la migliore funzionalità del servizio, anche in termini di economicità, nell'interesse preminente della collettività locale. // La costituzione della società a capitale pubblico maggioritario per l'affidamento ad essa di un pubblico servizio non si sostanzia, infatti, nella scelta di un socio qualsiasi, ma nella scelta di un socio imprenditore, con la conseguenza che essa dovrà avvenire avvalendosi di quegli strumenti concorsuali che l'ordinamento ha via via affinato ai fini dell'individuazione del soggetto privato chiamato a svolgere attività o servizi in favore dell'Amministrazione. // È vero che il socio privato non diventa concessionario diretto del servizio, ma i compiti che è chiamato ad espletare coincidono, nella sostanza, il più delle volte proprio con quelli tipici del concessionario privato; non si vede perché, allora, mentre questo deve essere individuato per il tramite della pubblica gara ai sensi dell'art. 267 T.U.F.L. 14 settembre 1931, n. 1175, viceversa un'analoga procedura selettiva non debba essere adottata per individuare quel partner privato della società pubblica che è chiamato a svolgere compiti appunto corrispondenti a quelli del concessionario privato. // Ora, pur mancando, nell'ordinamento, un specifica norma atta a disciplinare la scelta del socio nelle società a capitale pubblico maggioritario di cui all'art. 22, comma 3, lett. e), della legge n. 142/1990 [norme esplicite in tal senso - art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, art. 4 del d.l. 31 gennaio 1995, n. 26, conv. in legge 29 marzo 1995, n. 95, e art. 1 del D.P.R. 16 settembre 1996, n. 533 - essendo previste solo con riguardo alle società pubbliche minoritarie (…)] non di meno deve escludersi che la scelta stessa possa sottrarsi ai principi della concorrenzialità ormai immanenti, nell'ordinamento, tutte le volte in cui debba effettuarsi la scelta di un operatore privato chiamato a svolgere attività per conto e nell'interesse della P.A.. // Ad avviso del Collegio sopperiscono a tale apparente carenza normativa le disposizioni di cui all'art. 87 del T.U. 3 marzo 1934, n. 383, e dal titolo II del regolamento di contabilità di Stato, R.D. 23 maggio 1927, n. 827; si tratta di disciplina normativa che, pur non contemplando direttamente la fattispecie relativa alla costituzione di società miste da parte dei Comuni (in quanto, all'epoca, non disciplinate formalmente dall'ordinamento), appare, ciò non di meno, di essa comprensiva, secondo un ordinario principio di attualizzazione ed estensione del regime normativo vigente e di quello anzidetto in particolare. // In proposito già in passato questo Consiglio 11a osservato (con parere che il Collegio ritiene di condividere pienamente - cfr. Sez. I, l febbraio 1985 n. 130) che il comune può legittimamente promuovere la costituzione di società per azioni e/o assumervi partecipazioni azionarie giusta artt. 87 e 98/101 del citato T.U. del 1934, al fine di affidare in concessione a tali società un determinato servizio pubblico, purché con la partecipazione effettiva di almeno un altro socio e nel rispetto della normativa e dei procedimenti previsti per la scelta del terzo contraente e per la stipulazione dei contratti ad evidenza pubblica degli enti locali; in particolare, il Consiglio ha osservato, in quell'occasione (riguardante la creazione di una società mista per azioni relativa proprio alla gestione di un servizio acquedottistico) che la scelta dei soggetti con i quali concludere un contratto di società e sottoscrivere le relative azioni (sottoscrizione che, in tale ipotesi, deve assimilarsi agli acquisti onerosi) deve essere preceduta da pubblici incanti o, negli altri casi previsti dall'art. 87 cit., da licitazione o, a particolari condizioni, da trattativa privata, alla pari che per l'acquisto da terzi dei medesimi titoli azionari già sottoscritti. // Da tutto quanto sopra discende, dunque, l'esigenza che la scelta del socio privato minoritario faccia anche essa capo ad un'apposita procedura concorrenziale>>.

(5) Così si leggeva in tale comma: <<Può anche autorizzare la trattativa privata, allorchè ricorrano circostanze eccezionali e ne siano evidenti la necessità e la convenienza>>. Esso è stato, tuttavia, abrogato dall'art. 64, l. 8 giugno 1990, n. 142.

(6) Così la norma: <<Le concessioni di cui all'art. 265 devono, di regola, essere precedute da asta pubblica. Tuttavia, quando circostanze speciali in rapporto alla natura dei servizi lo consiglino, il prefetto può consentire che i contratti seguano a licitazione o a trattativa privata. // I contratti di concessione sono resi esecutori dal prefetto>>. Anche per tale disposizione è intervenuta espressa abrogazione ad opera dell'art. 35, l. 28 dicembre 2001, n. 448.

(7) Ci si riferisce a Cons. Stato, sez. V, 10 maggio 1999, n. 546, in Foro Amm. 1999, 998, ove si afferma che : <<L'art. 267 del TUFL di cui al RD. 14 settembre 1931, n. 1175, consente, è vero, di dare in concessione pubblici servizi, quale è, nella specie, quello relativo all'erogazione del gas metano, a trattativa privata, ma solo in presenza di "circostanze speciali".

(...) Ebbene, le circostanze speciali di cui al citato art. 267 non possono coinvolgere esclusivi aspetti di carattere tecnico - economico, altrimenti le Amministrazioni potrebbero sempre sottrarsi al confronto concorrenziale, tutte le volte che siano in grado di individuare soggetti disposti ad offrire il servizio a condizioni verosimilmente più favorevoli rispetto ad altri operatori; ciò che condurrebbe alla costante elusione del meccanismo concorrenziale che sempre più il legislatore, per motivi di trasparenza ed economicità dell'azione amministrativa, ha inteso, invece, estendere in tutti i procedimenti ad evidenza pubblica.

La norma in esame va, dunque, interpretata, come ritenuto dai primi giudici, in senso restrittivo e conforme all'attuale orientamento del legislatore, inteso a privilegiare il confronto concorrenziale tutte le volte in cui non vi ostino fatti oggettivamente impeditivi; con la conseguenza che, non diversamente dalle ipotesi di appalti di lavori o servizi (e, nella specie, la componente lavori presenta un'ampia incidenza), anche nel caso delle concessioni di pubblici servizi il ricorso alla trattativa privata deve ritenersi circoscritto in limiti ristretti e coincidenti con l'impossibilità, per la P.A., di far ricorso a pubbliche gare in ragione dell'estrema urgenza nel provvedere, ovvero in relazione alla sussistenza di presupposti d'ordine tecnico tali da impedire, se non al prezzo di costi sproporzionati, la ricerca di altre soluzioni basate sul previo confronto concorrenziale>>.

(8) Così si legge in tale disposizione: <<La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi>>.

(9) La distinzione tra contesti di intervento connotati da attività riservata o concessa e contesti caratterizzati – invece - da attività svolta sul mercato, appariva già positivizzata all’art. 2 del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 158, ove, tra i soggetti aggiudicatori delle procedure di appalto oggetto della norma, risultavano espressamente previsti <<i soggetti privati che per l’esercizio delle attività di cui agli articoli da 3 a 6 si avvalgono di diritti speciali o esclusivi>> (art. 2, comma 1°, lett. c): la medesima disposizione chiariva poi, al comma 3°, la nozione di <<diritti speciali o esclusivi>>, da intendersi come quei diritti <<costituiti per legge, regolamento o in virtù di una concessione o altro provvedimento amministrativo avente l’effetto di riservare ad uno o più soggetti l’esercizio delle attività di cui agli articoli da 3 a 6>>. Tuttavia, a seguito dell’abrogazione del d.lgs. n. 158 del 1995 avvenuta ad opera dell’art. 256 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, la disciplina in materia di società pubbliche è contenuta nel c.d. Codice dei contratti, nel quale risulta accolta la distinzione tra soggetti che producono opere, beni o servizi destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza da un lato, e soggetti operanti in ambiti riservati o concessi dall’Amministrazione dall’altro. A tale proposito si veda l’art. 32, commi 1°, 2° e 3° del Codice, dalla lettura combinata dei quali emergono alcune ipotesi di esenzione dalla disciplina generale specificamente dettate per le <<società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza>>.

(10) Cfr. T.A.R. Valle D’Aosta, 21 novembre 2006, n. 149 cit.

(11) Per un'analisi completa dell'istituto si vedano, soprattutto, M.S.Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1988, 791 ss.; E. Mele, I contratti delle Pubbliche Amministrazioni, in Teoria e pratica del diritto, Milano, 2002, 80 ss; G.Greco, I contratti dell'amministrazione tra diritto pubblico e privato, Milano, 1986, 15 ss. Per un approccio comparatistico all’istituto dell’evidenza pubblica ed alla relativa ratio, è stata operata una distinzione tra l’evidenza pubblica c.d. comunitaria e l’evidenza pubblica c.d. interna, ritenendo quest’ultima connotata da un più marcata preordinazione alla tutela dell’interesse pubblico al conseguimento di un rapporto ottimale di equilibrio tra qualità del servizio ed economicità: tale funzionalizzazione appare, invece, meno marcata in ambito comunitario, ove il ruolo centrale delle dinamiche operative pubbliche resta comunque il principio di concorrenza, trovando esso applicazione sia in fase di selezione del contraente e di valutazione delle offerte, che in fase di esecuzione del contratto. E sebbene i più recenti interventi del legislatore italiano e comunitario in materia siano nel senso di un progressivo avvicinamento delle due dimensioni dell’evidenza pubblica, l’aspetto che più propriamente connota l’accezione italiana di tale istituto resta comunque il vincolo di fine imposto all’azione amministrativa latamente intesa, con la conseguenza che non è sempre detto che la scelta migliore tra diverse opzioni sia quella economicamente più vantaggiosa, in quanto idonea a consentire all’Amministrazione un risparmio in termini di spesa o il conseguimento di un guadagno.

(12) In tal senso si veda, ex multis, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 20 aprile 2006, n. 2883, in Foro amm. TAR, 2006, 4, 1368 ss., ove si legge: <<Nel nostro ordinamento giuridico, la capacità giuridica e di agire degli enti pubblici è disciplinata dalle disposizioni di diritto positivo relative alle persone giuridiche ma, in relazione al principio della necessaria evidenza pubblica delle scelte effettuate da detti enti, le persone giuridiche pubbliche possono assumere impegni solo nei limiti e nei modi stabiliti dalla legislazione che regola la loro attività per il perseguimento dei fini che sono loro assegnati. Da tale premessa discende, per il carattere inderogabile delle disposizioni che prevedono tali procedure (sicuramente ascrivibili al novero delle norme imperative), l’obbligo di seguire i procedimenti nei quali è cristallizzata la volontà dell’ente, volontà che così come deve manifestarsi secondo tali procedure parimenti può essere modificata solo con il ricorso ai medesimi procedimenti e, di regola, con l’adozione di atti espressione del potere di autotutela, ove sussistano i presupposti per il ricorso ai relativi istituti>>. Per quanto attiene poi all’apporto dottrinale in materia, si veda l’accurata analisi compiuta da A., Massera I contratti, in Trattato di diritto amministrativo, S. Cassese (a cura di), tomo II, Milano, 2000, 1387 ss.

(13) Tale espressione è rinvenibile in Cons Stato, sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192, in Riv. Trim. app., 1998, 525 ss.; id., 19 settembre 2000, n. 4850, in Foro It., 2001, 3, 426 ss.

(14) Così T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 9 aprile 2004, n. 4233, in Foro amm. TAR, 2004, 1146, nonché, successivamente, Cons. Stato, sez. V, 31 gennaio 2006, n. 340, in Foro amm. CDS, 2006, 1, 186 ss.

(15) A riguardo si vedano, tra le altre, Cons. Stato, sez. V, 6 ottobre 2003, n. 5902 in Appalti Urbanistica Edilizia, 2004, 337 ss.; T.A.R. Lombardia, Brescia, 2 maggio 2006, n. 422, in http://www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Umbria, 31 maggio 2007, n.. 472, id.

(16) Così P. Virga, Diritto amministrativo, vol. III, Milano, 1998, 299 ss., ad avviso del quale, più dettagliatamente, i richiamati quattro requisiti identificativi sono: <<a) attività imprenditoriale: l’attività esercitata da parte dei soggetti erogatori di servizi pubblici è prevalentemente di tipo imprenditoriale, essendo diretta alla produzione di utilità. Sotto questo profilo il "servizio pubblico" si contrappone alla "funzione", perché l’attività del gestore del servizio pubblico è un’attività paritaria, che si svolge anche in concorrenza con quella privata, mentre lo svolgimento della "funzione" implica di regola l’esercizio di poteri autoritativi e pubblicistici; b) offerta indifferenziata al pubblico: tutti i cittadini hanno il diritto di fruire delle prestazioni del servizio pubblico. Il gestore di pubblico servizio – sia esso una azienda o impresa pubblica, sia esso una impresa privata – ha un <<obbligo di contrattare >>, nel senso che non può negare, nei limiti delle proprie disponibilità, l’accesso alla fruizione del servizio a tutti coloro che ne facciano richiesta (art. 2597 cod. civ.); c) doverosità: il carattere pubblico del servizio impone ai soggetti pubblici o privati a cui il medesimo è affidato di svolgere quella attività non già per perseguire risultati o scopi di profitto, bensì quale contributo a finalità di interesse pubblico; d) continuità: il servizio pubblico per sua natura non ammette soluzioni di continuità e richiede che le prestazioni siano rese, per quanto possibile, in maniera sistematica e continuativa>>.

(17) In questi termini si esprime G. Caia, I servizi pubblici, in Diritto amministrativo, vol. II, L. Mazzarolli ed altri (a cura di), Bologna, 2005, 131 ss.: <<Il rilievo soggettivo del servizio pubblico non deriva dalla natura del gestore (che può essere anche un privato), bensì: a) dalla imputabilità o titolarità del servizio all’Amministrazione pubblica, che ha assunto (istituito) il servizio o alla quale lo stesso è stato assegnato dal legislatore come compito da curare; b) dalle finalità alle quali il servizio risponde, perché se esse sono pertinenti alla soddisfazione di esigenze della collettività, emerge una corrispondenza biunivoca con i compiti dell’Amministrazione pubblica (posto il ruolo di essa nell’ordinamento); c) dalla presenza di un determinato tipo di organizzazione del servizio mirata ad assicurare specifiche modalità gestorie>>.

(18) Così T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 21 marzo 2005, n. 466, in Foro amm. TAR, 2005, 3, 881: in tale occasione i giudici hanno individuato i caratteri peculiari dell’istituto nella <<generalità dei destinatari>> e nella <<riconosciuta rilevanza sociale>> dello stesso.

(19) In questi termini T.A.R. Lombardia, Brescia, 27 giugno 2005, n. 673, in Servizi pubblici e appalti, 2005, 4, 481.

(20) A titolo meramente esemplificativo, possono essere richiamate T.A.R. Puglia, Bari, sez. II, 23 aprile 1998, n. 367, in Foro amm., 1999, 206 ss., nonché Trib. Roma, 8 maggio 2000, in Urb. e app., 2001, 395 ss.: se nella prima si fa espresso richiamo alla <<concessione di pubblici servizi>>, nella seconda il giudice mostra di aderire alla nozione oggettiva di servizio pubblico, con la conseguente possibilità di ricondurre ad essa <<le attività svolte da qualsiasi soggetto qualora siano sottoposte a controllo, vigilanza o a mera autorizzazione da parte di un'amministrazione pubblica>>.    

(21) In tal senso si veda Cons. Stato, sez. V, 13 dicembre 2006, n. 7369, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it. Sebbene l'accezione della locuzione appaia idonea – conformemente a quanto statuito nella richiamata pronuncia – a ricomprendere una gamma estremamente eterogenea di attività (nel caso di specie la manutenzione strade, l’illuminazione pubblica e la manutenzione del verde), essa non può comunque mai essere suscettibile di un’interpretazione svincolata dal dato normativo dell’art. 112 del t.u.e.l.: richiamando la lettera di tale disposizione, i giudici riaffermano infatti la necessarietà – sul piano oggettivo – della preordinazione dell’attività (da qualificarsi come servizio pubblico) al perseguimento di fini sociali e di obiettivi di sviluppo della società civile. Più precisamente si legge: <<Ai fini della qualificazione di un’attività come servizio pubblico locale o meno occorre prendere in considerazione l’art. 112 t.u.e.l., secondo il quale “gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici  che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”. (…) Dunque, muovendo dal dato di diritto positivo fornito dall’art. 112 t.u.e.l., deve ritenersi che la qualificazione di servizio pubblico locale spetti a quelle attività caratterizzate, sul piano oggettivo, dal perseguimento di scopi sociali e di sviluppo della società civile, selezionati in base a scelte di carattere eminentemente politico, quanto alla destinazione delle risorse economiche disponibili ed all’ambito di intervento e, su quello soggettivo, dalla riconduzione diretta o indiretta (per effetto di rapporti concessori o di partecipazione all’assetto organizzativo dell’ente) ad una figura soggettiva di rilievo pubblico>>.

(22) A tal proposito si veda, ex multis, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 18 aprile 2005, n. 670, in Foro amm. TAR, 2005, 4, 1265 ss.: <<La procedura di evidenza pubblica va seguita nel caso di scelta del socio privato sia di maggioranza che di minoranza in quanto la costituzione della società a capitale pubblico maggioritario per l’affidamento di un pubblico servizio non si sostanzia nella scelta di un socio qualsiasi, ma nella scelta di un socio imprenditore, con la conseguenza che essa deve avvenire avvalendosi di quegli strumenti concorsuali che l’ordinamento prescrive ai fini dell’individuazione del soggetto privato chiamato a svolgere attività o servizi in favore dell’amministrazione pubblica>>.

(23) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192 cit.; id., 19 settembre 2000, n. 4850 cit.

(24) In questi termini si esprime C. Cass., Sez. Un., 29 ottobre 1999, n. 754, in Giorn. Dir. Amm., 2000, 675 ss.

(25)Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 12 marzo 2007, n. 1781, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it.

(26) Così T.A.R. Puglia, sez. I, 16 dicembre 1989, n. 581, in Foro It., 1991, 3, 281 ss.

(27) L'espressione è impiegata da G. Caia, La disciplina dei servizi pubblici, in Diritto amministrativo, vol. I, L. Mazzarolli ed altri (a cura di), Bologna, 2001, 945 ss. 

(28) Per una disamina completa in materia di modalità di scelta del socio privato si veda la ricostruzione ermeneutica operata da T.A.R. Lombardia, Brescia, 2 maggio 2006, n. 422, cit.

(29) Alle medesime conclusioni approda la ricostruzione di E. Mele (a cura di), La società per azioni quale forma attuale di gestione dei servizi pubblici, in Teoria e pratica del diritto, Milano, 2003, pp. 181 ss.: << Più precisamente, il richiamo alla disciplina di evidenza pubblica ha trovato la sua giustificazione nel necessario rispetto dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione pubblica. La progressiva affermazione del principio di par condicio tra gli operatori economici, conseguente alla crescente forza del diritto comunitario, ha quindi portato ad utilizzare tale disciplina quale elemento di limitazione del potere decisionale della pubblica amministrazione, oltre che di garanzia della effettiva parità di trattamento tra gli aspiranti soci>>.   

(30) Ciò è quanto afferma anche il Consiglio di Stato nel recente parere 18 aprile 2007, n. 456, in http://www.giustizia-amministrativa.it, ove si legge: <<Appare, infatti, illogico ammettere, in alternativa all’affidamento del 100% del servizio all’esterno, la (sola) rinuncia totale al mercato con la società pubblica in house e non consentire, invece – in settori specifici, individuati dalla legge considerando la peculiarità di una data materia e quindi l’inopportunità di una totale devoluzione ai privati, ma anche l’impossibilità tecnica di lasciar gestire il servizio interamente alla “parte pubblica” – un'apertura parziale a più flessibili “forme di collaborazione” pubblico-privato, laddove tale apertura si giustifichi razionalmente con l’esigenza di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente ma in quella di socio e – soprattutto – sia delimitata da tutte quelle garanzie di definitezza dell’oggetto e della durata dell’affidamento che sole possono ricondurre, ad avviso della Sezione, il modello ad un affidamento all’esterno (sia pure per certi aspetti peculiare) e non come un affidamento in house>>.

(31) Cfr. T.A.R. Valle D’Aosta, 21 novembre 2006, n. 149 cit.

(32) Peraltro, l’impiego della procedura concorsuale diviene addirittura impossibile qualora la scelta del socio a cui la gara è preordinata non abbia oggetti definiti o definibili a priori: in questo senso si è espresso anche il Consiglio di Stato nel recente parere 18 aprile 2007, n. 456, cit., ove si afferma la preferenza per <<un modello che faccia (…) rientrare in gioco il mercato e i privati, tramite regolari procedure di gara e con garanzie precise che possono comunque delimitare l’affidamento nell’oggetto e soprattutto, nel tempo>>.

(33) In questo senso si vedano, tra le altre, Cons. Stato, sez. V, 30 aprile 2002, n. 2297, in Foro amm. CDS, 2002, 947; id. 3 febbraio 2005, n. 272, in Foro amm. CDS, 2005, 2, 425.

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