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Società pubbliche: problemi di inquadramento “genetico” e definizione dei meccanismi di governance
di
Gerardo Guzzo*
Sommario: 1. Premessa. 2. La posizione del Consiglio di Stato: la sentenza n. 122/2013. 3. Il nodo della nomina e della revoca del CdA delle società miste e la questione della giurisdizione. 4. Il d.P.R. n. 251/2012. 5. Considerazioni finali.
1. Premessa.
Il funzionamento delle società pubbliche e le dinamiche costitutive gli organi di governance rappresentano degli aspetti particolarmente significativi nella vita dei moduli societari pubblici. Al riguardo, proprio recentemente, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di intervenire su questo tema nodale individuando alcuni criteri che meglio dovrebbero orientare l’interprete nell’individuazione dei parametri da adottare ai fini di un corretto inquadramento del modello societario. In particolare, ci si riferisce alla pronuncia del Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 122 dell’11 gennaio 2013 ed al dictum del T.a.r. Lazio, Latina, n. 17, del 9 gennaio 2013. In entrambe le sentenze, i magistrati amministrativi hanno affrontato il problema della nomina e della revoca degli organi di governance di una società pubblica analizzando la questione delle posizioni giuridiche coinvolte e, per conseguenza, la questione del radicamento della giurisdizione in caso di contenzioso. Lo scrutinio dei due arresti mostra una certa comunanza di vedute tra il giudice di primo grado e quello di seconde cure non senza, però, alcuni significativi distinguo che rendono la vicenda, a tutt’oggi, particolarmente fluida. In questo quadro, poi, si inserisce il d.P.R. n. 251/2012, che entrerà a regime a partire dal 12 febbraio 2013, e che costituisce il “Regolamento concernente la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, non quotate in mercati regolamentati, in attuazione dell’articolo 3, comma 2, della legge 12 luglio 2011, n. 120”. Tale testo di legge, applicandosi anche alle società controllate dalla pubblica amministrazione, fornisce ulteriori indicazioni in merito alla corretta composizione degli organi di governance delle società pubbliche.
2. La posizione del Consiglio di Stato: la sentenza n. 122/2013
I giudici di Palazzo Spada, con la sentenza n. 122 dell’11 gennaio 2013, sono stati chiamati a dirimere una questione nella quale si poneva il problema della corretta individuazione della giurisdizione in un caso di revoca di un amministratore di una società pubblica. La pronuncia risulta particolarmente interessante perché svela i criteri in base ai quali i magistrati del Consiglio di Stato ritengono si possa definire la natura pubblica o privata di una società. Al riguardo, hanno chiarito i supremi giudici che “(…) nell’ambito delle società pubbliche occorre distinguere le società che svolgono attività di impresa da quelle che esercitano attività amministrativa. Le prime sono assoggettate, in linea di principio, allo statuto privatistico dell’imprenditore, le seconde allo statuto pubblicistico della pubblica amministrazione (Cons. Stato, VI, 20 marzo 2012, n. 1574). Per stabilire quando ricorre l’una o l’altra ipotesi, occorre aver riguardo: i) alle modalità di costituzione; ii) alla fase dell’organizzazione; iii) alla natura dell’attività svolta; iv) al fine perseguito (…)”. In altre parole, i supremi giudici sono partiti dal principio, già posto dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 326/2008, a tenore della quale esiste una differenza tra “(…) attività amministrativa in forma privatistica e attività d'impresa di Enti pubblici. L'una e l'altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza. Le disposizioni impugnate mirano a separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. Non è negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza (…)”. Ciò posto, dall’esame dei criteri innanzi riportati, i magistrati di Palazzo Spada ne hanno fatto discendere che “(…) la speciale società in esame debba essere qualificata come una società pubblica che svolge, esternamente, attività non economica ma di rilievo amministrativo corrispondente agli interessi pubblici perseguiti (…)” e che “(…) tale qualificazione si riflette sull’attività interna alla società e sulla preposizione dei suoi organi (…)”. In altre parole, i giudici hanno constatato che: 1. la società oggetto di scrutinio era stata istituita per legge; 2. che esisteva una dissociazione tra la titolarità della qualità di socio e l’esercizio dei diritti di socio, radicati in capo a due soggetti pubblici diversi; 3. che, per conseguenza, il CdA non veniva nominato dall’Ente titolare della partecipazione - dunque, dall’assemblea dei soci - quanto, piuttosto, dall’Ente titolare della qualità di socio; 4. che l’attività svolta dalla società non poteva essere qualificata d’impresa in quanto priva del requisito essenziale del relativo rischio (artt. 2247 e 2082 Cod. civ.); 5. che lo scopo era chiaramente quello di realizzare un interesse pubblico. L’analisi congiunta di tutti questi elementi, in particolare la rinvenuta assenza del rischio d’impresa, ha portato il Consiglio di Stato a concludere che nello specifico si trattava di una società pubblica strumentale alla realizzazione di interessi generali e che, per conseguenza, ogni controversia relativa la nomina o revoca degli organi di governance fosse sottratta al sindacato del giudice ordinario a beneficio di quello amministrativo in quanto la nomina del CdA si atteggia ad atto autoritativo in senso stretto capace di generare un’attività di rilievo amministrativo. Il ragionamento svolto dal Consiglio di Stato appare condivisibile nelle sue linee essenziali. Tuttavia, la pronuncia, investendo il caso di una società a capitale interamente pubblico, lascia sullo sfondo il problema dell’applicabilità dei principi stabiliti anche alle società miste che, notoriamente, hanno una composizione societaria, un assetto organizzativo ed una mission completamente diversi.
3. Il nodo della nomina e della revoca del CdA delle società miste e la questione della giurisdizione
La questione legata alla nomina e revoca dei consiglieri di amministrazione di una società mista è stata affrontata da una interessante sentenza del T.a.r. Lazio, Latina, rubricata numero 17, del 9 gennaio 2013. I giudici laziali si sono trovati ad affrontare un caso di revoca di due consiglieri di amministrazione di una società mista detenuta in maggioranza da un Comune. La revoca era avvenuta a seguito di deliberazione del Consiglio comunale. La pronuncia in commento offre una ricostruzione sostanzialmente diversa da quella elaborata dal Consiglio di Stato in tema di classificazione di una società pubblica ed in merito alla individuazione della giurisdizione in caso contenzioso sorto a seguito della nomina o revoca dei consiglieri di amministrazione. Il punto di svolta della sentenza che, giova ricordarlo, decide una questione relativa alla revoca di alcuni consiglieri di amministrazione di una società mista, è senza dubbio rappresentato dal passaggio a tenore del quale “(…) la legge non prevede alcuna apprezzabile deviazione, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall’Ente locale, rispetto alla comune disciplina privatistica dettata per le società di capitali (…)”. In altri termini, i giudici laziali, recependo integralmente i principi fissati dalla suprema Corte di cassazione, S.U., con la sentenza del 15 aprile 2005, n. 7799, hanno confermato la natura privatistica dei moduli societari misti che, inter alia, ha indotto gli stessi giudici amministrativi, prima, ed il Legislatore, poi, ad aprire alla possibilità che tali soggetti economici partecipino a gare indette da Enti diversi da quelli costituenti e partecipanti per l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica. Tuttavia, il viatico logico-giuridico seguito dai giudici del T.a.r. Latina diverge sensibilmente dal percorso argomentativo svolto dal Consiglio di Stato. Infatti, la definizione della natura giuridica (pubblica o privata) della società mista non viene fatta discendere dalla combinazione dei quattro criteri individuati dai magistrati di Palazzo Spada (istituzione, organizzazione, impresa e scopo), così come, parimenti, la individuazione della giurisdizione competente viene fissata sulla base di elementi diversi. In sostanza, la sentenza in rassegna ‘ancora la natura privata delle società miste al fatto che “(…) le società per azioni con partecipazione pubblica non mutano la loro natura di soggetti di diritto privato solo perché lo Stato o un altro Ente pubblico ne possiede le azioni, in tutto in parte, non assumendo rilievo, per le vicende societarie, la persona dell’azionista, poiché la società resta persona giuridica privata ed opera nella sua autonomia negoziale, senza nessun collegamento con l’Ente pubblico azionista (…)”. Inoltre, “(…) la posizione del Comune, all’interno della società, è solo quella di socio di maggioranza, in ragione della “prevalenza” del capitale da esso conferito, e solo in tale veste l’Ente può influire sul funzionamento della società, avvalendosi non di poteri pubblicistici, non spettantigli, ma solamente degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi societari (…)”. Dunque, il ragionamento svolto dai giudici di prime cure non coincide con quello dei magistrati di Palazzo Spada, essendo del tutto irrilevante la partecipazione pubblica ai fini della classificazione della società ed essendo, invece, particolarmente significativa la differenza riguardo il tema della individuazione della stessa giurisdizione. Infatti, mentre per i supremi giudici amministrativi la giurisdizione amministrativa discende essenzialmente dalla combinazione dei quattro criteri innanzi citati, per i giudici laziali la nomina e la revoca dei consiglieri di amministrazione rappresenterebbero degli atti di natura esclusivamente societaria, dunque, di natura privatistica, e le correlate posizioni giuridiche incise sarebbero eminentemente di diritto privato, in quanto “ablate” dall’applicazione dei precetti contenuti nell’articolo 2449 del codice civile. Ad ulteriore conforto dell’approdo cui sono giunti i magistrati del T.a.r. Latina, viene chiarito che “(…) la revoca degli amministratori di una società che gestisce un servizio pubblico, investendo la permanenza del mandato dei suddetti amministratori, riguarda rapporti neanche indirettamente pertinenti alla gestione del servizio stesso e del tutto estranei, altresì, ad un vincolo di strumentalità con l’erogazione del servizio: in relazione a questa, infatti, è indifferente l’identità delle persone fisiche che ricoprono l’incarico di membri del Consiglio di Amministrazione (…)”. In conclusione, le due pronunce in rassegna, pur nella loro diversità metodologica, appaiono condivisibili nel ragionamento svolto. L’importanza di entrambe risiede nel fatto che l’una, quella del Consiglio di Stato, detta analiticamente i criteri in base ai quali è possibile ricavare la natura pubblica o privata di una società a capitale interamente pubblico e, per conseguenza, determinarne la giurisdizione in caso di contenzioso; l’altra, quella del T.a.r. Latina, consolida l’orientamento giurisprudenziale teso ad affermare la natura privatistica delle società miste, configurando il coinvolgimento di posizioni giuridiche di diritto soggettivo nei casi di nomina e revoca dei consiglieri di amministrazione, in quanto atti rientranti a pieno titolo nell’alveo del diritto societario, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.
4. Il d.P.R. n. 251/2012
Il d.P.R. n. 251/2012 ha introdotto nel sistema ordinamentale italiano il Regolamento di attuazione dell’articolo 3, comma 2, della legge n. 120 del 12 luglio 2011. Si tratta di un reticolo di norme che dettano i termini e le modalità di attuazione della disciplina concernente la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società, costituite in Italia, controllate ai sensi dell’articolo 2359, primo e secondo comma, del codice civile, dalle pubbliche amministrazioni indicate all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ad esclusione delle società con azioni quotate. In buona sostanza, si tratta delle disposizioni di dettaglio che condizionano la determinazione del contenuto degli statuti delle società controllate dalle pubbliche amministrazioni per effetto delle quali diventa obbligatorio che la “(…) nomina degli organi di amministrazione e di controllo, ove a composizione collegiale, sia effettuata secondo modalità tali da garantire che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei componenti di ciascun organo (…)”. Ovviamente, la percentuale innanzi indicata deve essere garantita anche in caso di sostituzione o di modifica, nel corso dei primi tre mandati, della composizione degli organi collegiali in discorso. Per il primo mandato, la quota riservata al genere meno rappresentato deve essere pari ad almeno un quinto del numero dei componenti dell’organo. Per quanto concerne l’osservanza delle disposizioni contenute nel Regolamento, l’articolo 4 attribuisce la Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità un potere di vigilanza che si sostanzia nella redazione di una relazione triennale sullo stato di applicazione della stessa. Il Regolamento, infine, prevede anche un significativo potere di intervento del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato alle pari opportunità. Infatti, nel caso in cui venga accertato il mancato rispetto dell’equilibrio tra generi, gli Organi di vigilanza diffidano la società a ripristinare l’equilibrio tra i generi entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza alla diffida, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità fissa un nuovo termine di sessanta giorni ad adempiere, con l’avvertimento che, decorso inutilmente detto termine, ove la società non provveda, i componenti dell’organo sociale interessato decadono e si provvede alla ricostituzione dell’organo nei modi e nei termini previsti dalla legge e dallo statuto. In conclusione, si tratta di un provvedimento che, in qualche modo, detta delle regole più stringenti e cogenti in materia di composizione degli organi di governance e di controllo delle società pubbliche che, tuttavia, andrebbe “razionalizzato” ed armonizzato all’interno di un corpus iuris omogeneo dettato per disciplinare l’intera materia troppo spesso, negli ultimi tempi, affidata ad interventi estemporanei e disarticolati del Legislatore.
5. Considerazioni finali
Il tema della nomina e revoca degli organi di governance delle società pubbliche rappresenta un aspetto di indubbia importanza anche in ragione delle evidenti ricadute in materia processuale. L’individuazione della giurisdizione competente, infatti, discende dalla natura pubblica o privata conferita agli atti di nomina e revoca e dalle correlate posizioni giuridiche incise. Tuttavia, pare opportuno evidenziare l’esistenza di una sorta di “doppio binario” ermeneutico a seconda che la società interessata sia una società a capitale interamente pubblico piuttosto che una società mista. Nel primo caso, il Consiglio di Stato, con la commentata sentenza n. 122/2013, ha definito in modo preciso i criteri da impiegarsi per definire la natura del modulo societario e, conseguentemente, per ricavarne correttamente la giurisdizione in caso di contenzioso. Nel secondo caso, invece, la magistratura amministrativa sembra orientata a confermare la natura privata dei moduli societari misti, originariamente affermata con la storica sentenza del T.a.r. Calabria, Reggio Calabria, n. 561/2010 e, successivamente, dallo stesso Legislatore, con l’articolo 4, comma 33, del d.l. 138/2011, di recepimento dei principi giurisprudenziali coniati dal Tribunale calabrese. In conclusione, mentre nell’ipotesi di una società interamente pubblica l’individuazione della giurisdizione competente deve essere valutata caso per caso mediante l’applicazione dei criteri fissati dal Consiglio di Stato, diversamente, qualora si tratti di una società mista, la giurisdizione competente a giudicare le questioni legate alla nomina o revoca dei consiglieri di amministrazione è normalmente devoluta al giudice ordinario, fatti salvi i casi in cui sia lo stesso Legislatore ad attribuire direttamente ad una P.A., non detentrice di quote azionarie, la scelta dell’organo gestorio. In tali ultimi casi, comprensibilmente, si fuoriesce dal diritto societario e si rientra nell’alveo dei poteri riservati alla P.A., con conseguente giurisdizione riservata al G.A.
Giova osservare che già dieci anni prima l’arresto riportato nel saggio, la stessa suprema Corte di cassazione (Cass. Sez. Un. 6.5.1995, n. 4989; 6.6.1997, n. 5085; 26.8.1998, n. 8454) aveva chiarito che “(…) la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggano le azioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera “nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico”: il rapporto tra la società e l’ente locale “è di assoluta autonomia, sicché non è consentito al Comune incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali». Invero, la legge non prevede “alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale... La posizione del Comune all’interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla “prevalenza” del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l’ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società... avvalendosi non già dei poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società (v. art. 2459 c..)”.
L’articolo 2449 del codice civile stabilisce che: “(…) Se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci ovvero componenti del consiglio di sorveglianza. Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del comma precedente possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall'assemblea. Sono salve le disposizioni delle leggi speciali (…)”. Sul tema, tra i contributi più recenti, ATELLI, La revoca degli amministratori di s.p.a. partecipate da enti locali è atto di diritto privato, in Società, 2006, 872 ss.; CHITI, Verso la fine del modello di gestione dei servizi pubblici locali tramite società miste, in Foro amm. T.A.R., 2006, 1161 ss.; CI-RENEI, Riforma delle società, legislazione speciale e ordinamento comunitario: brevi riflessioni sul-la disciplina italiana delle società per azioni a partecipazione pubblica, in Dir. comm. int., 41 ss.; CONTESSA, Servizi pubblici locali ed evoluzione giurisprudenziale: quale futuro per il modello socie-tario? in Corr. del Merito, 2005, 1329; DELLA SCALA, Le società legali pubbliche, in Dir. amm., 2005, 392 ss.; DE MURO, Brevi note su un'ipotesi di società ("autorizzata" e due volte) "speciale", in Riv. Giur. Sarda, 2007, 23 ss.; DUGATO, Il finanziamento delle società a partecipazione pubblica tra natura dell'interesse e procedimento di costituzione, in Dir. amm., 2004, 561 ss.; FONTANA – ROSSI, L'ente locale come holding pubblica e il controllo sulle società partecipate, in Nuova rass., 2006, 2426 ss.; FORLENZA, Decretata la fine della figura giuridica utilizzata spesso in maniera di-storta, in Guida al diritto, 2007, 23, 109 ss.; FRACCHIA, La costituzione delle società pubbliche e i modelli societari, in Dir. dell’economia¸ 2004, 589 ss.; LIPARI, Le società pubbliche nell'art. 13 del decreto legge n. 223/2006, in Corr. Del merito, 2007, 111; MAGNOLI, La riforma del diritto societario (in particolare sull'amministrazione delle società per azione), in Dir. dell’economia¸ 2005, 105 ss.; NAPOLITANO, Le società pubbliche fra vecchie e nuove tipologie, in Riv. Soc., 2006, 999 ss.; OCCHILUPO, L'ordinamento comunitario, gli affidamenti in house e il nuovo diritto societario, in Giur. comm., 2007, II, 63 ss.; PERICU, Gli organi sociali nelle società pubbliche, in Il nuovo diritto societario, a cura di AMBROSINI, Torino, 2005, 281 ss.; ROMAGNOLI, Le società degli enti pubblici; problemi e giurisdizioni nel tempo delle riforme, in Giur. comm., 2006, 473 ss.; RORDORF, Le società "pubbliche" nel codice civile, in So-cietà, 2005, 423 ss.; SANTONASTASO, Dalla "golden share" alla "poison pill": evoluzione o involu-zione del sistema? Da una prima lettura del 381°-384° comma dell'art. 1 l. 23 dicembre 2005, n. 266, in Giur. comm., 2006, 383 ss.; SCOCA, Il punto sulle c.d. società pubbliche, in Dir. dell’economia¸ 2005, 239 ss.; URSI, Una svolta nella gestione dei servizi pubblici locali: non c'è "casa" per le società a capitale misto, in Foro it., 2005, 135 ss.
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