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Sommario: 1. Introduzione. 2. L’articolo 48 della legge n. 99 del 31 luglio 2009. 3. L’articolo 15 del d.l. n. 135/09 licenziato dal Governo il 25 settembre 2009. 4. La sentenza della Corte di giustizia, Sezione III, del 10 settembre 2009, C-573/07. 5. La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 5082, del 26 agosto 2009. 6. Considerazioni finali.
- Introduzione.
Le ultime vicende legislative e giurisprudenziali ripropongono, in modo serrato, lo spinoso tema della vocazione commerciale e dell’extraterritorialità dei moduli societari misti costituiti o partecipati da soggetti pubblici. In particolare, proprio recentemente, sia il legislatore, con l’ennesima modifica apportata all’articolo 13 del d.l. n. 223 del 4 luglio 2006, che il Consiglio di Stato, Sezione V, con la decisione n. 5082 del 26 agosto 2009, hanno alimentato, rispettivamente, il primo i dubbi e le incertezze già esistenti in ordine alla possibilità che le società miste possano svolgere la propria attività d’impresa al di fuori dell’ambito territoriale degli enti partecipanti e costituenti, il secondo il problema dell’indispensabilità o meno della effettiva partecipazione privata al capitale sociale, quale presupposto generante la vocazione commerciale del modulo societario affidatario diretto della gestione del servizio. In questa cornice, dai contorni piuttosto controversi, si colloca l’articolo 15 del d.l. n. 135/09, esaminato dal Consiglio dei Ministri il 9 settembre 2009 e pubblicato sulla G.U. n. 223 del 25 settembre 2009 che, modificando l’articolo 23-bis della legge n. 133 del 6 agosto 2008, inserisce, a pieno titolo, le società miste tra le ipotesi di affidamento “ordinario” della gestione di un servizio a rilevanza economica a patto, però, che almeno il 40% del capitale sociale sia conferito dal privato. Si tratta di una norma che incrocia inevitabilmente il problema della effettività o meno della presenza di quote societarie non di derivazione pubblica all’interno del modulo societario deliberato dall’ente affidante, quale condizione imprescindibile per valutare la legittimità dell’affidamento della gestione del servizio. Le conseguenze che discendono dall’accoglimento dell’una piuttosto che dell’altra ricostruzione giurisprudenziale e dottrinaria sarebbero opposte. Infatti, qualora si propenda per la legittimità dell’affidamento, nonostante lo statuto della costituenda società preveda l’astratta possibilità che il capitale sociale possa essere in futuro aperto a privati, rimarrebbe in piedi l’ipotesi di conversione, successivamente alla costituzione, di un modulo societario originariamente a capitale interamente pubblico in uno avente capitale misto, con conseguente “potenziale” elusione dell’articolo 23-bis, comma 2, così come “ristrutturato” dall’articolo 15 del citato decreto legge n. 135/09; a soluzione diametralmente opposta si approderebbe, invece, qualora si ancorasse la legittimità dell’affidamento esclusivamente ad un modulo societario con partner privato selezionato secondo i criteri fissati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 1 del 3 marzo 2008: dunque con effettiva partecipazione del privato/socio operativo sin dalla nascita del soggetto gestore del servizio. Una soluzione del genere sarebbe più rispettosa dei dettami comunitari (Comunicazione della Commissione del 5 febbraio 2008) e nazionali (parere Sezione II del Consiglio di Stato n. 456/07 e decisione n. 1/08 dell’Adunanza Plenaria) con conseguente inconfigurabilità di quei moduli societari misti derivanti da esperienze societarie a capitale interamente pubblico senza il previo esperimento di una procedura di evidenza pubblica che definisca compiti, funzioni e limiti temporali del socio privato.
- L’articolo 48 della legge n. 99 del 31 luglio 2009.[1]
Com’è noto, l’articolo 13 del d.l. n. 223 del 4 luglio 2006, convertito con modifiche nella legge n. 248/2006, ha subito nel corso degli anni numerose rivisitazioni. Nello specifico, l’attenzione del Legislatore si è focalizzata sulla proroga dei termini fissati per la cessazione delle attività non consentite cui fa riferimento il primo periodo del comma 3 della norma in parola[2]. Attualmente, i termini in questione sono stati portati a quarantadue mesi dall’articolo 20, comma 1-bis, del d.l. n. 207 del 30 dicembre 2008 convertito, con modifiche, nella legge n. 14 del 27 febbraio 2009 [3] : dunque, la scadenza è oggi fissata al 3 gennaio 2010. L’articolo 48 della legge n. 99/2009, invece, incide sensibilmente il contenuto del comma 1 dell’articolo 13 introducendo delle novità particolarmente significative. Infatti, l’espunzione dal testo del comma 1 dell’articolo 13 del termine esclusivamente sembrerebbe aprire la strada alla possibilità che le società strumentali operino non solo con gli enti costituenti o partecipanti ma anche al di fuori degli angusti ambiti territoriali degli stessi, oltre che con soggetti privati. Si tratta di una espunzione appena in parte “corretta” dalla permanenza all’interno della norma dell’inciso a tenore del quale le medesime società non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara. La ratio di tale modifica sembra rinvenirsi nella circostanza che il Legislatore abbia inteso assicurare la parità di trattamento degli operatori nel (solo) territorio nazionale come dimostrato proprio dall’altra modifica apportata al testo dell’articolo costituita, appunto, dall’aggiunta dell’inciso nel territorio nazionale subito dopo le parole società o enti. Se così fosse, ci troveremmo di fronte ad una situazione davvero paradossale: da un lato, all’interno del territorio italiano, sarebbe possibile per le società strumentali, a capitale interamente pubblico o misto, operare in regime di concorrenza con altri operatori di settore, anche al di fuori dell’ambito territoriale degli enti costituenti o partecipanti, da un altro, al di fuori del territorio nazionale, tale possibilità sarebbe categoricamente preclusa, in ossequio ai principi di parità di trattamento, divieto di discriminazione e tutela della concorrenza predicati dal Trattato europeo. Le conseguenze che deriverebbero, sul piano del diritto, da un’interpretazione del genere sarebbero fortemente pregiudizievoli soprattutto in termini di alterazione del libero mercato e, in ultima analisi, di qualità dei servizi offerti. Il rischio che si annida in un approccio ermeneutico siffatto consiste nella circostanza che tutte le società pubbliche o partecipate radicate in altri Stati dell’Unione potrebbero liberamente concorrere in Italia per l’aggiudicazione di servizi strumentali banditi da questa o quell’amministrazione pubblica alterando il libero gioco della concorrenza e creando delle dinamiche disfunzionali e distorsive all’interno del libero mercato. Si tratta di una situazione particolarmente pericolosa, oltre che “offensiva” del diritto nazionale e comunitario in specie con riferimento alle società strumentali a partecipazione interamente pubblica. Il discorso, tuttavia, in linea teorica, potrebbe essere diverso se riferito alle sole società miste. A ben vedere, in tal caso, la scelta del partner privato, il “socio operativo”, cui affidare compiti, funzioni e gestione della costituenda società mista, proprio in quanto selezionato con procedura ad evidenza pubblica, conferirebbe al modulo societario in parola una dimensione più privatistica che pubblica la cui operatività potrebbe anche andare oltre l’ambito territoriale dell’ente partecipante. Del resto, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 326 dell’1 agosto 2008, ha chiarito che i moduli societari misti chiamati a svolgere attività amministrative strumentali si muovono all’interno di schemi eminentemente privatistici[4] e lo stesso decreto legge, recante disposizioni per l’adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici di rilevanza economica, varato dal Consiglio dei Ministri il 25 settembre 2009, all’articolo 15[5], ha finito per introdurre una significativa modifica del comma 2 dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/08 inserendo, di fatto (e di diritto), le società miste tra le ipotesi di affidamento ordinario della gestione del servizio a condizione che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento[6]. La fissazione di una quota privata non inferiore al 40 per cento del capitale sociale rafforza il concetto di base a tenore del quale con la selezione del partner privato si intende individuare il vero motore dell’impresa, il soggetto cui demandare la gestione dell’azienda e la responsabilità dei risultati conseguiti in termini di efficienza ed efficacia aziendale, residuando in capo alla parte pubblica un compito di mero controllo interno dell’operato del “socio industriale”. Se questi sono i presupposti, e ai medesimi verrà riconosciuto un respiro universale, non si può non concludere nel senso della operatività extra moenia non solo di quei moduli societari misti incaricati di svolgere attività amministrativa in forma privatistica ma anche e soprattutto di quei moduli societari partecipati da enti pubblici chiamati ad erogare servici pubblici alle comunità delle amministrazioni affidanti.
- L’articolo 15 del d.l. n. 135/09 licenziato dal Governo il 25 settembre 2009.
La sentenza della Corte di giustizia, Sezione III, del 10 settembre 2009[10] si “apprezza” perché consolida il precedente indirizzo espresso dai giudici lussemburghesi in occasione della sentenza della Sezione II, del 17 luglio 2008, resa all’esito della causa n. C-371/05. In quella occasione, i magistrati europei, modificando il primitivo orientamento (sentenza Anav), ritennero che la legittimità di un affidamento diretto della gestione di un servizio pubblico locale di rilevanza economica non poteva essere fatta discendere dalla previsione in statuto della obbligatoria apertura del capitale sociale a partner privati quanto, piuttosto, all’effettiva situazione vigente al momento dell’affidamento. La naturale conseguenza di tale presa di posizione fu quella di incentivare l’utilizzo degli affidamenti in house in chiara controtendenza rispetto a quanto fino a quel momento predicato e al progressivo allineamento di tutte le legislazioni degli Stati membri[11]. Oggi, la Corte di giustizia ritorna sull’argomento riconoscendo la legittimità di un affidamento diretto di un servizio pubblico locale ad una società a capitale interamente pubblico utilizzando il grimaldello della certezza del diritto. Infatti, scrivono i giudici, l'apertura del capitale rileva solo vi è un'effettiva prospettiva di ingresso di soggetti privati nella compagine sociale, altrimenti, il principio di certezza del diritto esige di valutare la legittimità dell'affidamento in house sulla base della situazione vigente al momento della deliberazione dell'Ente locale affidante. In altri termini, prima si affida la gestione del servizio e se in seguito si accerterà lo svolgimento di pratiche elusive della concorrenza, legate alla cessione di quote societarie a privati, si interverrà. In questo modo, molto probabilmente, si alimenterà un uso improprio degli affidamenti in house, che diventerebbero una sorta di “anticamera” di moduli societari misti la cui coerenza rispetto ai principi comunitari in materia di parità di trattamento, divieto di discriminazione e concorrenza sarà tutta da dimostrare. Il risultato ultimo, dunque, verosimilmente sarà un ridimensionamento della qualità del servizio offerto ai cittadini/utenti; risultato legato, per lo più, a criteri di efficienza ed efficacia che mal di sposano con una gestione del servizio di tipo più imprenditoriale. In definitiva, i giudici europei mentre con la sentenza della Sezione II del 17 luglio 2008 ancorano la legittimità dell’affidamento diretto della gestione del servizio ad un aspetto eminentemente processuale, vale a dire alla circostanza che la Commissione non era riuscita a fornire la prova dell’apertura del capitale sociale a partner privati, con l’arresto della Sezione III del 10 settembre 2009, gli stessi giudici giungono alla medesima conclusione pur riconoscendo che (omissis) non può escludersi che le quote di una società vengano vendute a terzi in qualunque momento. Tuttavia,continuano i magistrati del Lussemburgo, il fatto di ammettere che questa mera possibilità possa sospendere indefinitamente la valutazione sul carattere pubblico o meno del capitale di una società aggiudicataria di un appalto pubblico non sarebbe conforme al principio di certezza del diritto. Vale a dire che, nonostante un affidamento sia potenzialmente lesivo dei principi fissati dallo stesso diritto europeo, è opportuno attendere che il vizio in potenza diventi effettivo con buona pace proprio del principio della certezza del diritto. Il viatico argomentativo seguito dalla Corte, inoltre, non appare condivisibile da un punto di vista logico – giuridico anche sotto altro profilo intriso, com’è, di astrattezza e contraddittorietà. Infatti, scrivono i giudici se il capitale di una società è interamente detenuto dall’amministrazione aggiudicatrice, da sola o con altre autorità pubbliche, al momento in cui l’appalto in oggetto è assegnato a tale società, l’apertura del capitale di quest’ultima ad investitori privati può essere presa in considerazione solo se in quel momento esiste una prospettiva concreta e a breve termine di una siffatta apertura. Viene naturale chiedersi, a questo punto, per quale oscuro motivo la previsione in statuto della obbligatoria apertura del capitale sociale a terzi non sia stata ritenuta dai magistrati del Lussemburgo una prospettiva concreta e a breve termine tale, cioè, da incidere negativamente sulla permanenza del requisito del controllo analogo in ragione della futura (certa) configurazione commerciale della società affidataria.
- La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 5082, del 26 agosto 2009.
A riprova della difficile condivisibilità della sentenza della Sezione III della Corte di giustizia del 10 settembre 2009 basti richiamare l’illuminante decisum della Sezione V del Consiglio di Stato, n. 5082, del 26 agosto 2009[12]. I giudici di Palazzo Spada, sviluppando una trama motivazionale assolutamente in linea con la costante giurisprudenza della stessa Corte europea, così come essa si era consolidata prima dell’arresto della Sezione II risalente allo scorso 17 luglio 2008 (C-371/05), a proposito della cosiddetta “vocazione commerciale”, hanno chiarito che osta alla configurabilità dell'affidamento in house l'acquisizione, da parte dell'impresa affidataria, di una vocazione schiettamente commerciale tale da rendere precario il controllo dell'ente pubblico. Inoltre, i magistrati del Consiglio di Stato hanno opportunamente soggiunto che detta vocazione, può, in particolare, risultare dall'ampliamento, anche progressivo, dell'oggetto sociale e dall'apertura obbligatoria della società ad altri capitali o dall'espansione territoriale dell'attività della società: l'affermarsi di una vocazione strategica basata sul rischio di impresa finisce, infatti, per condizionare le scelte strategiche dell'ente asseritamene in house, distogliendolo dalla cura primaria dell'interesse pubblico di riferimento e, quindi, facendo impallidire la natura di costola organica, pur se entificata, dell'ente o degli enti istituenti. L’analisi compiuta dai giudici del supremo consesso amministrativo tiene in debito conto il cosiddetto rischio d’impresa che si annida nella costruzione di uno statuto che preveda l’apertura obbligatoria del capitale sociale ad apporti partecipativi privati. In altri termini, l’annunciata partecipazione privata all’interno della struttura societaria finisce inevitabilmente per piegare le scelte strategiche dell’affidataria a logiche di impresa che mal si conciliano con le dinamiche di soddisfacimento degli interessi pubblici originariamente individuati. In sostanza, il Consiglio di Stato ha anticipato il momento valutativo riportandolo correttamente all’analisi dello statuto a differenza della Corte di giustizia che, invece, ha spostato il giudizio di legittimità dell’affidamento differendolo allo scrutinio delle condizioni esistenti al momento dell’effettivo ingresso del privato nel capitale sociale dell’affidataria. Così facendo, i giudici europei hanno coniato un nuovo principio ispiratore: quello della “incertezza” del diritto. Infatti, riconoscere la piena legittimità dell’affidamento diretto della gestione di un servizio ad un modulo societario a capitale interamente pubblico ma destinato, a breve, in ragione di una specifica previsione statutaria, ad essere aperto a privati significa alimentare una sorta di “incertezza legittimante” destinata ad incentivare il proliferare di situazioni limite che spetterà poi al giudice amministrativo dirimere. Al solito, in casi del genere, ad essere penalizzate saranno le aspettative dei fruitori ultimi dell’attività dell’affidataria: i cittadini.
- Considerazioni finali.
Le ultime vicende legislative e giurisprudenziali dimostrano, dunque, la patologica difficoltà del Legislatore nazionale e della giurisprudenza, in specie quella comunitaria, di “stabilizzare” alcuni principi che fino a poco tempo prima venivano considerati granitici. Le ultime sortite del Legislatore italiano, in tema di extraterritorialità dell’ambito operativo delle società miste, ancorché apparentemente riferite alle sole società strumentali, vanno, tuttavia, accolte con favore. Certo, resta sul tappeto l’anomalia tutta italiana, invero piuttosto paradossale, consistente nel fatto che nel territorio della Repubblica sia consentito lo svolgimento dell’attività d’impresa in maniera non esclusiva nei confronti degli enti costituenti un modulo societario misto mentre al di fuori dei confini italici tale opzione incontrerebbe i rigidi paletti di una giurisprudenza europea ancora piuttosto restia a “sdoganare” tali società nonostante che l’organizzazione e la gestione del servizio gravi solo sul privato e che quest’ultimo venga scelto con regolare procedura di evidenza pubblica al fine proprio di evitare che vi siano delle distorsioni della concorrenza e che vengano elusi i principi comunitari di parità di trattamento e divieto di discriminazione. Quanto all’articolo 15 del decreto legge n. 135/09, licenziato il 25 settembre 2009 dal Consiglio dei Ministri, esso ha l’indubbio pregio di avere espressamente annoverato l’affidamento della gestione del servizio alle società miste all’interno di quei meccanismi gestionali cosiddetti “ordinari”, assimilando i moduli societari in parola a tutte le altre società in qualunque forma costituite, secondo l’insegnamento della sentenza “Frigerio” del 18 dicembre 2007, e agli altri imprenditori aventi titolo. Tuttavia, non una parola è stata spesa in merito alla possibilità che le società miste svolgano l’attività d’impresa extra moenia, soprattutto alla luce dell’articolo 48 della legge n. 99 del 23 luglio 2009 che sembra aver fatto “tramontare” il vincolo dell’esclusività. In merito al controverso concetto di “vocazione commerciale”, i cui effetti, com’è noto, si riverberano sulla stessa legittimità dell’affidamento diretto in quanto riguardano da vicino il requisito del controllo analogo, non si può non rimanere sconcertati dalla facilità con la quale i giudici europei sono avvezzi a cambiare il proprio orientamento in sede di identificazione dei presupposti. Chi credeva che la sentenza della Corte di giustizia, Sezione II, del 17 luglio 2008, pubblicata al termine della causa n. C-371/05, costituisse una svista, successivamente emendabile, è rimasto per l’ennesima volta deluso. I giudici europei con la sentenza della Sezione III del 10 settembre 2009 hanno confermato il principio precedentemente elaborato arricchendolo di nuovi elementi. In particolare, la sensazione che si ricava dalla lettura della trama motivazionale contenuta nel dictum in parola è che i magistrati del Lussemburgo, nel tentativo di garantire in ogni modo l’implementazione del principio della certezza del diritto, abbiano finito per incentivare dinamiche societarie che incrociano pericolosamente pratiche elusive proprio di quei pochi principi faticosamente affermati in modo stabile dalla giurisprudenza comunitaria. Se tutto questo si dimostrerà vero non resterà che tornare alla più rassicurante posizione giurisprudenziale assunta dal Consiglio di Stato di cui la sentenza n. 5082/09 della Sezione V è esempio mirabile.
* Gerardo Guzzo Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Università degli Studi della Calabria e partner dello studio legale Cristofano, Guzzo & Associates.
La legge n. 99/2009, pubblicata nella G.U. n. 176 del 31 luglio 2009, all’art. 48, rubricato Modifiche al decreto-legge n. 223 del 2006, così dispone: “1. All'articolo 13, comma 1, primo periodo, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, dopo le parole: «degli operatori» sono inserite le seguenti: «nel territorio nazionale», la parola: «esclusivamente» è soppressa e dopo le parole: «società o enti» sono aggiunte le seguenti: «aventi sede nel territorio nazionale”.
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