Premessa
La Corte di Giustizia delle Comunità europee con sentenza del 24.3.2011, n. C400/2008 ha deciso di recente una complessa questione riguardante la compatibilità di alcune norme di legge adottate dallo Stato spagnolo in materia di disciplina del commercio con l’art. 43 dello Statuto della Comunità Europea che vieta le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini e delle imprese nel territorio comunitario.
La sentenza si pone all’attenzione in quanto risulta coerentemente inserita nel solco segnato dal processo di liberalizzazione delle attività economiche che sta caratterizzando sia l’attuale dibattito giurisprudenziale che ancor di più quello politico-economico.
La pronuncia assume un particolare significato per i risultati interpretativi cui perviene, che forniscono ulteriori elementi per la definizione della struttura del rapporto tra libertà d’intrapresa economica, ed i relativi principi di rango comunitario e costituzionale, e l’ammissibilità dell’intervento statuale diretto a fissare limiti normativi al suo esercizio concreto.
La Corte, con questa sentenza, non si è espressa in merito ai contenuti della Direttiva CE 2006/123/ del 12.12.2006 relativa ai servizi nel mercato interno (cd Direttiva Bolkestein) - recepita nel nostro Ordinamento con il Decreto legislativo 26.3.2010, n. 59, entrato in vigore l’8.5.2010 – provvedimento che ha inciso profondamente sulla stessa concezione della disciplina delle attività economiche nel territorio comunitario e che ha fatto proprio il pensiero della giurisprudenza europea in argomento.
Pertanto, è ragionevole ritenere che quanto deciso possa anticipare quello che sarà la linea interpretativa che la stessa Corte di giustizia ed i Tribunali nazionali adotteranno quando saranno chiamati a pronunciarsi in merito all’applicazione dei contenuti della Direttiva servizi.
Con il presente lavoro cercheremo di ripercorre i tratti più significativi della pronuncia europea e di evidenziare gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza nazionale, sia costituzionale che amministrativa, in materia di liberalizzazione delle attività economiche, non senza trascurare di richiamare le connesse disposizioni legislative di cui al citato D. Lgs. n. 59/2010.
1. LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE DEL 24.3.2011, n. C 400/2008.
a) Le restrizioni alla libertà di stabilimento ex art. 43 del Trattato istitutivo della Comunità europea
a.1) Posizione della Commissione europea
La Commissione europea ha chiesto alla Corte di giustizia di accertare il contrasto di alcune disposizioni di legge dello Stato spagnolo, applicabili nella Comunità autonoma della Catalogna, che regolano l’insediamento di esercizi commerciali di grandi dimensioni ed ipermercati, con l’art.43 (ex art. 52) del Trattato istitutivo della Comunità Europea.
Secondo la tesi sostenuta dalla Commissione, le disposizioni in parola creerebbero una discriminazione fra gli operatori economici spagnoli e quelli originari di altri Stati membri in quanto favorirebbero l’apertura di strutture di vendita di medie dimensioni, che sono quelle preferite dagli imprenditori nazionali, rispetto a quelle di grandi dimensioni al cui insediamento sarebbe maggiormente interessati gli investitori provenienti da altri Stati membri.
Infatti, l’art. 43 CE vieta le restrizioni alla libertà di stabilimento intracomunitario dei cittadini e delle imprese stabilendo che “Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di uno Stato membro (omissis)”.
Né tali restrizioni, secondo la tesi della Commissione, troverebbero giustificazione in una delle deroghe ammesse al principio generale della libertà di stabilimento, consistenti in motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, ex art. 46 CE.
a.2) Posizione della Corte di Giustizia
- Principio di libertà di stabilimento ed effetti discriminatori
In via preliminare, la Corte rileva che la Commissione non ha fornito elementi sufficienti, definiti “elementi concludenti”, atti a provare la sussistenza di effetti discriminatori indiretti per gli imprenditori provenienti da paesi membri diversi dalla Spagna.
Ma al contempo chiarisce, richiamando la propria costante giurisprudenza, che l’art. 43 CE osta ad ogni provvedimento nazionale che possa scoraggiare od ostacolare l’esercizio della libertà di stabilimento anche se applicabile senza discriminazioni in base alla nazionalità.
In buona sostanza, secondo la Corte, indipendentemente da ogni effetto discriminatorio basato sulla cittadinanza, ed anche in carenza della prova di conseguenze discriminatorie, si verifica una restrizione vietata alla libertà di stabilimento, ai sensi dell’art. 43 CE, ogni qualvolta uno Stato adotta misure normative che “pregiudichino l’accesso al mercato per le imprese degli Stati membri, ostacolando in tal modo il commercio intracomunitario”.
Se ne deduce, pertanto, che l’introduzione, da parte di uno Stato membro, di norme dirette a pregiudicare l’accesso al mercato ad imprese provenienti da altri Stati costituisce restrizione vietata ai sensi dell’art. 43 CE, e ciò indipendentemente dalla sussistenza di un effetto discriminatorio fra imprese nazionali, che risulterebbero favorite, e imprese originarie di altri Stati membri, che risulterebbero invece discriminate.
In particolare, la Corte afferma che costituisce restrizione una normativa nazionale che subordina l’apertura di una nuova attività al rilascio di un’autorizzazione preventiva alle seguenti condizioni:
- quando la normativa si applica all’apertura di qualsiasi grande esercizio commerciale;
- se essa limita le zone d’insediamento disponibili per nuove strutture, ovvero, fissa limiti alle superfici di vendita che possono essere autorizzate;
- se consente il rilascio dell’autorizzazione unicamente nella misura in cui l’apertura non produce ripercussioni sui piccoli esercizi preesistenti;
- se stabilisce norme procedurali per il rilascio della richiesta autorizzazione idonee ad incidere negativamente sul numero di richieste di autorizzazione presentate e/o sul numero di quelle concesse.
- Deroghe ammesse al principio di libertà di stabilimento
Secondo la costante giurisprudenza europea, richiamata dalla Corte nell’annotata pronuncia, l’adozione di misure restrittive alla libertà di stabilimento può trovare giustificazione nella sussistenza di “motivi imperativi di interesse generale” ed a condizione che dette restrizioni siano atte “a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso”.
La giurisprudenza europea riconosce la sussistenza di un motivo imperativo di interesse generale nella protezione dell’ambiente, nella razionale gestione del territorio e nella tutela del consumatore, mentre lo esclude negli interventi normativi adottati con finalità di natura puramente economica.
2) LE SPECIFICHE NORME CENSURATE E LA DECISIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
2.a) Posizione della Commissione europea
La Commissione ha indicato come potenzialmente discriminatorie alcune disposizioni legislative dello Stato spagnolo, che per comodità di lettura raggruppiamo in due gruppi di censure, seguendo lo schema adottato nella parte espositiva della sentenza, e quindi:
- limitazioni territoriali e superficiali all’insediamento (primo gruppo di censure), che riguardano:
a) il divieto di insediamento di grandi esercizi commerciali al di fuori degli agglomerati urbani di un limitato numero di comuni;
b) l’introduzione di limitazioni alle superfici di vendita per ogni provincia e comune, limitazioni che diventano particolarmente “drastiche” per gli ipermercati, il cui insediamento è vietato in 37 province su 41 della Comunità autonoma della Catalogna;
c) la limitazione all’insediamento di ipermercati nelle restanti 4 province, insediamento consentito solamente a condizione che queste strutture non assorbano più del 9% della spesa per beni di largo consumo, ovvero, non oltre il 7% per beni non di uso corrente;
d) la fissazione di un limite superficiale massimo ammissibile pari a 23667 mq da distribuire in sei comuni;
- condizioni di rilascio dell’autorizzazione all’insediamento (secondo gruppo di censure), che si riferiscono a:
a) l’imposizione a carico dell’impresa di richiedere ed ottenere dall’Autorità amministrativa competente il rilascio di un’autorizzazione preventiva all’apertura di una struttura commerciale;
b) l’obbligo di prendere in considerazione, per il rilascio di una nuova autorizzazione, l’esistenza nella zona interessata di strutture commerciali adeguate;
c) l’obbligo di prendere in considerazione gli effetti dell’insediamento di un nuovo esercizio commerciale sull’assetto di una determinata zona;
d) l’obbligo di redigere una relazione sul livello d’insediamento, che è vincolante quando è negativa e che deve essere negativa quando il livello d’insediamento supera una certa soglia;
e) l’obbligo di consultare il Tribunale di tutela della concorrenza;
f) l’obbligo di ottenere il parere del Comitato per le struttura commerciali, fra i cui membri figurano concorrenti potenziali del richiedente l’autorizzazione.
2.b) Decisione della Corte di Giustizia
- Sulla normativa spagnola nel suo insieme
In via preliminare la Corte, nel chiarire che la normativa spagnola -“vista nel suo insieme”- costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento, in quanto è idonea a produrre l’effetto di “ostacolare e di scoraggiare” l’esercizio dell’attività d’impresa e lo stabilimento nel territorio da parte di operatori di altri Stati membri, passa all’analisi dei singoli gruppi di censure.
- Sulle limitazioni territoriali e superficiali all’ insediamento (primo gruppo di censure)
La Corte sviluppa il suo pensiero interpretativo secondo un articolato ragionamento i cui termini peculiari possono essere così riassunti:
1) in linea di principio le restrizioni riguardanti la localizzazione e la dimensione dei grandi esercizi commerciali rappresentano misure idonee a raggiungere gli obiettivi di razionale gestione del territorio e di protezione dell’ambiente (che sono proprio i motivi imperativi di carattere generale citati in precedenza, ndr.);
2) le specifiche limitazioni adottate dalla Spagna, e considerate nel loro insieme, incidono in modo significativo sulla possibilità di aprire grandi esercizi commerciali;
3) il singolo Stato membro, sul quale incombe l’onere di fornire la giustificazione della deroga al principio, non può limitarsi a richiamare generiche ragioni, ma deve corredarle con “un’analisi dell’opportunità e della proporzionalità della misura restrittiva adottata da tale Stato”, nonché di elementi circostanziati che consentano di suffragare la sua argomentazione”.
La Corte giunge alla decisione di ritenere le disposizioni controverse in contrasto con il principio di libertà di stabilimento di cui all’art. 43 CE proprio perché lo Stato spagnolo non ha fornito i richiesti elementi di giustificazione.
L’insegnamento che si ricava è molto significativo ed evidenzia come non tutte le misure che incidono in senso limitativo sulla localizzazione di imprese del commercio, compresa l’estensione superficiale delle aree di vendita, sono da ritenersi restrizioni in contrasto con i principi comunitari, e quindi vietate, ma solo quelle che:
- non sono giustificate da motivi imperativi di carattere generale
- non sono accompagnate da una verifica puntuale circa l’opportunità e la proporzionalità della misura adottata, la cui prova deve essere fornita dal singolo Stato membro.
- Sul procedimento autorizzatorio e sulle condizioni per il rilascio (secondo gruppo di censure)
a) Autorizzazione previa
La Commissione ha sostenuto la tesi secondo la quale la previsione contenuta nella normativa spagnola de qua di imporre l’obbligo di ottenere un’autorizzazione preventiva all’apertura di un esercizio commerciale di grandi dimensioni costituirebbe una restrizione vietata in quanto diretta a perseguire obiettivi di carattere economico.
In punto, la Corte ha condiviso la diversa posizione espressa sia dallo Stato spagnolo che dall’Avvocato generale che avevano invocato la sussistenza di un obiettivo di protezione dell’ambiente quale causa di giustificazione della previsione, ritenendo la misura adottata idonea a garantire la realizzazione di detto obiettivo rispetto ad una valutazione ex post che è apparsa “ meno efficace e più costosa”.
b) Valutazioni istruttorie di natura puramente economica
L’articolata normativa spagnola prevedeva che l’Autorità competente dovesse prendere in considerazione in sede istruttoria alcuni elementi di valutazione quali:
1) l’esistenza di strutture commerciali nella zona interessata
2) gli effetti dell’insediamento di un nuovo esercizio sull’assetto commerciale di tale zona
3) una relazione sull’insediamento.
Secondo la Corte queste valutazioni sono di natura puramente economica e non trovano giustificazione in motivi imperativi di interesse generale, trattandosi di elementi che riguardando l’incidenza sugli esercizi preesistenti e sulla struttura del mercato.
E’ stato anche cassato l’obbligo di ottenere il parere del Comitato per le strutture commerciali, e ciò non tanto con riferimento alla sua istituzione che è stata ritenuta astrattamente ammissibile, ma in ragione della sua composizione perché, afferma la Corte “si deve constatare che l’unico interesse settoriale rappresentato in tale Comitato è quello del commercio locale preesistente. Orbene, un organismo composto in tal modo, all’interno del quale gli interessi connessi sia alla protezione dell’ambiente sia a quella dei consumatori non sono rappresentati, mentre invece lo sono i concorrenti potenziali del richiedente l’autorizzazione, non può costituire uno strumento idoneo a realizzare obiettivi di razionale gestione del territorio, di protezione dell’ambiente e di tutela dei consumatori “.
3) LA GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA ITALIANA
Le quasi simultanee pronunce Tar Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 11.3.2011, n. 145 e Consiglio di Stato, Sez. V, 31.3.2011, n. 1973 si pongono sulla stessa linea di pensiero nello sforzo di definire in concreto il contenuto del complesso processo di liberalizzazione delle attività economiche.
Entrambe i Giudici giungono ad un risultato interpretativo sostanzialmente sovrapponibile, traendo spunto dalla pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. V, 10.3.2009, n. 2808 in materia di pubblici esercizi, alla quale và riconosciuto il merito di aver aperto la strada all’attuale orientamento applicativo.
Analogamente il dato normativo posto a fondamento delle due recenti pronunce è rappresentato dalle disposizioni di cui agli artt. 1 e 3 della Legge 4.8.2006, n. 248 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223) e dall’art. 11 del D. Lgs. n.59/2010.
Dalla lettura combinata delle sentenze appena citate e delle altre riportate in prosieguo è possibile ricavare la struttura dell’orientamento interpretativo espresso dai giudici amministrativi nazionali.
Vediamo partitamente gli aspetti più significativi.
3.a) Le norme di liberalizzazione del mercato
Secondo il Tar Friuli Venezia Giulia n. 145/2011 le disposizioni di cui all’art. 3 della Legge 4.8.2006, n. 248 e dell’art. 11 del Decreto legislativo n. 59/2010 “ (omissis) sono state univocamente interpretate come liberalizzazione del mercato, con divieto di contingentamento, cioè di limitare l’apertura di nuove attività commerciali stabilendo un numero preciso di autorizzazioni rilasciabili ovvero di superfici assentibili.
Interessante in punto il richiamo del Giudice giuliano anche all’art. 11 del recente D.Lgs. n.59/2010 e la sua collocazione nel quadro delle norme di liberalizzazione del mercato.
La sentenza riporta, altresì, i passi più significativi della citata pronuncia Cons. Stato, Sez. V, 5.5.2009, n. 2808 e fa propri, altresì, gli approdi interpretativi di Tar Calabria, Sez. II, 11.1.2011, n. 5 e Tar Lombardia, Sez. IV, 22.11.2010, n. 7300.
A conferma di quanto appena espresso, si segnala anche Cons. Stato, Sez. V, 10.5.2010, n. 2758 che così ha stabilito “La normativa del cd “decreto Bersani” (D.L. 223/2006) mira, infatti, alla liberalizzazione delle attività commerciali, escludendo che agli esercizi autorizzati possano essere posti limiti quantitativi e qualitativi di vendita delle merci ( art. 3)- omissis-”.
3.b) Le limitazioni all’apertura di nuovi esercizi commerciali
La Sezione V del Consiglio di Stato con la citata pronuncia n. 2808/2009, intervenendo in merito alla vexata questio in tema di fissazione di limiti numerici/quantitativi all’apertura di nuovi esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, ha così stabilito: “limitazioni all’apertura di nuovi esercizi commerciali sono astrattamente possibili purchè non si fondino su quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite, ossia, in altri termini, sull’apprezzamento autoritativo dell’adeguatezza dell’offerta delle presunta entità della domanda. I principi del Trattato e del nostro ordinamento costituzionale impongono che i poteri pubblici non interferiscano sul libero giuoco della concorrenza, astenendosi dallo stabilire inderogabilmente il numero massimo degli esercizi da autorizzare in una determinata area”.
Nello stesso senso, la medesima Sezione, con la recentissima sentenza 31.3.2011, n. 1973, ha ribadito il riferito orientamento nei seguenti termini:
“Il d.l n. 223/06, in ossequio ai principi comunitari in materia, ha introdotto un principio generale a tutela della concorrenza, che garantisce la piena libertà di iniziativa economica e contrasta l’introduzione di limiti e contingentamenti dei titoli abilitativi necessari per l’esercizio di determinate attività, tra cui rientra quella in questione”.
“Peraltro un contingentamento delle autorizzazioni implica di per sé un contrasto con l’art. 3 del d.l. n. 223/06, essendo onere dell’amministrazioni, o in questo caso dell’appellante, dimostrare che il limite sia posto per ragioni e finalità compatibili con il citato d.l.”.
Riguardo a quest’ultima pronuncia và rilevato che il caso di specie sottoposto a giudizio riguardava alcune disposizioni della Regione Calabria con le quali erano stati fissati limiti numerici all’apertura di grandi strutture di vendita nelle aree sovracomunali in cui era stato suddiviso il territorio regionale.
Il Consiglio di Stato, in riforma della pronuncia del giudice prime cure - Tar calabria, Sez. Catanzaro, Sez. II, n. 1045/2009 – ha così proseguito:
“(omissis) nella relazione alla deliberazione n. 409/ 2000 si fa espresso riferimento ad una suddivisione del territorio in aree “configurabili ciascuna come unico bacino di utenza” a conferma che il mercato è stato segmento con finalità anticoncorrenziali al fine di predeterminare con atto dirigistico l’equilibrio tra domanda e offerta, che invece dovrebbe essere lasciato al libero gioco della concorrenza e con il concreto effetto di impedire l’ingresso nel mercato di nuovi operatori (effetto che si verificherebbe, dando applicazione nel caso di specie alla delibera regionale)”.
Prima conclusione in punto.
1) I contingenti numerici e quantitativi all’apertura di nuove attività commerciali sono banditi dal nostro ordinamento e ciò in forza delle disposizioni di legge citate, oltrechè dei principi di derivazione comunitaria e costituzionale;
2) limitazioni all’apertura di nuovi esercizi commerciali sono astrattamente possibili purchè non si fondino su quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite e, quindi, non rappresentino un intervento dell’autorità - atto dirigistico con finalità anticoncorrenziali - diretto a mantenere un equilibrio fra domanda e offerta con la conseguenza di predeterminare l’ingresso di nuovi operatori nel mercato.
3.c) Le limitazioni ammissibili
- La cd urbanistica comerciale
Tar Friuli V.G. n. 145/2011:
“ e se è ben vero che le autorizzazioni non possono essere limitate avendo quale parametro di riferimento la pretesa sufficienza degli esercizi esistenti, è altrettanto vero che la cd “urbanistica commerciale” può individuare altri elementi di limitazione, riferiti, ad esempio all’essere determinate zone più o meno servite ( per intenderci: se non è più possibile vietare l’apertura tout court di una msv ( media struttura di vendita, ndr.) adducendo l’esistenza di un contingente ovvero la sufficienza delle strutture commerciali esistenti nel Comune; può invece esserlo vietarla in una certa zona, se il comune ha stabilito che tali attività vengono ubicate ove il servizio è maggiormente carente, ovvero alla presenza di monumenti di particolare significanza o di panorami, o bellezze d’insieme, che non si vogliono turbare con la presenza di strutture incongrue o ancora all’inadeguatezza della rete viaria”.
- La salvaguardia del tessuto commerciale esistente
Ancora Tar Friuli V.G. n. 145/2011:
“ Infatti le leggi sopravvenute hanno liberalizzato il mercato lasciando alle Regioni e agli Enti locali la possibilità di porre limiti ai nuovi insediamenti commerciali solo se giustificati da ragioni estranee alla limitazione della concorrenza, in altre parole: geografiche, storico-culturali, urbanistiche, architettoniche e - ritiene il Collegio – anche di salvaguardia del tessuto commerciale esistente ( ad esempio, negando l’autorizzazione all’apertura di nuovi punti vendita nei centri storici caratterizzati dall’esistenza di attività commerciali tradizionali di piccola dimensione, ma molto diversificate, che si vuole preservare), ma non potrà puramente e semplicemente denegare un’autorizzazione richiamandosi ai non consentiti contingentamenti”.
Ed anche il Consiglio di Stato, Sez. V, 10.5.2010, n. 2758:
“ La normativa del cd “ decreto Bersani” ( D.L. 223/2006) mira, infatti, alla liberalizzazione delle attività commerciali, escludendo che agli esercizi autorizzati possano essere posti limiti quantitativi e qualitativi di vendita delle merci ( art. 3), ma non osta alla possibilità che i Comuni tutelino le attività tradizionali nei centri storici con disposizioni che non impediscono l’esercizio nei centri storici di attività diverse da quelle tradizionali anche se riservano a queste ultime i locali in cui erano svolte in precedenza.
Gli stessi principi costituzionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa economica e di tutela della concorrenza non escludono che esigenze di tutela di valori sociali di rango parimente primario possano suggerire condizionamenti e temperamenti al dispiegarsi dei diritti individuali. Detti limiti sono vieppiù costituzionalmente compatibili, oltre che in ragione dei confini temporali che li perimetrano, anche in virtù della considerazione che al titolare dell’esercizio dell’attività cessata non è imposto un puntuale sbarramento merceologico in quanto gli è consentito di intraprendere da subito qualsiasi attività appartenente al medesimo genere, alimentare o non alimentare, di quella venuta meno.
Va aggiunto che le misure in esame, senza imporre limitazioni quantitative e qualitative incompatibili con la disciplina nazionale, perseguono la concorrente finalità di tutelare il consumatore garantendo la permanenza, negli ambiti territoriali tutelati, di un’offerta variegata di beni e servizi che non sia depauperata di attività tradizionali altrimenti a rischio di estinzione”.
Seconda conclusione.
Abbiamo visto come le pronunce riportate considerano astrattamente possibile la fissazione di limiti alle nuove aperture di attività economiche, precisando che detti limiti all’insediamento possono essere introdotti esclusivamente se giustificati da ragioni di pianificazione urbanistico/territoriale – la cd urbanistica commerciale – connesse ad esigenze di tutela paesaggistica, monumentale, artistica, architettonica, ovvero, in caso di accertata inadeguatezza del sistema infrastrutturale e carenza di servizio in determinate zone.
Ma non solo.
Di particolare interessante anche i passaggi delle pronunce di cui sopra che pongono l’attenzione su quello che, a ben vedere, è il punto cruciale del lungo e controverso contradditorio in materia, la questione relativa all’ammissibilità di una tutela del tessuto commerciale esistente.
Significativo quanto espresso da Cons. Stato n. 2758/2010 che ha confermato Tar Lazio, sez. II ter, 7.7.2009, n. 6579, in punto di salvaguardia del tessuto commerciale tradizionale nei centri storici, con particolare riferimento ai negozi di vicinato.
Nel caso di specie, il Giudice ha ritenuto compatibili con l’attuale assetto normativo in tema di libertà di concorrenza le disposizioni regolamentari adottate dal Consiglio comunale di Roma con le quali era stato approvato un piano comunale di localizzazione delle strutture di vendita tradizionali, con la finalità di salvaguardia dei caratteri tradizionali del centro storico cittadino, peraltro in adempimento di specifiche disposizioni di legge regionale laziale.
La peculiarità della disciplina regolamentare consisteva nel fatto che essa non vietava l’insediamento di nuove strutture commerciali del centro storico -non poneva cioè limitazioni di carattere assoluto - ma stabiliva che, una volta cessata un’attività qualificata come tradizionale, potevano essere attivate nel medesimo locale e nei cinque anni successivi solo attività delle stessa specie di quelle svolte in precedenza, appartenenti ai settori alimentare o non alimentare.
Degno di rilevo anche il richiamo operato agli artt. 6 e 10 del D.Lgs. n. 114/1998 in materia di competenza legislativa delle regioni nell’adozione di misure di salvaguardia e riqualificazione dei centri storici, norme che mantengono la loro valenza di criteri guida per il legislatore regionale.
4) LA POSIZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
4.a) La salvaguardia del tessuto commerciale esistente
La Corte Costituzionale, con la sentenza 9.3.2007, n. 64, è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di alcune disposizioni della Regione Umbra in materia di commercio, con le quali era stato previsto che per la realizzazione di una grande struttura di vendita nella forma del centro commerciale, la superficie di vendita degli esercizi di vicinato e delle medie strutture di vendita doveva risultare pari ad almeno il 30 per cento della superficie totale del centro stesso. Di questa percentuale del 30 per cento, almeno la metà (cioè il 15 per cento) doveva essere riservato ad operatori di piccole e medie dimensioni operanti sul territorio da almeno cinque anni.
Il Giudice delle Leggi non ha ritenuto le disposizioni sottoposte al suo scrutinio lesive del principio di libertà di concorrenza, ex art. 41 Cost., per le seguenti ragioni “ La riserva del 30% della superficie di una grande struttura di vendita in favore delle piccole e delle medie strutture, e quelle del 15 per cento per chi già fosse operante sul territorio regionale da un congruo periodo, non determina una lesione ingiustificata e irragionevole del principio della libera concorrenza e/o di uguaglianza, in quanto, pur derogando, peraltro in misura limitata al criterio della parità che deve caratterizzare l’assetto competitivo di un mercato, ha lo scopo di ridurre i possibili effetti negativi a breve, sotto il profilo socio-economico, dell’intervento regolatorio”.
Viene quindi riconosciuta al legislatore regionale la potestà di fissare per legge limiti al principio di libertà di concorrenza e di parità di accesso al mercato, quando l’intervento non appare né ingiustificato e neppure irragionevole e se esso è sostenuto dalla necessità di ridurre gli effetti negativi, oltretutto in un limitato arco temporale, che si possono produrre sul tessuto economico preesistente.
Prosegue affermando che “la norma tutela l’esigenza di interesse generale – peraltro espressamente richiamata dal citato art. 6, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 114 del 1998 – di riconoscimento e valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese già operanti sul territorio regionale: essa è, infatti, volta a consentire a queste ultime – che hanno dato un significativo apporto alla vitalità del sistema economico regionale per un congruo lasso di tempo ( cinque anni) e che sono esposte a subire le conseguenze dell’impatto delle grandi strutture – di adattarsi all’evoluzione del settore, conservando adeguati spazi di competitività”.
4.b) La discriminazione fra imprese
La corte si sofferma anche a ribadire il proprio pensiero in materia di discriminazione fra imprese, chiarendo che: “ Questa Corte ha, infatti, più volte affermato che solo le discriminazioni fra imprese - operate sulla base di un elemento territoriale – che non siano ragionevolmente giustificabili contrastano “ con il principio di eguaglianza nonché con il principio in base al quale la Regione non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose fra le regioni e non può limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio la loro professione, impiego, o lavoro ( sentenze n. 440 del 2066, n.207 del 2001, 362 del 1998)”.
Sulla base di tale assunto, la Corte ha di conseguenza cassato altre disposizioni della medesima legge umbra che prevedevano un criterio di precedenza, tra domande concorrenti, a favore di istanze presentate da imprenditori già titolari di altre grandi strutture di vendita nella stessa regione, così statuendo: “la disposizione introduce un criterio preferenziale per il rilascio delle predette autorizzazioni, il quale opera una discriminazione fra imprese sulla base di un criterio anche di localizzazione territoriale privo di una ragionevole giustificazione “ (omissis) “ stabilisce, pertanto, una barriera “di carattere protezionistico alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale” ( sentenza n. 440 del 2006 e sentenza n. 207 del 2001) in difetto di una giustificazione ragionevole”.
In conclusione, soltanto le discriminazioni territoriali che non siano ragionevolmente giustificabili si pongono in contrasto con il principio di eguaglianza e quello della libera circolazione e localizzazione delle imprese nel territorio nazionale.
5) LA DIRETTIVA SERVIZI ED IL DECRETO LEGISLATIVO DI RECEPIMENTO
Lo sviluppo del pensiero giurisprudenziale soprariferito, sia comunitario che nazionale, e gli approdi cui è pervenuto dovranno necessariamente confrontarsi con le disposizioni della Direttiva europea sui servizi e del D.Lgs. n. 59/2010 di recepimento.
Il confronto riguarderà i temi relativi al contenuto della nozione di motivi imperativi di carattere generale (art. 8, comma 1, lett. h), al principio della libertà di accesso e di esercizio delle attività di servizi ( art. 10), al divieto di imporre requisiti per l’accesso e l’esercizio che la stessa Direttiva definisce “vietati”, fra i quali rilevano quelli di carattere economico (art. 11, comma 1, lett. e) e la disciplina dei cd regimi autorizzatori ( art. 14).
- I motivi imperativi di interesse generale
I motivi imperativi di interesse generale sono quelli indicati all’art.8, comma 1, lett. h) del D.Lgs. n.59/2010 e, quindi, per quanto qui interessa sono le “ragioni di pubblico interesse, tra i quali l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica, la sanità pubblica, la sicurezza stradale, la tutela dei lavoratori compresa la protezione sociale dei lavoratori, (omissis) la tutela ambientale, incluso l’ambiente urbano, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico (omissis)”.
Come espresso dalla stessa Direttiva al Considerando n. 40 “la nozione (...) cui fanno riferimento alcune disposizioni della presente direttiva è stata progressivamente elaborata dalla Corte di giustizia nella propria giurisprudenza relativa agli articoli 43 e 49 del Trattato, e potrebbe continuare ad evolvere”.
Abbiamo visto come la Corte di Giustizia nell’annotata sentenza abbia più volte richiamato i motivi imperativi quale criterio idoneo a valutare la contrarietà o meno di una norma ai principi del Trattato.
Anche la Giurisprudenza nazionale dovrà meglio definire il contenuto dei motivi imperativi rispetto ad una definizione che richiama la nozione di “ragioni di pubblico interesse“ e formula un’elencazione esplicativa da ritenersi non esaustiva in ragione dell’inserimento nel testo dell’espressione “ tra i quali “.
- Il principio della libertà di accesso e di esercizio delle attività di servizi (art. 10)
L’art. 10 fissa il principio secondo cui “l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi costituiscono espressione della libertà di iniziativa economica e non possono essere sottoposti a limitazioni non giustificate o discriminatorie”.
Il dato normativo risulta in linea con l’impostazione giurisprudenziale sopraespressa che ha ritenuto ammissibile, come abbiamo visto, l’introduzione di limiti all’attività d’impresa qualora siano giustificabili, non discriminatori e ragionevoli.
- I requisiti per l’accesso e l’esercizio dell’attività di servizi
L’art. 11, comma 1, lett. e) introduce il divieto di subordinare l’accesso e l’esercizio di un’attività di servizi:
- ad una verifica di natura economica che subordina il rilascio del titolo autorizzatorio alla prova dell’esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato;
- o alla valutazione degli effetti economici potenziali o effettivi dell’attività;
- o alla valutazione dell’adeguatezza degli effetti economici potenziali o effettivi dell’attività;
- o alla valutazione dell’adeguatezza dell’attività rispetto agli obiettivi di programmazione economica stabiliti.
Sono ammessi esclusivamente i requisiti di programmazione economica dettati da motivi imperativi d’interesse generale che non perseguono obiettivi economici.
La norma ribadisce in termini inequivocabili il principio del divieto di introduzione di limiti all’esercizio di attività economiche dettati da ragioni di carattere economico e, quindi, il divieto di interventi di carattere autoritativo diretti a condizionare il libero sviluppo del mercato e della libertà di iniziativa d’impresa.
Le uniche limitazioni ammesse sono quelle giustificate da motivi imperativi di carattere generale
Anche questa disposizione è in linea con il filone interpretativo finora svolto.
- I regimi autorizzatori
L’art. 14, D.Lgs. n. 59/2010 stabilisce che
- regimi autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale, nel rispetto dei principi di non discriminazione, di proporzionalità, nonché delle disposizioni di cui al presente titolo ( comma 1)
- il numero di titoli autorizzatori per l’acceso e l’esercizio di un’attività di servizi può essere limitato solo se sussiste un motivo imperativo di interesse generale o per ragioni correlate alla scarsità di risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili” ( comma 3).
Ed ancora, il regime autorizzatorio è definito come: “ qualsiasi procedura (...) che obbliga un prestatore o un destinatario a rivolgersi ad un’autorità competente allo scopo di ottenere un provvedimento formale o un provvedimento implicito relativo all’accesso ad un’attività di servizio o al suo esercizio, ai fini del presente decreto, non costituisce regime autorizzatorio la dichiarazione di inizio attività (d.i.a) di cui all’art. 19, comma 2, secondo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241”.
La novità di assoluta rilevanza è rappresentata dal fatto che i regimi autorizzatori non costituiscono più la regola, ma sono diventati un’ipotesi eccezionale in quanto possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale, nel rispetto dei principi di non discriminazione e di proporzionalità.
La regola generale è rappresentata dalla libertà di intrapresa economica senza necessità della mediazione di un provvedimento amministrativo di assenso, sia esso espresso o tacito, che può essere imposto solo se sussistono motivi imperativi di carattere generale.
Bisogna a tale riguardo considerare che secondo la norma in parola la Dia ( Dichiarazione inizio attività), di cui all’art. 19, comma 2, secondo periodo - Dia ad efficacia immediata - è stata integralmente sostituita dalla Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) introdotta con la Legge n. 122/2010.
La Scia, a sua volta, “sostituisce ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato (...) richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale, artigianale (...)”.
Per cui anche la Scia, è atto ad efficacia immediata con la conseguenza che sarebbe esclusa dall’ambito dei regimi autorizzatori ed al contempo sarebbe sottratta alle limitazioni istitutive proprie di detto regime.
Da tale impostazione emergerebbe anche in termini ragionevolmente decisivi la natura di atto privatistico e non pubblicistico.
In punto, si rileva come la Sezione IV del Consiglio di Stato, con Ordinanza 5.1.2011, n. 14, ha rimesso all’Adunanza plenaria la questione della corretta qualificazione giuridica della DIA in edilizia, come atto del privato, ovvero, come atto di natura provvedimentale. In quella sede ha sostenuto che “dinanzi a fattispecie che modificano i confini tra pubblico e privato e che esigono, a fini di liberalizzazione e semplificazione, un intervento solo eventuale e successivo dell’amministrazione pubblica nel rapporto tra autorità e libertà” (omissis) “. La s.c.i.a. di cui non è ancora chiara allo stato la ampiezza di applicazione in materia edilizia, enfatizza (in nome di una ulteriore liberalizzazione e semplificazione) ancora di più la natura privatistica dell’atto (…)”.
6) PRIMA PRONUNCIA SULLA DIRETTIVA SERVIZI
In conclusione, và segnalato che il TAR Campania, con Ordinanza cautelare 15.10.2010, n. 952, si è pronunciato in merito all’applicabilità del D.lgs. n. 59/2010 alle attività di rivendita di giornali e riviste.
A tale riguardo, nell’accogliere la richiesta di sospensiva di un provvedimento comunale di cessazione di un’attività di vendita di quotidiani e riviste, il tribunale così si è espresso: “Ritenuto che il ricorso appare, prima facie, meritevole di considerazione in sede cautelare, in considerazione del principio generale della liberalizzazione delle attività di servizi, di cui all’art. 10 decreto legislativo 59/2010 e dell’ampiezza precettiva dell’art. 1 dello stesso decreto legislativo, entro cui senz’altro rientra l’attività di rivendita di giornali e riviste, del resto non esclusa, ai sensi dei successivi artt. 2- 7, dall’applicazione del prefato testo di legge”.
Il Giudice conferma l’ambito applicativo del D.Lgs. n. 59/2010, che si estende a tutte le attività di servizi non espressamente escluse, considerata l’ampia portata dell’art. 1, secondo il quale “ Le disposizioni del presente decreto si applicano a qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale, svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione anche a carattere intellettuale.
Ed infatti, gli artt. 6 e 7 non comprendono l’attività di vendita di giornali e riviste fra i servizi esclusi dall’applicazione del Decreto stesso.
Viene, inoltre, richiamato l’art. 10 che esprime il principio generale di libertà di acceso e di esercizio delle attività di servizi, come si accenna al precedente par. n. 5.
In punto, si è già avuta occasione di segnalare la carenza di disciplina determinatasi a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 59/2010 per alcuni settori di rilevante attività economica, come la media e grande distribuzione di vendita e, per l’appunto, i giornali e riviste, per i quali lo Stato non ha fornito nella Seconda parte del Decreto alcuna regolamentazione, neppure minima - anche se solo transitoria.
Infatti, in forza della Clausola di cedevolezza di cui all’art. 84 alle attività di servizi si applicano le disposizioni del Decreto fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti regionali di attuazione della Direttiva.
E’ evidente che il legislatore regionale, nel definire le norme di regolazione delle diverse attività di servizi, non potrà non tenere conto dei consolidati risultati interpretativi cui è pervenuta la giurisprudenza sia comunitaria che nazionale e descritti brevemente in questa sede.
Dott. Paolo Vignola – Funzionario Responsabile del Servizio Attività economiche - Sportello unico attività produttive del Comune di Belluno
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