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I nuovi limiti del "controllo analogo" secondo la più recente teorica del Consiglio di Stato e della Commissione europea.
di Gerardo Guzzo 7 maggio 2008
Materia: servizi pubblici / disciplina

I nuovi limiti del "controllo analogo" secondo la più recente teorica del Consiglio di Stato e della Commissione europea.

Sommario: 1. Introduzione. 2. La ricostruzione del concetto di "controllo analogo" secondo il Consiglio di Stato (la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 3 marzo 2008). 3. I chiarimenti della Commissione europea (la comunicazione n. C-2007/6661 del 5 febbraio 2008). 4. L’art. 13 del d.l 223/2006 e l’interpretazione costituzionalmente orientata del Consiglio di Stato (la sentenza della IV Sezione n. 946, del 5 marzo 2008). 5. Considerazioni finali.

1. Introduzione.

L’odierno lavoro nasce dall’esigenza di cercare di fare il punto su un tema, quello dei servizi pubblici locali, da quasi un ventennio costantemente "flagellato" da cicliche modifiche legislative ispirate non sempre a linee guida chiare e migliorative dell’assetto normativo della materia. Si cercherà, pertanto, di fornire al lettore un quadro piuttosto sintetico ma puntuale dell’evoluzione giurisprudenziale che ha interessato il settore delle public utilities per come essa appare oggi strutturata. Si cercherà, pertanto, di cogliere, attraverso l’analisi della trama argomentativa sviluppata dai giudici dell’Adunanza Plenaria nella recentissima sentenza n. 1, del 3 marzo 2008 (1), ed in quella di poco postuma, rubricata n. 946, della IV Sezione, del 5 marzo 2008 (2), quali siano gli aspetti più controversi che agitano i sonni della dottrina e quali i problemi irrisolti che generano le frequenti oscillazioni dei giudici amministrativi italiani ed europei. Gli arresti commentati, infatti, consentono di delineare le coordinate che, attualmente, ispirano le più recenti modalità applicative della disciplina dei servizi pubblici locali, attesa la centralità dei temi affrontati dall’importante decisum dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che costituisce, a giusto titolo, una sorta di "Magna Carta", di preziosa "bussola" nel difficile compito di riuscire a districarsi tra la selva di pronunce - non sempre coerenti - che si sono succedute sull’argomento sia a livello comunitario che nazionale. Del resto, la perdurante assenza di una specifica disciplina in tema di PPP e di servizi pubblici locali ha indotto, recentemente, la Commissione europea a pubblicare una comunicazione interpretativa, la n. C - 2007/6661, del 5 febbraio 2008, nel tentativo di fare chiarezza sui limiti di utilizzabilità del modello organizzativo in questione, evidenziandone, tuttavia, gli effetti positivi che esso è destinato a produrre sui servizi pubblici offerti, soprattutto in termini di efficacia ed efficienza. Al termine della trattazione, verranno dedicati alcuni cenni alla già ricordata sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato, n. 946, di qualche giorno successiva all’arresto dell’Adunanza Plenaria, dal momento che essa fornisce alcuni importanti spunti di riflessione che investono aspetti fortemente dibattuti in dottrina quali la tenuta costituzionale dell’articolo 13 del d.l. 223/2006, convertito, con modificazioni, nella legge n. 248/06 - di seguito nuovamente modificato dall’articolo 1, comma 720, della legge n. 296/06 – e il problema della nullità dei contratti "conclusi" dopo l’entrata in vigore del citato decreto legge "Bersani" (4 luglio 2006), ma aggiudicati attraverso procedure di evidenza pubblica svolte precedentemente.

2. La ricostruzione del concetto di "controllo analogo" secondo il Consiglio di Stato (la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 3 marzo 2008).

L’elemento di maggiore complessità affrontato dai giudici amministrativi nella difficile opera chiarificatrice dei concetti cardine degli affidamenti in house, cioè del "controllo analogo" e della "parte più importante dell’attività", è indubbiamente il primo. La oggettiva difficoltà di definire in modo organico la nozione di "controllo analogo" ha recentemente stimolato l’ennesimo intervento "additivo" dei giudici amministrativi. L’occasione è stata fornita dalla decisione della V Sezione del Consiglio di Stato, rubricata n. 5587, risalente allo scorso 23 ottobre 2007, con cui la causa sottoposta allo scrutinio magistrati di Palazzo Spada veniva rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria (3). I giudici del supremo consesso amministrativo sono stati chiamati dalla Sezione rimettente a chiarire alcuni temi spinosi in tema di in house providing e di società miste. In primo luogo, i magistrati del massimo Organo di Giustizia Amministrativa si sono dovuti pronunciare su quali fossero le condizioni richieste dagli interventi della Corte di giustizia e dalle successive posizioni assunte dalla giurisprudenza nazionale per potere considerare legittimo un affidamento diretto; in secondo luogo, è stato loro chiesto di fissare il concetto di prevalenza dell’attività svolta in favore dell’amministrazione affidante dal modulo societario affidatario; in terzo luogo, sono stati "invitati" ad individuare i contorni essenziali della nozione di "controllo analogo" ed, infine, a rendere noto se la ricostruzione operata dalla Sezione II del Consiglio di Stato, con il parere n. 456/2007, fosse condivisibile nella parte in cui ha ritenuto scarsamente compatibile con il diritto comunitario l’affidamento diretto del servizio a moduli societari misti, soprattutto quelli "aperti" (4), ancorché il partner privato fosse stato scelto all’esito di una procedura di evidenza pubblica. Si tratta, dunque, di quegli aspetti che caratterizzano l’intera disciplina degli affidamenti in house e delle società miste; temi che hanno determinato non poche oscillazioni giurisprudenziali sia a livello comunitario che nazionale. Proprio in materia di "controllo analogo", i giudici di Palazzo Spada, dopo aver diligentemente elencato tutti gli arresti della Corte di giustizia intervenuti sull’argomento, a cominciare dalla sentenza "Stadt Halle" dell’11 gennaio 2005, hanno confermato che non può sussistere il requisito in parola in quei casi in cui si dia vita ad un modulo societario misto, ancorché a partecipazione privata estremamente ridotta. Qualora ricorrano tali condizioni, hanno chiarito i giudici, non sarebbe consentito l’affidamento diretto del servizio in quanto il soggetto pubblico, titolare del servizio, non sarebbe in grado di esercitare un controllo penetrante sul modulo affidatario, assimilabile a quello esercitato sui propri servizi. Perché l’affidamento diretto del servizio possa aver luogo occorre, pertanto, la totale partecipazione del soggetto pubblico nella compagine societaria chiamata a garantire il servizio, la quale assume le sembianze di una sorta di longa manus dell’affidante. In estrema sintesi, secondo la ultima ricostruzione del Consiglio di Stato, soltanto se ricorrono siffatte stringenti condizioni è possibile ipotizzare un "controllo analogo" dell’ente affidante nel senso coniato dalla giurisprudenza comunitaria. Gli stessi magistrati amministrativi, tuttavia, hanno avuto cura di chiarire che la totale partecipazione pubblica, pur ergendosi a condizione principe, potrebbe costituire elemento non sufficiente a garantire all’ente locale un "controllo analogo" sovrapponibile a quello esercitato sui propri servizi. In sostanza, il supremo organo di giustizia amministrativa, mutuando il proprio assunto dalle più recenti tappe della elaborazione giurisprudenziale comunitaria (5), ha evidenziato come, al fine di rendere effettivo il requisito in esame, occorra un quid pluris identificabile in alcuni penetranti strumenti di controllo derivati dal diritto civile. Più nel dettaglio. I giudici di Palazzo Spada, innanzitutto, hanno considerato inderogabile il principio dell’incedibilità del capitale sociale - anche limitata a quote minime - a beneficio di altri soggetti privati. In sostanza, l’apertura del pacchetto azionario a terzi svelerebbe la vocazione commerciale del modulo societario che mal si concilierebbe con la possibilità di esercitare un reale controllo sul soggetto affidatario del servizio. In secondo luogo, i giudici amministrativi hanno stigmatizzato la necessità che il CDA della società cui viene affidato il servizio sia svuotato di significativi poteri gestionali al punto da apparire come una specie di "ostaggio" in mano agli organi di governance dell’ente affidante cui, per contra, devono essere riconosciuti poteri più incisivi di quelli normalmente riconosciuti dal diritto societario alla maggioranza sociale. In terzo luogo, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto essenziale che il soggetto affidatario sia immune da qualsiasi vocazione commerciale individuando, a titolo esemplificativo, alcuni elementi idonei a conferirla quali: a) l’ampliamento dell’oggetto sociale; b) l’apertura obbligatoria, a breve termine, della società ad altri capitali; c) la possibilità che l’affidataria svolga la propria attività su tutto il territorio nazionale ed all’estero. In quarto luogo, il Consiglio di Stato ha ritenuto insuperabile la circostanza che le decisioni più importanti che il soggetto affidatario è chiamato ad assumere siano preventivamente sottoposte all’esame e all’approvazione dell’ente pubblico. A ben vedere, tutte le condizioni sopra elencate rappresentano il prodotto di un’attenta e meticolosa elaborazione giurisprudenziale compiuta dalle diverse Sezioni dello stesso Consiglio di Stato nei mesi precedenti (6). In estrema sintesi, l’Adunanza Plenaria ha ribadito il principio cardine, già fissato a suo tempo dalla giurisprudenza comunitaria(7), a tenore del quale il controllo societario totalitario esercitato dal soggetto pubblico sull’affidatario non costituisce condizione sufficiente per giustificare l’affidamento diretto del servizio se ad esso non si associa un’influenza dominante dell’ente pubblico sia sulle decisioni strategiche che sulle scelte più importanti assunte dal gestore del servizio. Del resto, il fenomeno dell’in house si inquadra all’interno del più generale fenomeno dell’autoproduzione, cioè della capacità della P.A. di trovare al proprio interno le risorse e le capacità gestionali necessarie senza dover ricorrere al mercato mediante l’esperimento di procedure ad evidenza pubblica. I giudici di Palazzo Spada, infine, confermando la fluidità del concetto di "controllo analogo", hanno cercato di aggiungere ulteriori tasselli, utili a completare la difficile opera di strutturazione del contenuto di tale elemento. Richiamando una puntuale decisione del CGA della Regione Sicilia, rubricata n. 719 e risalente allo scorso 4 settembre 2007, il Consiglio di Stato ha evidenziato come il pericolo maggiore che si annida all’interno della condizione in parola vada ricercato nella astrattezza ed ampiezza longitudinale del significato della stessa; circostanza, questa, idonea a rappresentarne, talvolta, una ricorrenza meramente formale e niente affatto concreta del "controllo analogo". In altri termini, secondo i giudici dell’Adunanza Plenaria, il soggetto affidante sarebbe in grado di esercitare un reale controllo sull’affidatario del servizio, assimilabile a quello esercitato sui propri servizi, soltanto qualora l’attività pubblica, per così dire di "monitoraggio", investa: 1) il bilancio; 2) la qualità dell’amministrazione; 3) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti e determini, 4), la totale dipendenza del soggetto affidatario diretto del servizio dall’ente pubblico per quanto concerne le strategie e le politiche aziendali (8). Passando all’esame della controversa questione legata all’affidamento diretto del servizio ad un modulo societario misto, il cui partner privato sia stato selezionato all’esito di una procedura di evidenza pubblica, l’Adunanza Plenaria ha avuto modo di chiarire l’assoluta condivisibilità di quanto già sostenuto dalla II Sezione nel parere n. 456/2007. In particolare, la Sezione II, con il segnalato atto consultivo, dopo aver riconosciuto la legittimità dell’affidamento diretto in favore di un soggetto economico misto in tutti quei casi in cui sussistano giustificati motivi per non ricorrere ad un affidamento esterno integrale, ha indicato le due garanzie che invariabilmente devono essere osservate perché si possa procedere all’affidamento in questione: a) che la gara finalizzata alla scelta del partner privato sia sostanzialmente equiparabile a quella per l’affidamento del servizio, con conseguente unicità della procedura di scelta del partner "operativo" e dell’affidamento del servizio; b) che la procedura di selezione del socio privato, comprensiva anche del contestuale affidamento del servizio, venga rinnovata al momento "della scadenza del periodo di affidamento", al fine di evitare che la posizione di quest’ultimo si "stabilizzi" all’interno del modulo societario misto. A tal proposito, la Sezione ha auspicato che il bando di gara di selezione del socio privato preveda anche le modalità di uscita del medesimo in caso di futura mancata aggiudicazione allo stesso del servizio. L’Adunanza Plenaria, facendo proprie tutte le argomentazioni svolte dalla II Sezione del Consiglio di Stato ha, in un certo senso, inteso ammonire il legislatore avvertendolo che l’assenza di indicazioni precise da parte della normativa e della stessa giurisprudenza comunitaria non rendono possibile l’elaborazione di una soluzione univoca o un modello definitivo, essendo concreto il rischio di formulare delle interpretazioni praeter legem non condivise dalla Corte di giustizia. Un’ultima notazione va fatta in riferimento alla già affrontata questione della incompatibilità della vocazione commerciale della società affidataria con l’esistenza del requisito del "controllo analogo". Ebbene, il Supremo Consesso Amministrativo, confermando il principio codificato dalla Corte di giustizia Ue con la sentenza del 10 novembre 2005, meglio conosciuta come "Modling", ha indirettamente riconosciuto la possibilità di un affidamento diretto del servizio e, dunque, la sussistenza del requisito del "controllo analogo", qualora lo statuto societario preveda la mera possibilità e non l’obbligatorietà dell’apertura del capitale sociale ad altri capitali. Si tratta di una presa di posizione che, tenuto conto della importanza della sede in cui è stata assunta (AP), conferma il sostanziale favor dei giudici nazionali nei confronti dell’affidamento diretto del servizio a beneficio di società interamente pubbliche almeno fino a che il soggetto aggiudicatario non abbia indossato un habitus commerciale con la effettiva apertura del proprio capitale sociale a terzi (9). In conclusione, dalla lettura della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 3 marzo 2008, la sensazione che si ricava è che la principale preoccupazione dei magistrati amministrativi sia quella di evitare, nel silenzio del legislatore, che il concetto di "controllo analogo" si dissolva in formule vaghe, tutto sommato sterili ed inutili petizioni di principio, alcune volte del tutto sganciate dai tradizionali e consolidati meccanismi di governance che caratterizzano le dinamiche societarie.

3. I chiarimenti della Commissione europea (la comunicazione n. C-2007/6661 del 5 febbraio 2008).

La recentissima comunicazione interpretativa della Commissione europea, rubricata C – 2007/6661, risalente al 5 febbraio 2008, muovendo dal vuoto normativo venutosi a creare in materia di applicazione del diritto comunitario in tema di appalti e concessioni alle società miste pubblico – privato, fornisce alcuni utili chiarimenti in ordine alle modalità di impiego di tali strumenti organizzativi. Il primo principio enunciato dal documento in parola consiste nella circostanza che il soggetto privato selezionato per l’affidamento di un appalto o di una concessione può vedersi aggiudicato soltanto il contratto indicato nel bando di gara. Eventuali future modifiche degli elementi essenziali dello stesso articolato negoziale devono, comunque, essere già annunciate nel primitivo avviso di ricerca. La ratio della comunicazione è quella di incentivare l’utilizzo di moduli societari che facciano sempre più tesoro delle esperienze di settore maturate da soggetti economici privati allo scopo dichiarato di rendere più efficaci ed efficienti i servizi offerti alla collettività. Tuttavia, come cennato in precedenza, proprio l’assenza di un adeguato reticolo di norme capace di disciplinare organicamente la materia ha determinato la necessità nelle autorità europee di puntualizzare alcuni aspetti spinosi. La Commissione, dunque, si è affrettata a ricordare che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, anche una irrisoria partecipazione privata al capitale sociale di un soggetto economico, in magna parte partecipato dalla P.A., costituisce elemento sufficiente ad impedire l’affidamento diretto del servizio e che quel modulo societario comunque è tenuto all’osservanza delle direttive sugli appalti. Altra indicazione particolarmente significativa è data dal "suggerimento" fornito al legislatore, poi fatto proprio dalla stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n.1/08, consistente nell’auspicio che si riesca a concentrare in un’unica gara la scelta del partner "operativo" e l’affidamento del servizio alla compagine societaria mista all’uopo costituita. L’esigenza che attraversa la scelta "consigliata" dalla Commissione va nella direzione di una accelerazione dei tempi di operatività della soluzione gestionale e per tale motivo si ritiene che possa rappresentare un adeguato strumento di implementazione della selectio il ricorso all’istituto del dialogo competitivo. Purtroppo, la nota della Commissione non chiarisce alcunché in merito alla controversa questione della possibilità per le società miste di svolgere la propria attività al di fuori dell’ambito territoriale dell’ente partecipante ed in questo senso essa si atteggia a vera e propria occasione perduta in ragione del fatto che la giurisprudenza comunitaria non ha mai posto un divieto assoluto in merito a tale chance limitandosi a parlare genericamente di opportunità di circoscrivere lo spettro d’azione dell’affidataria all’interno dei confini territoriali del soggetto affidante, dovendosi valutare caso per caso ogni singola esperienza (10). In conclusione, il documento, pur affrontando alcuni aspetti controversi relativi ai PPP, lascia irrisolte alcune cruciali questioni che spetterà alla giurisprudenza comunitaria ed allo stesso legislatore europeo rispettivamente dirimere e regolamentare.

4. L’art. 13 del d.l 223/2006 e l’interpretazione costituzionalmente orientata del Consiglio di Stato (la sentenza della IV Sezione n. 946, del 5 marzo 2008).

La sentenza della IV Sezione Consiglio di Stato, rubricata n. 946, del 5 marzo 2008, in ragione delle tematiche trattate, offre all’interprete diversi spunti di riflessione. In primo luogo, essa risulta essere il primo arresto del Supremo Organo di Giustizia Amministrativa successivo alla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 3 marzo 2008. In secondo luogo, affronta alcuni aspetti controversi legati all’ermeneusi dell’articolo 13 del d.l. n. 223/2006, convertito con modifiche nella legge n. 248/2006. La prima questione posta sul tappeto investe il regime intertemporale della norma in parola con specifico riferimento al problema della nullità dei contratti conclusi dopo la data di entrata in vigore della normativa (4 luglio 2006). La Sezione, con un chiaro inciso, eludendo il problema della retroattività della novella introdotta dalla legge n. 296/2006 (Finanziaria 2007) all’articolo 13, comma 4, della legge n. 248/06 (11), ha stabilito che la nullità dei contratti investe soltanto quei rapporti che non sono stati regolamentati mediante regolare stipula del contratto di appalto dopo l’entrata a regime della norma. Ma la questione di gran lunga più interessante affrontata dal decisum in commento è senza dubbio quella che riguarda la tenuta costituzionale dell’articolo 13 del d.l. 223/06 e s. m. e int. nella parte in cui obbliga le società a capitale interamente pubblico o miste chiamate a produrre beni e servizi strumentali alle attività degli enti che le partecipano o costituiscono ad operare esclusivamente con questi ultimi senza poter svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati (12). A parere della Sezione non esisterebbe alcuna violazione dell’articolo 41 della Carta in quanto trattasi di norma chiaramente dettata allo scopo di preservare il mercato da alterazioni della concorrenza e fenomeni distorsivi delle regole della concorrenza. Più nel dettaglio. Il viatico logico giuridico seguito dai magistrati di Palazzo Spada muove dall’assunto che la norma de qua è stata concepita non per limitare la concorrenza quanto piuttosto per tutelarla in modo netto, sterilizzando il mercato da ingiustificate posizioni di privilegio, in particolare da quelle attribuibili alle società "pubbliche", a detrimento dei diritti degli operatori privati. La trama argomentativa, tuttavia, per quanto persuasiva, presta il fianco ad alcune osservazioni. In prima battuta, è la stessa Corte di giustizia, con la nota sentenza dell’11 maggio 2006 (C-340/04), a non considerare l’attività extra moenia di un modulo societario misto o interamente pubblico elemento automaticamente capace di introdurre fattori destabilizzanti il libero mercato e, dunque, in grado di alterare il libero gioco della concorrenza. I giudici lussemburghesi si sono limitati ad affermare, in modo generico, che non meglio precisate ragioni di opportunità suggerirebbero che l’ambito operativo di tali soggetti economici fosse circoscritto al solo territorio dell’ente di riferimento, con conseguente valutazione caso per caso del fenomeno. Questo, in altri termini, significa che il diritto comunitario non ha posto nessuna preclusione alla possibilità che società miste o interamente pubbliche possano operare fuori dai confini dell’ente locale che le ha costituite o partecipate e, pertanto, una norma che interpreti restrittivamente ciò che non è mai stato apertis verbis codificato dai giudici europei finisce per mal raccordarsi, prima ancora che con l’articolo 41 della Costituzione, proprio con il diritto vivente dell’Unione. Se, poi, il criterio ermeneutico adottato viene applicato alla scelta operata dal legislatore con l’articolo 13 della legge n. 248/06, e s. m. e int., ne discende che il precetto in questione non solo appare difficilmente sovrapponibile al dettato comunitario, da cui, pure, dovrebbe mutuare i principi ispiratori, ma risulta vieppiù sganciato dall’articolo 41 della Costituzione che codifica, al comma 1, la libertà di iniziativa economica privata, purché non si svolga in contrasto con l’utilità sociale (comma 2) che costituisce il DNA delle società "pubbliche" costituite o partecipate da enti locali per svolgere servizi strumentali all’attività degli stessi(13).

5. Considerazioni finali.

Non vi è dubbio che le pronunce del Consiglio di Stato, affrontate nel presente lavoro, hanno confermato lo stato di incertezza che tutt’ora avvolge l’intera disciplina dei servizi pubblici locali. In particolare, l’Adunanza Plenaria, con un inciso particolarmente significativo, ha evidenziato come al momento non sia elaborabile una soluzione univoca o un modello definitivo di società mista a causa dell’assenza di precise indicazioni da parte del legislatore e della stessa giurisprudenza comunitaria. Questo, in altri termini, significa che, molto probabilmente, dovremo attenderci ulteriori interventi chiarificatori da parte delle autorità europee del medesimo tenore delle varie comunicazioni che si sono succedute nel tempo. Sarebbe auspicabile, tuttavia, che la stessa Corte di giustizia seguisse un trend decisionale più lineare e meno confuso evitando, di guisa, proprio l’intervento correttivo degli organi comunitari che troppe volte sono apparsi reticenti su temi spinosi quali lo svolgimento dell’attività d’impresa per i soggetti affidatari del servizio al di fuori degli angusti confini degli enti che vi hanno dato vita. Si tratta di un problema di non poco conto che investe prerogative che trovano cittadinanza nella Carta costituzionale e che proprio recentemente è stato sollevato innanzi al Consiglio di Stato, chiamato a decidere sulla opportunità di rimettere alla Corte Costituzionale la questione di compatibilità dell’articolo 13 del d.l. 223/06, convertito con modifiche nella legge n. 248, con l’articolo 41 della Costituzione. La stessa regolamentazione dei meccanismi di selezione del socio "operativo", con contestuale affidamento del servizio ad un modulo societario misto, magari utilizzando l’istituto del dialogo competitivo, costituisce un’autentica priorità in quanto consentirebbe di scongiurare il triste fenomeno della scelta di partner legati ad una società "generalista", cioè ad un soggetto economico con un oggetto sociale dai contorni non ben definiti, almeno per quanto riguarda compiti e funzioni del privato. Inoltre, la codificazione del sistema di scelta del socio privato, con contestuale affidamento a termine del servizio, soddisfarebbe pienamente il principio di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa e, più in generale, quello di buon andamento della res publica con effetti benefici per la collettività in termini di fruizione delle prestazioni erogate dai gestori. In conclusione, sia le Autorità comunitarie (vd. comunicazione n. 2007/6661) che gli organi di giustizia amministrativa concordano nella necessità di dover porre mano ,in tempi rapidi, ad una organica disciplina della materia degli affidamenti in house con questo riconoscendo i rischi che si annidano nell’attuale elaborazione giurisprudenziale in termini di certezza del diritto.

*Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Unical e partner dello studio legale "Cristofano, Guzzo & Associates" (guzzo@cgaalaw.com).

Note:

(1) Pubblicata su questa Rivista il 3 marzo 2008;

(2)Pubblicata su questa Rivista il 5 marzo 2008;

(3) In particolare, la V Sezione ha demandato all’Adunanza Plenaria di stabilire in tema di "controllo analogo" di valutare "(…) la necessità, o meno, di fissare ulteriormente i contorni essenziali della nozione di "controllo analogo", benché i tratti principali di tale requisito siano già emersi con sufficiente chiarezza nella giurisprudenza comunitaria, secondo indirizzi che dovrebbe condurre a negarne la concreta sussistenza nel presente caso (…)".

(4) Sono considerate società miste "aperte" quei moduli societari caratterizzati dalla presenza di partners privati i quali, ancorché selezionati con gara, non vengono scelti per finalità predefinite atteggiandosi, pertanto, a soci di una società "generalista". Ne consegue, secondo i giudici della II Sezione del Consiglio di Stato, che appare poco opportuno affidare direttamente un servizio - non ancora identificato al momento della scelta del partner privato - ad un soggetto economico misto ancorché la componente privata sia stata regolarmente selezionata nel rispetto delle regole dell’evidenza pubblica.

(5) In particolare, il Consiglio di Stato ha elencato le sentenze della Corte di giustizia dell’11 maggio 2006, del 10 novembre 2005 e del 13 ottobre 2005. Per un più approfondito esame delle stesse ci si consenta un rinvio a G. Guzzo: "Servizi pubblici locali: la giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house", in www.appaltiecontratti.it , del 3 luglio 2006"; G. Guzzo: Affidamenti in house. Corte di Giustizia e Consiglio di Stato: Convergenze parallele. Extraterritorialità, regime transitorio e concorrenza delle società miste secondo la più recente teorica del giudice amministrativo e del legislatore italiano", in www.dirittodeiservizipubblici.it , del 2 agosto 2006.

(6) Nello specifico, i supremi giudici amministrativi, facendo espresso riferimento a puntuali arresti dello stesso Consiglio di Stato, individuano le seguenti condizioni indispensabili perché possa configurarsi il controllo analogo: "(…) a) lo statuto della società non deve consentire che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati (Cons. Stato, sez. V, 30agosto2006, n.5072);
b) il consiglio di amministrazione della società non deve avere rilevanti poteri gestionali e all’ente pubblico controllante deve essere consentito esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale (Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514);
c) l’impresa non deve avere acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo dell’ente pubblico e che risulterebbe, tra l’altro: dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero (C. giust. CE: 10 novembre 2005, C-29/04, Mödling o Commissione c. Austria; 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen);
d) le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (Cons. Stato, sez. V, 8 gennaio 2007, n. 5)". Per una più approfondita disamina delle sentenze in questione si rimanda a G. Guzzo: " Consiglio di Stato e giurisprudenza comunitaria: prove tecniche di intesa in tema di "controllo analogo""; in www.lexitalia.it; n. 5/2007.
(7) In questo senso si è già espressa la Corte di giustizia CE con la sentenza dell’11 maggio 2006, C-340/04. Cfr. G.Guzzo: " Affidamenti in house. Corte di giustizia e Consiglio di Stato:convergenze parallele"; op. cit.; in www.dirittodeiservizipubblici.it.

(8) Più nel dettaglio, il CGA per la Regione Sicilia, con la sentenza n. 719 del 4 settembre 2007, ha avuto modo di precisare ulteriormente che "(…) Il potere di nominare il presidente del consiglio di amministrazione, i membri dell'intero consiglio e il collegio sindacale non implica necessariamente il completo controllo ed indirizzo delle politiche aziendali. La giurisprudenza (vd. CdS, sez. V, 22 aprile 2004, n. 2316) richiede ai fini del controllo analogo la sussistenza di una struttura interna all'ente, ad hoc, che costituisca l'interfaccia con l'impresa partecipata e che eserciti i poteri "di direzione, coordinamento e supervisione dell'attività del soggetto partecipato, e che riguarda l'insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo".

(9) Cfr. sul punto G.Guzzo: " Consiglio di Stato e giurisprudenza comunitaria: prove tecniche di intesa in tema di controllo analogo"; in www.lexitalia.it, n. 5/2007;

(10) Cfr. Corte di giustizia, sentenza 11 maggio 2006, C – 340/04;

(11) L’attuale lettera dell’articolo 13, comma 4, per oggetto dell’art. 1, comma 720 della legge n. 296/06, così recita:" 4. I contratti conclusi, dopo la data di entrata in vigore del presente decreto, in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 sono nulli. Restano validi, fatte salve le prescrizioni di cui al comma 3, i contratti conclusi dopo la data di entrata in vigore del presente decreto, ma in esito a procedure di aggiudicazione bandite (in luogo di "perfezionate") prima della predetta data.

(12) L’articolo 13 del d.l. 223/06 come convertito nella legge n. 248/06 e s. m. e integrazioni stabilisce: 1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parita' degli operatori, le societa', a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attivita' di tali enti, in funzione della loro attivita', con esclusione dei servizi pubblici locali, nonche', nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, ne' in affidamento diretto ne' con gara, e non possono partecipare ad altre societa' o enti. Le societa' che svolgono l'attivita' di intermediazione finanziaria prevista dal testo unico di cui al decreto legislativo 1°settembre 1993, n. 385, sono escluse dal divieto di partecipazione ad altre societa' od enti.

2. Le societa' di cui al comma 1 sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1.

3. Al fine di assicurare l'effettivita' delle precedenti disposizioni, le societa' di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto le attivita' non consentite. A tale fine possono cedere, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, le attivita' non consentite a terzi ovvero scorporarle, anche costituendo una separata societa' da collocare sul mercato, secondo le procedure del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, entro ulteriori diciotto mesi. I contratti relativi alle attivita' non cedute o scorporate ai sensi del periodo precedente perdono efficacia alla scadenza del termine indicato nel primo periodo del presente comma)

4. I contratti conclusi, dopo la data di entrata in vigore del presente decreto, in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 sono nulli. Restano validi, fatte salve le prescrizioni di cui al comma 3, i contratti conclusi dopo la data di entrata in vigore del presente decreto, ma in esito a procedure di aggiudicazione bandite prima della predetta data.

(13) Sul tema cfr. G. Guzzo: Affidamenti in house: dl "Bersani" e ddl di delega n. 722 del 4 luglio 2006 tra Costituzione e giurisprudenza comunitaria", in www.appaltiecontratti.it, del 6/9/2006.

 

 

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