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Le società a partecipazione pubblica e la loro appartenenza a modelli e regimi giuridici diversificati. Nota critica a Consiglio di Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080.
di Stefano Colombari 16 settembre 2008
Materia: società / partecipazione pubblica

Le società a partecipazione pubblica e la loro appartenenza a modelli e regimi giuridici diversificati. Nota critica a Consiglio di Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080.

Sommario: 1. Evoluzione dell’ordinamento e riflessi sulle società a partecipazione pubblica. 2. Le imprese pubbliche che non operano secondo il modello in house providing hanno gli obblighi ed i diritti del mercato. 3. Organizzazione della pubblica amministrazione tra interesse pubblico, interesse privato e principio di concorrenza. 4. Nuove norme in materia di servizi pubblici locali e servizi all’amministrazione: l’impatto sulla conformazione delle imprese pubbliche. 5. Realtà nuove e tesi antiche. 6. Il bandolo della matassa: attività amministrativa in forma privatistica vs. attività d’impresa degli enti pubblici. Distinzione concettuale, separazione organizzativa e regimi differenziati. 7. Iniziativa economica e libera concorrenza: erroneità delle tesi che vorrebbero escludere dal mercato le società a partecipazione pubblica (quando operano in regime di concorrenza).

1. Evoluzione dell’ordinamento e riflessi sulle società a partecipazione pubblica.

La distinzione tra gestione diretta ed esternalizzazione – ovvero affidamento a terzi – dell’attività della Pubblica Amministrazione rappresenta un approdo ricostruttivo da lungo tempo consolidato nell’ordinamento interno. Già il r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578 ("Approvazione del t.u. della legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle Province") menzionava, partitamente, «l’impianto e l’esercizio diretto dei pubblici servizi» (art. 1, comma 1) da parte degli enti locali rispetto alla scelta degli stessi di «concedere all’industria privata qualcuno dei servizi indicati all’art. 1» (art. 26, comma 1). L’istituto della concessione a terzi fu poi oggetto di più approfondita disciplina a seguito dell’entrata in vigore degli artt. 265-267 del r.d. 14 settembre 1931, n. 1175 ("Testo unico della finanza locale").

A commento delle disposizioni sopra ricordate si è in effetti osservato che «è altrettanto ammissibile, sul piano teorico, e si risolve in una valutazione di opportunità e convenienza (sia pure sotto il profilo dell’interesse pubblico che deve muovere l’ente pubblico), che la gestione del servizio venga affidata, attraverso un rapporto di concessione, ad una impresa privata, operante ovviamente ai fini del proprio profitto, o venga svolta direttamente dall’ente pubblico, per mezzo di una propria impresa pubblica» (1).

Anche la giurisprudenza amministrativa ha, nel passato, lucidamente evidenziato la differenza – e la perfetta equivalenza – delle due situazioni (gestione diretta ed esternalizzazione). Emblematico è quanto affermato da Cons. Stato, Sez. V, 23 aprile 1998, n. 477 (2), vale a dire che: «L’organizzazione autonoma delle pubbliche amministrazioni rappresenta un modello distinto ed alternativo rispetto all’accesso al mercato»; «in sostanza si tratta dell’estensione alla pubblica amministrazione della libertà di autoproduzione» (3).

Nel più recente periodo, il tema è stato compiutamente ripreso dalla Corte di giustizia europea, la quale – in maniera singolarmente corrispondente a quanto già statuito dal giudice amministrativo nazionale – ha rilevato come un’Autorità pubblica «ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi» (4). La sopra riferita posizione della Corte di giustizia, condivisa dalle altre istituzioni europee (5), fa ritenere che l’ordinamento comunitario tuttora preveda la piena alternatività tra autoproduzione ed esternalizzazione dell’attività da parte della pubblica amministrazione (6).

Siffatta alternatività, di cui davano atto – con riferimento alla normativa all’epoca vigente (7) – anche la dottrina e la giurisprudenza del Consiglio di Stato sopra richiamate, nel più recente periodo risulta invece scalfita nell’ordinamento interno; e ciò attraverso l’introduzione di sempre più numerose disposizioni normative tendenti ad individuare l’esternalizzazione quale soluzione organizzativa preferibile quando non l’unica possibile. Precisamente, il suddetto principio dell’alternatività ha incontrato deroghe soprattutto a partire dal d.lgs. 19 novembre 1997, n. 422 e dal d.lgs. 23 maggio 2000, n. 164, i quali individuano la gara quale unico sistema di affidamento, rispettivamente, del servizio pubblico di trasporto locale e del servizio pubblico di distribuzione del gas naturale. Successivamente, analoga soluzione è stata contemplata per quanto concerne la gestione integrata dei rifiuti urbani (così l’art. 202 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152).

A prescindere dalla coerenza di siffatte scelte legislative rispetto all’ordinamento europeo ed anche costituzionale (8), occorre peraltro prendere atto che l’art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, rappresenta il superamento del principio in discorso anche a livello di normativa generale e non più solo settoriale: infatti, abbandonando la previsione di tre forme organizzative equivalenti – affidamento con gara, a società mista ovvero in house – finora contenuta nell’art. 113, comma 5 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (peraltro espressamente reputato dalla Corte di giustizia rispettoso del diritto europeo) (9), le nuove norme individuano la procedura competitiva ad evidenza pubblica quale opzione ordinaria per l’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, relegando gli altri moduli organizzativi a soluzioni residuali (così i commi 2, 3 e 4).

Incidentalmente si rileva che il sopra detto mutamento di prospettiva operato dal legislatore nazionale si riflette anche sugli elementi del provvedimento amministrativo: infatti, mentre – nella vigenza del principio dell’equivalenza delle forme di gestione – l’ente locale era tenuto ad effettuare una comparazione tra tutti i modelli in astratto ammessi dall’ordinamento al fine di optare per quello che, nel caso concreto, offrisse maggiori garanzie di economicità ed efficienza (10), in base all’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 viene richiesta un’approfondita motivazione unicamente laddove il Comune si orienti per un modulo organizzativo rispettoso dei principi della disciplina comunitaria e tuttavia differente dalla procedura competitiva ad evidenza pubblica (così ancora i citt. commi 2, 3 e 4).

2. Le imprese pubbliche che non operano secondo il modello in house providing hanno gli obblighi ed i diritti del mercato.

Il legislatore interno, nell’orientarsi nel senso dell’obbligatoria o comunque preferenziale esternalizzazione, tramite gara, delle attività da parte della pubblica amministrazione, ha peraltro dovuto fare i conti con la situazione di fatto. Come è noto, essa si caratterizza per la presenza, nel settore dei servizi pubblici locali ed anche dei servizi resi all’amministrazione (11), di una pluralità di operatori, molti dei quali vedono la partecipazione, in vario grado, di enti locali nel relativo capitale; ed inoltre per la sussistenza di rapporti non di rado fiduciari tra amministrazioni e soggetti privati, instaurati sulla scorta dell’allora vigente art. 267 del r.d. n. 1175 del 1931 (il quale ammetteva il ricorso alla trattativa privata in presenza di «circostanze speciali in rapporto alla natura dei servizi»), abrogato solo con l’art. 35, comma 13 della legge 28 dicembre 2001, n. 448.

Pertanto, mentre sospinge anche le imprese pubbliche verso la competizione di mercato – perché, come si è anticipato, vieta o restringe sensibilmente la facoltà dell’autoproduzione da parte degli enti locali – il legislatore nazionale avverte in maniera pressante l’esigenza di garantire che, in quell’ambiente, tutti gli operatori siano posti sullo stesso piano e siano loro concesse le medesime opportunità.

Tale esigenza viene soddisfatta anzitutto attraverso le norme che, in vario grado, precludono l’accesso alle gare di prossima celebrazione (e talora anche ai rapporti con soggetti privati) alle aziende – indifferentemente pubbliche o private – beneficiarie di affidamenti diretti di servizi pubblici locali: così l’art. 18, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 422 del 1997; l’art. 14, comma 5 del d.lgs. n. 164 del 2000; l’art. 113, comma 6 in relazione al comma 15-quater del d.lgs. n. 267 del 2000 ed oggi altresì l’art. 23-bis, comma 9 del d.l. n. 112 del 2008. L’obiettivo è di evitare che l’acquisizione di concessioni al di fuori di un sistema competitivo attribuisca a talune imprese benefici economici da spendere poi sul mercato alterando le condizioni di equilibrio rispetto agli altri operatori del settore. Si è, infatti, osservato che laddove un’impresa gode di un "minimo garantito" – affidamenti diretti – «Gli ulteriori contratti, sostanzialmente, diventano più che marginali e permettono o la realizzazione di un profitto maggiore rispetto all’ordinaria economia aziendale del settore, ovvero di offrire sul mercato prezzi innaturalmente più bassi» (12).

Alla medesima esigenza sopra ricordata (assicurare la par condicio tra le imprese in concorrenza) sono inoltre preordinate le disposizioni volte a confinare l’azione delle società a partecipazione pubblica, che siano enti strumentali delle Amministrazioni socie, unicamente al rapporto con queste ultime: si tratta, a ben vedere, della specificazione, con riferimento a fattispecie più di dettaglio, delle norme generali poco sopra ricordate in tema di preclusione all’accesso alle gare (ovvero ai rapporti con i privati) per quanto concerne i soggetti titolari di affidamenti diretti.

A questo proposito, si rammenta anzitutto l’art. 113, comma 5, lett. c) del d.lgs. n. 267 del 2000, in base al quale la società c.d. in house providing deve realizzare «la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano», disposizione di cui peraltro la giurisprudenza ha sempre fornito, correttamente sul piano dei principi, un’interpretazione alquanto restrittiva (13). A seguire, viene in rilievo l’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 conv. dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (14), che, all’espresso «fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori», vincola «le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza» ad «operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti», precisando che la norma restrittiva non può essere aggirata nemmeno attraverso la partecipazione ad altre società o enti (15).

3. Organizzazione della pubblica amministrazione tra interesse pubblico, interesse privato e principio di concorrenza.

Si sottolinea che le norme richiamate nel precedente paragrafo sono espressione di un punto di vista del tutto opposto rispetto ai pronunciamenti della giurisprudenza, secondo la quale alle società a partecipazione pubblica è precluso lo svolgimento di attività presso enti terzi (non soci) «qualora vi sia una distrazione di risorse e mezzi che sia effettivamente apprezzabile e che realisticamente possa portare pregiudizio alla collettività di riferimento» (16): si tratta del c.d. limite funzionale all’attività extraterritoriale delle società appartenenti a Comuni e Province (17).

In entrambi i casi il risultato è quello di circoscrivere l’ambito di operatività delle società a partecipazione pubblica che siano enti strumentali delle amministrazioni socie. Tuttavia, le odierne norme di legge sono espressamente formulate allo scopo di tutela della concorrenza ossia per evitare che il mercato possa risultare alterato dall’intrusione di soggetti in posizione privilegiata, che beneficiano cioè di affidamenti diretti in relazione allo speciale legame con gli enti locali soci (18). Al contrario, la sopra riferita giurisprudenza amministrativa esprime l’obiettivo di assicurare che le predette società a partecipazione comunale si dedichino effettivamente – senza perniciose distrazioni – alla missione per l’adempimento della quale esse sono state costituite: la «produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali» (art. 112, comma 1 del d.lgs. n. 267 del 2000 che riproduce l’art. 22, comma 1 della legge 8 giugno 1990, n. 142).

In sostanza, la normativa in discorso evidenzia l’attualità di quanto, seppure a proposito di differenti questioni, è stato in passato osservato dalla dottrina: vale a dire che, mentre l’impostazione tradizionale di diritto interno – nel caso di specie incarnata dalla disciplina sottesa al riferito orientamento giurisprudenziale – è finalizzata alla tutela prioritaria dell’interesse pubblico soggettivato nell’Amministrazione (rispetto al quale l’interesse privato è salvaguardato solo di riflesso), la normativa più recente – di (talora solo affermata) ispirazione europea – è nel senso della tutela prioritaria del mercato, della concorrenza, delle loro regole (19) e, in definitiva, delle imprese che vi operano, di modo che ne risultano limitati gli stessi poteri negoziali ed organizzativi della Pubblica amministrazione, anche quando finalizzati al perseguimento del suo ruolo istituzionale (20).

Nella prospettiva appena richiamata si spiega, ad esempio, anche una norma quale l’art. 3, comma 27 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 la quale – proprio «Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato» – limita la stessa discrezionalità dell’amministrazione quanto alla scelta se costituire determinate tipologie societarie o parteciparvi. Ivi si vieta, infatti, l’accesso delle amministrazioni a società «aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali» (mentre rimane sempre possibile costituire o partecipare a società «che producono servizi di interesse generale»).

4. Nuove norme in materia di servizi pubblici locali e servizi all’amministrazione: l’impatto sulla conformazione delle imprese pubbliche.

La disciplina normativa di cui si è dato conto nei precedenti paragrafi non poteva, evidentemente, non produrre effetti sull’assetto e la vocazione delle imprese pubbliche locali.

Nel passato (21) – sotto la vigenza dell’art. 22, comma 3, lett. e) della legge n. 142 del 1990 (22) – le società venivano tutte (o pressoché tutte) costituite quali soggetti strumentali dei Comuni soci, al fine precipuo dello svolgimento, in favore di essi, delle attività annoverate nel relativo oggetto, mentre non si davano fattispecie – se non assolutamente marginali – di società a cui aderissero enti locali e tuttavia operanti sul mercato in concorrenza con le altre imprese del settore.

Del resto, è significativo che anche le società a partecipazione pubblica locale oggi quotate in borsa (23) – le quali dunque non vantano più le caratteristiche per essere annoverate tra gli enti strumentali dei Comuni soci (non rientrando né nel modello in house providing né in quello della società mista come descritto dall’ordinamento interno e comunitario) (24) – tuttavia discendono da soggetti a suo tempo costituiti in applicazione del menzionato art. 22, comma 3°, lett. e), il quale, come è noto, «delinea una "gestione diretta" del servizio pubblico (…); in particolare, il rapporto tra ente locale e società si svolge nell’ambito di un modulo essenzialmente pubblicistico, qualificato dalla gestione diretta del servizio» (25).

Peraltro, la più recente normativa interna che, come si è anticipato nei paragrafi precedenti, riduce sensibilmente la facoltà di autoproduzione delle pubbliche amministrazioni e che, inoltre, limita il campo di operatività delle relative società strumentali, ha determinato quale conseguenza la diversificazione dei caratteri delle società a partecipazione pubblica locale. In definitiva, le sopra riferite scelte del legislatore interno stanno comportando il superamento della sostanziale unicità del modello della società a partecipazione pubblica invece esistente nel passato (26): siccome cessare definitivamente l’attività (quando il legislatore non ammette l’autoproduzione) ovvero rimanere sottoposti ai rigidi vincoli dell’in house providing o della società mista (laddove la pluralità delle forme di gestione è ancora contemplata nell’ordinamento statale) significa sovente disperdere «categorie di imprese esistenti e legittimamente operanti ed aventi nel mercato italiano una consistenza tutt’altro che trascurabile» (27), talora la scelta di Comuni e Province è piuttosto quella di consegnare al mercato le società di cui essi detengono azioni o quote. Ciò che, del resto, accade anche in quei settori che, se in precedenza ricadevano nel novero dei servizi pubblici locali, risultano oggi liberalizzati: si pensi, ad esempio, alla vendita del gas naturale (artt. 17 del d.lgs. n. 164 del 2000 nonché 1, comma 2, lett. a della legge 23 agosto 2004, n. 239); ovvero altresì all’attività di fornitura al pubblico di reti e servizi di comunicazione elettronica, la quale – pur costituendo attività libera (art. 3, comma 2 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259) – viene talvolta implementata da società degli enti locali.

In definitiva, per effetto delle innovazioni legislative descritte ai precedenti paragrafi, accanto alle tradizionali società strumentali di Comuni e Province va diffondendosi un ulteriore modello di società a partecipazione pubblica, ma non più dedicata allo svolgimento di attività in favore degli enti locali soci o delle collettività di riferimento: si tratta di imprese pubbliche che agiscono sul mercato e che, pertanto, non potranno più beneficiare di affidamenti diretti da parte delle Amministrazioni pubbliche socie. La situazione è stata bene descritta da quella giurisprudenza la quale ha osservato come «l’acquisizione di una vocazione commerciale» «di fatto consegna questo imprenditore al mercato libero», anche se il soggetto in discorso è una società pubblica locale. Con la conseguenza che «o l’impresa non partecipa a gare fuori del territorio, e mantiene così il suo status [di ente strumentale], o vi partecipa e perde il suo statuts, con le ovvie conseguenze nei confronti della legittimità dell’affidamento diretto» da parte degli enti locali soci (28).

5. Realtà nuove e tesi antiche.

In considerazione di quanto sopra, merita attenzione critica la recente pronuncia Cons. Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080 (29).

Chiamato a decidere in ordine alla legittimità o meno della partecipazione ad una gara, indetta dal Comune di Nuoro, da parte di una società controllata da altra società quotata in borsa ma il cui capitale appartiene in via di maggioranza assoluta ad enti locali dell’Emilia-Romagna, il giudice di appello si è pronunciato facendo applicazione del suddetto principio del limite funzionale nonché invocando il parimenti menzionato art. 13 del d.l. n. 223 del 2006.

Nell’occasione, il modo di procedere del Consiglio di Stato non può essere condiviso, perché il giudice amministrativo perviene alla decisione conclusiva senza minimamente indagare quanto al carattere delle società coinvolte nel contenzioso: ciò, evidentemente, sul presupposto – non corretto, alla luce di quanto illustrato nei paragrafi precedenti – della persistente unicità del modello della società a partecipazione pubblica locale quale soggetto strumentale delle Amministrazioni socie; mentre si è anticipato che – al contrario – talvolta si tratta di imprese pubbliche che i soci hanno ormai voluto consegnare al mercato ed alla concorrenza.

È palese che pretendere di sottoporre alle medesime regole tutte le società, solo perché a capitale pubblico locale, a prescindere da una più specifica indagine sulle concrete qualità di ciascuna di esse (enti strumentali ovvero ordinari operatori di mercato) si pone anzitutto in contraddizione con il principio dell’uguaglianza sostanziale. Infatti, se è vero che, in base all’art. 3 della Costituzione repubblicana le situazioni uguali vanno trattate allo stesso modo, la medesima norma impone parimenti di disciplinare in maniera diversificata – secondo le rispettive peculiarità – le situazioni che presentino reciproche differenze (30).

Del resto, la circostanza che la regola del limite funzionale nonché l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 (31) siano applicabili – unicamente – nei confronti di società a partecipazione pubblica locale che siano enti strumentali delle Amministrazioni socie, è confermata dalla medesima decisione richiamata in apertura del presente paragrafo (Cons. Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080). Infatti, ivi così si delimita la questione sottoposta all’attenzione del giudice di secondo grado: «se le società miste costituite da enti locali per la gestione di servizi pubblici all’interno del territorio di riferimento, possano partecipare a gare di appalto (di servizi nel particolare caso di specie) indette da altre Amministrazioni».

Ciò peraltro in coerenza con l’orientamento espresso dalla pregressa giurisprudenza, la quale ha sottolineato come il limite del vincolo funzionale operi, per le società a partecipazione pubblica locale, in ragione del «vincolo genetico funzionale che le lega all’ente di origine, a perseguire finalità di promozione dello sviluppo della comunità locale di emanazione» (32). È palese, pertanto, che, quando il predetto "vincolo genetico funzionale" non è ravvisabile – perché la società non è al servizio dei soci ma ha quale missione di operare sul mercato – è fuori luogo invocare il rispetto del principio di cui trattasi. Perciò, correttamente, in giurisprudenza si è affermato che una volta ammesso, a livello statutario, che la società può operare in diretta concorrenza con altre imprese, pretendere l’applicazione – nei confronti di essa – del menzionato vincolo funzionale «costituisce una forma di penalizzazione dell’impresa e risulta essere in stridente contrasto con le [predette] disposizioni statutarie che la legittimano allo svolgimento dell’attività de qua in regime di concorrenza» (33).

A sua volta, la categoria di soggetti ai quali si rivolge l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 è quella delle società a capitale interamente pubblico o misto, partecipate dalle Amministrazioni pubbliche regionali e locali. Tuttavia, la norma immediatamente precisa che essa non si applica all’intero sistema di soggetti appena menzionato, bensì unicamente a quelle, tra le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate da Regioni ed enti locali «per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza». L’art. 13 del d.l. n. 226 del 2008 riguarda dunque tutte e sole le società a partecipazione pubblica che si pongono in rapporto biunivoco con le Amministrazioni regionali e locali di riferimento: queste ultime le hanno costituite o vi partecipano appositamente perché le prime producano, in loro favore e sulla base di affidamenti diretti a ciò destinati, beni o servizi strumentali a tali enti in funzione della loro attività.

La disposizione non si estende invece alle altre tipologie di società, a capitale intermente pubblico o misto, le quali – benché partecipate da Regioni ed enti locali – non hanno tuttavia con l’Amministrazione di riferimento il rapporto biunivoco sopra descritto. In particolare – oltre a quelle che non producono beni o servizi per le Amministrazioni di riferimento ma agiscono su incarico dell’Amministrazione erogando servizi pubblici all’utenza (34) ed a quelle di intermediazione finanziaria di cui al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (perché così espressamente stabilisce la norma in parola) – non rientrano nel campo di applicazione dell’art. 13 nemmeno le società, costituite o partecipate dagli enti locali, le quali, invece di occuparsi della produzione di beni e servizi in funzione dell’attività di tali enti, sono imprese operanti sul mercato in concorrenza con gli altri operatori pubblici o privati (35).

Merita di essere evidenziato come la questione relativa all’individuazione del campo di applicazione dell’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 sia lucidamente affrontata dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture nel proprio parere n. 92 del 20 marzo 2008 (36). Ivi, con estrema chiarezza, si scandiscono i passaggi che l’interprete deve necessariamente compiere per accertare l’obbligo o meno, per una determinata società, di osservare il disposto della norma in discorso, evidenziandosi che non ogni società a partecipazione pubblica locale ricade nei vincoli di cui si tratta: «al fine di definire se una società indirettamente partecipata da enti locali possa essere ammessa alla procedura per l’affidamento di un servizio extra moenia, la stazione appaltante deve innanzitutto accertare se il servizio in questione rientri nella fattispecie di cui all’articolo 13 della legge n. 248/2006, e dunque che non si tratti di un servizio pubblico locale; successivamente individuare la sussistenza del presupposto soggettivo indicato dalla norma, ovvero che si tratti di società, a capitale interamente pubblico o misto, costituita o partecipata dalle amministrazioni pubbliche regionali o locali; infine accertare che sussista il presupposto oggettivo indicato dalla disposizione in commento, consistente nella produzione di beni e servizi strumentali all’attività degli enti partecipanti, in funzione della loro attività, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza».

6. Il bandolo della matassa: attività amministrativa in forma privatistica vs. attività d’impresa degli enti pubblici. Distinzione concettuale, separazione organizzativa e regimi differenziati.

In definitiva, siccome l’istituto del vincolo funzionale nonché l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 non hanno portata generale, perché la rispettiva applicabilità si rivolge ad alcune soltanto delle società a partecipazione pubblica locale (e cioè unicamente a quelle che si configurano quali enti strumentali delle Amministrazioni socie), non è possibile pronunciarsi circa la legittimità o meno dell’attività extraterritoriale di una determinata società, se – in via preliminare – non si indaga circa l’esatta natura di essa.

Non è cioè possibile voler sottoporre alla medesima disciplina tutte le società, solo perché a partecipazione pubblica locale (37): altrimenti, anzitutto si incorre nella violazione del principio di uguaglianza sostanziale (v. sopra) ed inoltre si forzano, fino ad eluderli, il contenuto dispositivo dell’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 nonché le condizioni di applicabilità dell’istituto del c.d. vincolo funzionale. Come inequivocabilmente dimostra la più volte menzionata decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080, perché nell’occasione il giudice di appello – omettendo ogni indagine sulla natura dei soggetti coinvolti – finisce per sottoporre al vincolo funzionale ed all’osservanza dell’art. 13 soggetti che, in base all’ordinamento vigente come descritto nei paragrafi precedenti, non vi sono affatto tenuti e cioè società quotate in borsa nonché quelle da esse controllate, operanti sul mercato in regime di concorrenza.

Del resto, assoggettare a vincoli di azione le società solo perché a partecipazione pubblica locale – senza verificarne la reale natura (di enti strumentali ovvero di soggetti consegnati al mercato) – contraddice palesemente il diritto europeo: infatti, come si è autorevolmente notato, anche la normativa comunitaria esige «che le società pubbliche possano agire in regime di parità di trattamento con le imprese private» (38); perciò essa esclude la violazione di quest’ultimo principio per il solo fatto che alle procedure competitive prendano parte altresì società nel cui capitale è presente la pubblica amministrazione (39).

L’evidenziata necessità di distinguere tra le varie tipologie di società a partecipazione pubblica locale – al fine di individuare con esattezza il regime rispettivamente applicabile – trova conferma in una recente pronuncia della Corte costituzionale, resa proprio in merito all’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 (40). Ivi, si precisa infatti come le disposizioni contenute nell’articolo di legge appena richiamato «sono fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d’impresa di enti pubblici. L’una e l’altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso, vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza. Le disposizioni impugnate [e cioè l’art. 13 cit.] mirano a separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d’impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. Non è negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza».

In sostanza, il ragionamento della Corte costituzionale riconduce alla fondamentale distinzione tra gestione diretta ed esternalizzazione cui si è fatto riferimento in apertura del paragrafo 1. La sentenza evidenzia come la pubblica amministrazione può svolgere, tramite proprie società, sia attività amministrativa, sia vera e propria attività di mercato: tuttavia, le due tipologie di attività rimangono sottoposte alle differenti discipline per esse rispettivamente previste dall’ordinamento. Ciò che il legislatore statale – ma anche la giurisprudenza della Corte di giustizia europea attraverso le ormai numerose pronunce aventi ad oggetto le condizioni di praticabilità dell’in house providing – hanno voluto particolarmente rimarcare imponendo, addirittura, la separazione soggettiva: le società strumentali della pubblica amministrazione – e cioè i suoi moduli di organizzazione diretta – non possono svolgere anche attività per i terzi (sul mercato), le quali potranno invece venire intraprese da altre società che (anche) la (medesima) Amministrazione voglia a ciò destinare.

Alla luce di quanto sopra, la corretta distinzione da farsi non è dunque quella – del tutto ideologica – tra «tutela dell’imprenditoria privata e della leale concorrenza, repressione della greppia partitica e burocratica» (così la menzionata decisione Cons. Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080): ma quella tra soggetti – indifferentemente pubblici o privati – che competono sul mercato osservando le medesime regole e soggetti (questi solo pubblici) dedicati all’assolvimento di attività amministrativa ed ai quali è precluso l’accesso all’ambiente concorrenziale.

7. Iniziativa economica e libera concorrenza: erroneità delle tesi che vorrebbero escludere dal mercato le società a partecipazione pubblica (quando operano in regime di concorrenza).

Per concludere, si sottolinea che non sarebbe corretto obiettare che tutte le società a partecipazione pubblica, anche se oggi votate al mercato, conservano affidamenti diretti ricevuti nel passato, in quanto originariamente costituite quali soggetti strumentali degli enti locali, e ciò assicurerebbe loro un ingiusto vantaggio competitivo rispetto agli altri operatori del settore.

Si consideri infatti che, come si è anticipato, nell’ordinamento previgente anche gli operatori privati hanno potuto usufruire di analoghi benefici, stante la vigenza dell’art. 267 del r.d. n. 1175 del 1931 (v. sopra al paragrafo 2.), sicché – da questo punto di vista – il principio della parità di trattamento non risulta alterato.

Inoltre, soprattutto, il legislatore prevede un apposito periodo di transizione – che deve garantire il passaggio graduale dal precedente al nuovo sistema normativo – durante il quale proseguono ed al termine del quale cesseranno gli affidamenti diretti già assegnati in base alla disciplina previgente. La Corte costituzionale (si tratta della già ricordata sentenza n. 413 del 2002) ha rilevato come l’introduzione del predetto periodo transitorio è preordinata a tutelare proprio i principi di libertà di iniziativa economica e di concorrenza, perché ha lo scopo di consentire il reinserimento e la sopravvivenza di categorie di imprese esistenti e legittimamente operanti in applicazione del precedente regime giuridico. La posizione è coerente con quanto affermato dalla Corte di giustizia europea, vale a dire che «il principio della certezza del diritto non soltanto consente, ma altresì esige che la risoluzione» delle concessioni in corso al momento dell’entrata in vigore della normativa di riforma «sia corredata di un periodo transitorio che permetta alle parti del contratto di sciogliere i rispettivi rapporti contrattuali a condizioni accettabili sia dal punto di vista delle esigenze del servizio pubblico, sia dal punto di vista economico» (41).

In sostanza, è possibile che il legislatore, nell’esercizio della discrezionalità che gli è propria, decida di intervenire, modificandole, sulle regole del gioco. Tuttavia, siccome «la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza» (42), è necessario che i rapporti messi in campo nel passato, in osservanza della normativa allora in essere, siano fatti oggetto di una ragionevole (anche se non integrale) salvaguardia e non si riverberino negativamente sull’autore a seguito dell’introduzione della nuova disciplina. Ciò, del resto, in applicazione del generale principio tempus regit actum, ricavabile dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al Codice civile, in base al quale «la validità degli atti è e rimane regolata dalla legge vigente al momento della loro formazione e perciò, lungi dall’escludere, postula al contrario che a tale legge gli operatori giuridici debbano fare riferimento quando siano da valutare atti anteriormente compiuti» (43).

Per quanto rileva in questa sede, risultano manifestazione dei principi in discorso gli artt. 15, comma 10 del d.lgs. n. 164 del 2000 nonché 46-bis, comma 4-bis del d.l. 1 ottobre 2007, n. 158 conv. dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, norme le quali escludono che affidamenti diretti ricevuti nel passato siano preclusivi, per tutti i soggetti (pubblici o privati) che ne hanno beneficiato, della partecipazione a gare nel nuovo assetto normativo della distribuzione del gas naturale e degli altri servizi pubblici locali a rete. In quest’ottica può essere letto anche l’art. 23-bis comma 9 del d.l. n. 112 del 2008, laddove afferma che non sono impeditivi della partecipazione alle gare gli affidamenti diretti di cui sono titolari, avendoli conseguiti in precedenza, le «società quotate in mercati regolamentati». Piuttosto, la norma può essere criticata nella parte in cui - affermando che tutti gli altri affidamenti diretti conseguiti nel passato sono ostativi - raggiunge lo scopo di vietare l’attività extraterritoriale delle società strumentali degli enti locali, ma finisce, troppo semplicisticamente, per identificare le società a partecipazione pubblica votate al mercato con le sole società quotate in borsa.

È chiaro pertanto che proseguire, per un periodo transitorio, nello svolgimento di affidamenti diretti conseguiti in base alla normativa precedente, non costituisce un indebito privilegio, ma al contrario il meccanismo individuato dal legislatore per promuovere il mercato e la concorrenza voluti dal nuovo sistema normativo (evitando di escludere dalla competizione proprio gli operatori che, tra l’altro, hanno nel tempo acquisito l’esperienza gestionale più significativa). Ciò, del resto, nell’ottica propria delle norme transitorie che, come osservava autorevole dottrina (44), è quella di evitare i conflitti di difficile soluzione ovvero le conseguenze inique che possono discendere dalla successione delle leggi nel tempo.

Note:

(1) G. Pischel, L’azienda municipalizzata, Roma, 1972, in particolare pagina 19.

(2) In I contratti dello Stato e degli enti pubblici, 1998, 462 ss.

(3) In argomento, significativo peraltro già Cons. Stato, Sez. IV, 13 febbraio 1996, n. 147, in Foro amm., 1996, 439 ss.

(4) Corte di giustizia, Sez. I, 11 gennaio 2005, nel procedimento C-26/03, p.to 48, in Urbanistica e appalti, 2005, 288 ss.

(5) Cfr. ad esempio il Regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2007 relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia e che abroga i regolamenti del Consiglio (CEE) n. 1191/69 e (CEE) n. 1107/70.

(6) Lo rileva anche Cons. Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it.

(7) Si rammenta che, nel momento in cui intervenivano le riferite pronunce del Consiglio di Stato, era già entrata in vigore la legge 8 giugno 1990, n. 142 la quale, nel relativo Capo VII, disciplinava le forme di gestione dei servizi pubblici locali. Per un commento, G. Caia (a cura di), I servizi pubblici locali, Rimini, 1995.

(8) Sul tema sia consentito rinviare, per approfondimenti, a S. Colombari, Il modello in house providing tra mito (interno) e realtà (comunitaria), in Urbanistica e appalti, 2008, 211 ss.

(9) Così Corte di giustizia, Sez. I, 6 aprile 2006, nel procedimento C-410/04, in Foro amm.-Cd.S., 2006, 1109 ss.

(10) Cons. Stato, Sez. VI, 12 marzo 1990, n. 374, in Foro it., 1991, III, 270 ss.

(11) La differenza delle due fattispecie è ad esempio illustrata da Corte di giustizia, Sez. II, 18 luglio 2007, nel procedimento C-382/05, in Riv.it.dir.pubbl.comunit., 2007, 1062 ss.

(12) Cons. giust. amm. reg. sic., Sez. giur., 4 settembre 2007, n. 719, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it

(13) Cons. giust. amm. reg. sic., Sez. giur., 4 settembre 2007, n. 719, cit., osserva che si è «ad un passo dalla totale esclusività»; Corte di giustizia, Sez. II, 17 luglio 2008, nel procedimento C-371/05, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it. ribadisce che «un’impresa svolge la parte più importante della sua attività con l’ente che la detiene (…) se l’attività di detta impresa è destinata principalmente all’ente in questione e ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale». In tema, da ultimo, anche TAR Piemonte, Sez. II, 26 marzo 2008, n. 511, in http://www.giustizia-amministrativa.it.

(14) I contenuti dell’art. 13 di cui al testo vengono oggi in parte a coincidere con quelli dell’art. 23-bis, comma 9 del già menzionato d.l. n. 112 del 2008. Peraltro, la questione della odierna sopravvivenza o meno anche della prima disposizione sarà chiarita dal regolamento governativo previsto dal comma 10, lett. m) del cit. art. 23-bis incaricato di «individuare espressamente le norme abrogate ai sensi del presente articolo».

(15) Per un’applicazione cfr. TAR Lombardia, Sez. I, 31 gennaio 2007, n. 140, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it

(16) Cons. Stato, Sez. V, 3 settembre 2001, n. 4586, in Foro amm., 2001, 2352 ss.

(17) Sul tema del vincolo funzionale, in dottrina G. Caia, L’attività imprenditoriale delle società a prevalente capitale pubblico locale al di fuori del territorio degli enti soci, in Foro amm., 2002, 1568 ss.

(18) Cons. Stato, Sez. III, parere 25 settembre 2007, n. 322/2007, in http://www.giustamm.it

(19) Nel significato ampio attribuito dalla Corte costituzionale all’espressione "tutela della concorrenza", di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. e) della Costituzione. Cfr., per tutte, Corte cost., 14 dicembre 2007, n. 430, in Giur. cost., 2007, 4732 ss.

(20) A. Romano, Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili sono diritti soggettivi, in Dir.amm., 1998, in particolare 12 s.

(21) In tema, per tutti, M. Cammelli e A. Ziroldi, Le società a partecipazione pubblica nel sistema locale, Rimini, 1997.

(22) Come è noto, la norma legittimava gli enti locali a gestire i servizi pubblici, tra l’altro, «a mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna in relazione alla natura o all’ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti pubblici o privati». Essa venne poi riprodotta nell’originario testo dell’art. 113, lett. e) del d.lgs. n. 267 del 2000 e risulta espunta dall’ordinamento solo con l’art. 35 della legge n. 448 del 2001.

(23) Così è per A2A s.p.a., ACEA s.p.a., ACEGAS – APS s.p.a., HERA s.p.a. ed IRIDE s.p.a.

(24) Il riferimento è, quanto al diritto interno, all’art. 113, comma 5, lett. b) del d.lgs. n. 267 del 2000 e quanto all’ordinamento comunitario alla "Comunicazione interpretativa della Commissione sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI)", in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, n. C 91 del 12 aprile 2008. Per una ricostruzione sistematica della materia, N. Aicardi, Società miste ed evidenza pubblica 'a monte', in Diritto e processo amministrativo, 2007, 593 ss.

(25) Così Cons. Stato, Sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192 e l’ulteriore giurisprudenza ivi richiamata, in Rassegna giuridica dell’energia elettrica, 1998, 525 ss.

(26) G. Caia, Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza, in http://www.giustamm.it.

(27) L’espressione si trova in Corte cost., 31 luglio 2002, n. 413, in Giur. cost., 2002, 2977 ss.

(28) Così Cons. giust. amm. reg. sic., Sez. giur., 4 settembre 2007, n. 719, cit.

(29) In http://www.dirittodeiservizipubblici.it.

(30) G. Falcon, Lineamenti di diritto pubblico, Padova, 2003, 515 ss.

(31) Tra l’altro, si precisa che il principio del vincolo funzionale e l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 non hanno un campo di applicazione necessariamente coincidente: TAR Lombardia, Sez. I, 9 maggio 2008, n. 1552, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it.

(32) Cons. giust. amm. reg. sic., Sez. giur., 21 marzo 2007, n. 197, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it.

(33) TAR Lazio, Sez. III, 21 marzo 2008, n. 2514, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it.

(34) TAR Veneto, Sez. I, 31 marzo 2008, n. 788, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it.

(35) TAR Lazio, Sez. III, 14 aprile 2008, n. 3109, in http://www.giustizia-amministrativa.it.

(36) In http://www.massimario.avcp.it

(37) Così invece sembrano, differentemente da quello citato in fine del precedente paragrafo, il parere n. 213 del 31 luglio 2008 nonché la deliberazione n. 135 del 9 maggio 2007 dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, entrambi in http://www.massimario.avcp.it.

(38) Cons. Stato, Sez. V, 28 settembre 2005, n. 5196, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it.; id., Sez. V, 27 settembre 2004, n. 6325, in Foro amm. - CdS, 2004, 2620 ss.; TAR Lazio, Latina, 4 agosto 2006, n. 595, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it.

(39) Cons. Stato, Sez. VI, 11 luglio 2008, n. 3499, in http://www.giustamm.it., con puntuali richiami a norme del Trattato ed a pronunce della Corte di giustizia.

(40) Si tratta della sentenza 1 agosto 2008, n. 326, in http://www.cortecostituzionale.it.

(41) Corte di giustizia, Sez. II, 17 luglio 2008 nel procedimento C-347/06, in http://www.dirittodeiservizipubblici.it

(42) Corte Cost., 4 aprile 1990, n. 155, in Foro it., 1990, I, 3072.

(43) Corte cost., 25 marzo 1970, n. 49, in Giur. cost., 1970, 555 ss.

(44) C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1985, 154 s.

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