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Il "nuovo corso" della disciplina dei spl: Corte Costituzionale e Consiglio di Stato ancora alla ricerca di una strada comune.
di Gerardo Guzzo 22 febbraio 2011
Materia: servizi pubblici / disciplina

 

SOMMARIO: 1. Premessa. 2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 325/2010. 3. L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 24/2011 di ammissione del referendum popolare per l’abrogazione dell’articolo 23-bis. 4. La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 552/2011. 5. La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 77/2011. 6. La deliberazione Corte dei Conti - Sez. regionale di controllo per la Liguria – n. 166/2010. 7.  Il parere della CONVIRI n. 6883/2011. 8. Conclusioni.

1.      Premessa

La disciplina dei servizi pubblici locali sembra proprio essere destinata a divenire una sorta di “tela di Penelope”. Infatti, le recenti sortite della Corte Costituzionale se, da un lato, incidono su parte dell’impalcato dell’articolo 23-bis (n. 325/2010), sottraendo alla potestà regolamentare dello Stato la possibilità di assoggettare al patto di stabilità le società affidatarie in house in quanto trattasi di materia riconducibile alla finanza pubblica con conseguente attrazione della disciplina alla competenza concorrente delle Regioni, da un altro, invece, con l’ordinanza n. 24/2011[1], nel dichiarare ammissibile il referendum popolare volto all’abrogazione dell’intero articolo 23-bis, pongono solidi presupposti per una radicale rivisitazione dell’intera materia. In questa ottica revisionista, non può ritenersi meno significativa la recente opera ermeneutica compiuta dal Consiglio di Stato che, con due pronunce, rispettivamente, la n. 77/2011[2] e la n. 552/2010[3], ha sia aperto alla possibilità per le società miste di operare in ambiti extraterritoriali, sia riconosciuto agli enti locali la gestione diretta dei servizi comportanti un modesto impegno economico, sconfessando, in un qualche modo, proprio il portato della sentenza della Corte Costituzionale n. 325/2010[4]. Sullo sfondo resta la deliberazione della Corte dei Conti, Liguria, n. 166/2010 che, con un controverso parere avente ad oggetto l’interpretazione dell’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010, ha decisamente negato la possibilità ai Comuni con meno di 30.000 abitanti di costituire una società a capitale interamente pubblico e che, in un certo senso, può essere inteso una sorta di “argine” alle dinamiche “innovative” del Giudice delle leggi e dei magistrati di Palazzo Spada. Nondimeno importante è parso il parere della CONVIRI, n. 6883/2011[5], che, con rigorosa puntualità, ha affrontato il delicato tema della modifica del piano d’ambito al fine di gestire in modo ottimale una gara finalizzata all’individuazione del socio privato della società già gestore del servizio.

2.      La sentenza della Corte Costituzionale n. 325/2010

La pronuncia della Corte Costituzionale n. 325 del 17 novembre del 2010 consegue ad una serie di ricorsi promossi dalle Regioni: Emilia-Romagna (due ricorsi), Liguria (due ricorsi), Piemonte (due ricorsi), Puglia, Toscana, Umbria e Marche (unico ricorso), oltre che dal Presidente del Consiglio dei Ministri (due ricorsi). Quest’ultimo ha impugnato le leggi delle Regioni Liguria e Campania. Gli enti regionali hanno contestato la tenuta costituzionale dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008 - nella sua primitiva formulazione e nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 15 del d.l. n. 135/09, convertito con modifiche nella legge n. 166/2009 - sotto diversi profili di diritto. Diversamente, la Presidenza del Consiglio ha impugnato la legge regionale della Liguria del 28 ottobre 2008, n. 39 (Istituzione delle Autorità d’Ambito per l’esercizio delle funzioni degli enti locali in materia di risorse idriche e gestione rifiuti ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. Norme in materia ambientale), e l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria anno 2010). La sentenza dei giudici costituzionali si apprezza particolarmente in quanto fa chiarezza su un aspetto da sempre controverso: quello della tenuta comunitaria e costituzionale dell’impianto introdotto dall’articolo 23-bis. Le argomentazioni sviluppate dalla Consulta muovono dal presupposto di una sostanziale simmetria del concetto comunitario  e nazionale di “servizio pubblico di rilevanza economica”, ancorché le fonti europee parlino di “servizio di interesse economico generale”. Nello specifico, rilevano i supremi giudici, sia l’articolo 14 che 106 del Trattato Ue “(…) non fissano le condizioni di uso di tale ultima espressione, ma, in base alle interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea (in specie, nelle Comunicazioni in tema di servizi di interesse generale in Europa del 26 settembre 1996 e del 19 gennaio 2001; nonché nel Libro verde su tali servizi del 21 maggio 2003), emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata all’ambito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo», come riconosciuto da questa Corte con la sentenza n. 272 del 2004. Lo stesso denunciato comma 1 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel dichiarato intento di disciplinare i «servizi pubblici locali di rilevanza economica» per favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti «gli operatori economici interessati alla gestione di servizi pubblici di interesse generale in ambito locale» – conferma tale interpretazione, attribuendo espressamente ai SPL di rilevanza economica un significato corrispondente a quello di «servizi di interesse generale in ambito locale» di rilevanza economica, di evidente derivazione comunitaria (…)”. In sostanza, sia la disciplina comunitaria che quella nazionale “(…) assolvono l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica (…)”. Dunque, sia la disciplina comunitaria che quella nazionale conferiscono all’espletamento della gara la qualitas di indefettibile presupposto a presidio della tutela della concorrenza nel settore dei SPL di rilevanza economica. Allora quali sono le differenze tra la ricostruzione sistemica interna e quella europea? La Consulta non esita ad identificare il discrimen nella individuazione delle eccezioni alla suddetta regola sostenendo che nessuna distonia è ravvisabile tra le due discipline. In relazione alle ipotesi in cui è possibile derogare all’istituto della gara pubblica, osserva la Corte, la disciplina comunitaria ammette tale possibilità “(…) nel caso in cui lo Stato nazionale ritenga che l’applicazione delle regole di concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità dell’affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica) ostacoli, in diritto od in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE; ex plurimis, sentenze della Corte di giustizia UEE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle, punti 48 e 49, e 10 settembre 2009, C-573/07, Sea s.r.l.)[6]. In tale ipotesi, l’ordinamento comunitario, rispettoso dell’ampia sfera discrezionale attribuita in proposito agli Stati membri, si riserva solo di sindacare se la decisione dello Stato sia frutto di un “errore manifesto” (…)”. Per quanto concerne la codificazione interna, essa“(…) rappresenta uno sviluppo del diverso principio generale costituito dal divieto della gestione diretta del SPL da parte dell’ente locale; divieto introdotto dai non censurati art. 35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002) e art. 14 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 (…)”. Da tale assunto, i giudici costituzionali ne fanno discendere il corollario “(…) che: a) la normativa comunitaria consente, ma non impone, agli Stati membri di prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale; b) lo Stato italiano, facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli dall’ordinamento comunitario al riguardo, ha effettuato la sua scelta nel senso di vietare di regola la gestione diretta dei SPL ed ha, perciò, emanato una normativa che pone tale divieto (…)”. In altre parole, secondo la ricostruzione della Corte Costituzionale, la disciplina nazionale vieterebbe di regola la gestione diretta dei SPL, confinandola rigorosamente nell’alveo dell’eccezione. Si tratta di un passaggio importante in quanto cristallizza un principio cardine: quello della eccezionalità degli affidamenti in house. Il Consiglio di Stato di lì a poco, come si vedrà meglio infra, con la sentenza n. 552/2011, introdurrà un ulteriore elemento di chiarimento in merito alla gestione diretta del servizio relativamente ai casi in cui questo abbia un modesto impatto economico sulle casse pubbliche, sconfessando, in una certa misura, quanto sostenuto dai giudici costituzionali. Un ulteriore elemento di diversificazione della disciplina nazionale rispetto a quella comunitaria investe l’affidamento della gestione del servizio alle società miste. In questo caso, la norma italiana, seppur allineata a quella comunitaria in merito alle dinamiche di affidamento della gestione che presuppone l’espletamento di una procedura di evidenza pubblica volta alla scelta del partner privato, non solo socio “finanziario” ma anche “industriale”, introduce un quid novi: la partecipazione di quest’ultimo al capitale sociale nella misura di almeno il 40%. La misura del 40%, come osservato dalla Corte Costituzionale, “(…) si risolve in una restrizione dei casi eccezionali di affidamento diretto del servizio e, quindi, la sua previsione perviene al risultato di far espandere i casi in cui deve essere applicata la regola generale comunitaria di affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Ne consegue, anche in questo caso, la piena compatibilità della normativa interna con quella comunitaria (…)”. In altri termini, l’aver previsto un tetto minimo alla partecipazione del privato non costituisce affatto violazione dei principi comunitari in quanto la disposizione va letta nell’ottica di una corretta implementazione del principio di libera concorrenza. Parimenti, secondo il giudizio della Corte, non pone problemi di tenuta comunitaria e costituzionale neppure il meccanismo di affidamento della gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica costruito dal legislatore italiano. Infatti, chiariscono i giudici, “(…) l’in house providing rappresenta un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo (…)”. La disciplina italiana, seppur più “pro concorrenziale” di quella comunitaria, non viola i principi codificati in subiecta materia dal legislatore europeo che “(…) costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri (…)”.  Da tanto, la Consulta ne fa discendere la conseguenza che “(…) al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici – di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario (…)”. Per quanto concerne l’inquadramento costituzionale dei servizi pubblici di rilevanza economica, la suprema Corte, confermando il suo stabile orientamento, ha ribadito che l’intera materia deve essere ricondotta nell’alveo della “tutela della concorrenza”: ambito materiale di competenza esclusiva dello Stato. Per conseguenza, la disciplina riguardante le modalità di affidamento della gestione dei SPL di rilevanza economica: “(…) a) non è riferibile alla competenza legislativa statale in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.), perché riguarda, appunto, i servizi di rilevanza economica e non attiene, comunque, alla determinazione di livelli essenziali (sentenza n. 272 del 2004); b) non può essere ascritta neppure all’ambito delle «funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.), perché «la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale» (sentenza n. 272 del 2004) e, quindi, «non riguarda (….) profili funzionali degli enti locali» (sentenza n. 307 del 2009, al punto 6.1.); c) va ricondotta, invece, all’ambito della materia, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, «tutela della concorrenza», prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., tenuto conto degli aspetti strutturali e funzionali suoi propri e della sua diretta incidenza sul mercato (ex plurimis, sentenze n. 314, n. 307, n. 304 e n. 160 del 2009; n. 326 del 2008; n. 401 del 2007; n. 80 e n. 29 del 2006; n. 272 del 2004)”[7]. Il corollario che consegue a tale ricostruzione è il carattere prevalente della disciplina statale “(…) sulle invocate competenze legislative regionali e regolamentari degli enti locali e, in particolare, su quella in materia di servizi pubblici locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano detta disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della concorrenza (sentenze n. 142 del 2010, n. 246 e n. 148 del 2009, n. 411 e n. 322 del 2008 (…)”.  Una volta proceduto all’inquadramento costituzionale della materia, i giudici delle leggi hanno affrontato la questione relativa all’assoggettamento al patto di stabilità delle società affidatarie in house. La norma censurata è la prima parte della lettera a) del comma 10 dell’articolo 23-bis. Nello specifico, la citata lettera a) prevede l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e l’osservanza, da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata, di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale. Secondo la Corte Costituzionale, la questione di legittimità costituzionale riguardante la prima parte della lettera a), id est quella relativa all’assoggettamento al patto di stabilità delle società in house, sarebbe fondata. In sostanza, questo il ragionamento dei giudici, l’ambito di applicazione del patto di stabilità rientra nella materia del “coordinamento della finanza pubblica”, come più volte chiarito dalla stessa Consulta (sentenze n. 237 e n. 284 del 2009). Trattandosi di ambito materiale riservato alla competenza legislativa concorrente Stato-Regioni, spetta alle Regioni l’elaborazione della disciplina di dettaglio. Infine, la suprema Corte, affrontando il tema dell’inquadramento costituzionale della materia del servizio idrico integrato, ha confermato che la relativa disciplina rientra a pieno titolo nell’ambito materiale della “tutela della concorrenza” e della “tutela dell’ambiente”: entrambe riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Il corollario che discende da tale inquadramento è che alle Regioni viene vietato di introdurre una disciplina derogatoria rispetto a quella statale, pena la violazione del parametro costituzionale che assegna allo Stato e solo allo Stato la tutela dell’ambiente.

3.      L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 24/2011 di ammissione del referendum popolare per l’abrogazione dell’articolo 23-bis

L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 24 del 26 gennaio 2011, con la quale la Consulta ha ritenuto ammissibile il referendum popolare per l’abrogazione dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/08 e s. m. e integrazioni, sintetizza, a pieno titolo, quelle dinamiche centrifughe che da sempre si agitano nel controverso mondo dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. In sostanza, la suprema Corte delle leggi, nello sviluppare la trama motivazionale a corredo della decisione di ammissibilità del referendum, ha rilevato che l’oggetto di quest’ultimo non è costituito da leggi tributarie o di bilancio, di amnistia o di indulto, costituzionali o a forza passiva rinforzata. Infatti, hanno soggiunto i giudici, l’oggetto del referendum è rappresentato dall’intero articolo 23-bis del d.l. n. 112/08 e dalle successive modifiche intervenute nel tempo. L’ammissibilità del quesito, dunque, viene fatta discendere dalla circostanza che la norma in parola “(…) risponde soltanto alla ratio di favorire la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica da parte di soggetti scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica e, a tal fine, limita i casi di affidamento diretto della gestione, consentendo la gestione in house (cioè una peculiare forma di gestione diretta del servizio da parte dell’ente pubblico, affidata senza gara pubblica) solo ove ricorrano situazioni del tutto eccezionali, che «non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato» (…)”. I giudici, inoltre, al fine di giustificare l’allineamento del quesito ai dettami dell’articolo 75 della Costituzione, hanno osservato che l’abrogazione non ha ad oggetto una legge a contenuto comunitariamente vincolato e che la stessa eventuale abrogazione non comporterebbe alcuna violazione degli obblighi comunitari. Per conferire maggiore credibilità all’assunto, i magistrati costituzionali hanno richiamato quanto precedentemente affermato nella sentenza della Corte n. 325/2010, esaminata nel paragrafo precedente. Nello specifico, viene richiamato il passaggio a tenore del quale la Consulta esclude espressamente che l’articolo 23-bis costituisca applicazione obbligata del diritto dell’Unione europea e che esso, invece, integra solo “(…) una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare il primo comma dell’art. 117 Cost. (…)”. I giudici costituzionali non hanno mancato di osservare che “(…) la stessa sentenza ha precisato che l’introduzione, attraverso il suddetto art. 23-bis, di regole concorrenziali (come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici) più rigorose di quelle minime richieste dal diritto dell’Unione europea non è imposta dall’ordinamento comunitario «e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost. (.…), ma neppure si pone in contrasto (.…) con la (.…) normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri» (…)”. Molto significativo è il successivo snodo argomentativo che la Corte compie nell’individuare la cosiddetta “normativa di risulta” applicabile nel caso di abrogazione dell’articolo 23-bis. I giudici hanno espressamente escluso in un’ipotesi del genere la reviviscenza della disciplina abrogata. A tal proposito, la Corte Costituzionale ha ricordato come in casi del genere la reviviscenza sia stata costantemente esclusa sia dalla propria giurisprudenza, con le sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997, sia da quella della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato. In altri termini, dall’eventuale abrogazione dell’articolo 23-bis conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum, relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica. Da tale considerazione ne discende l’ammissibilità del quesito, non sussistendo di impedimenti di natura comunitaria.

4.      La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 552/2011

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 325/2010 ha confermato la effettiva ortodossia dell’articolo 23-bis rispetto ai parametri costituzionali, nonostante la codificazione della regola generale che introduce il sostanziale divieto di gestione diretta dei SPL di rilevanza economica. La pronuncia del Consiglio di Stato n. 552/2011, tuttavia, sembra, almeno in parte, discostarsi dal principio fissato dalla Consulta ritenendo ammissibile l’affidamento della gestione diretta del servizio a patto, però, che ricorrano determinate condizioni. La vicenda nasce dall’affidamento diretto di un servizio consistente nella gestione delle lampade votive di un cimitero comunale. In origine, il servizio in parola era stato affidato senza l’espletamento di una gara di evidenza pubblica con la conseguenza che il giudice di prime cure ne aveva stigmatizzato l’illegittimità per violazione delle modalità di affidamento previste dall’articolo 23-bis  che, notoriamente, pone quale regola generale l’espletamento della gara. La decisione del tribunale amministrativo, con il senno del poi, è parsa in linea con la successiva pronuncia n. 325/2010 dei giudici costituzionali, dal momento che questi ultimi, come si è avuto modo di evidenziare nel precedente paragrafo 2, al punto 6.1. del “considerato in diritto” hanno puntualizzato che l’articolo 23-bis costituisce uno sviluppo del diverso principio generale rappresentato dal divieto della gestione diretta dei servizi pubblici locali da parte degli enti locali. Gli stessi giudici hanno soggiunto che tale opzione legislativa è espressione della discrezionalità attribuita allo Sato italiano dall’ordinamento comunitario. Dalla lettura dei riportati passaggi risulta di cristallina evidenza come la Consulta abbia bocciato, di fatto, la possibilità che un ente locale possa affidare senza il filtro di una procedura di evidenza pubblica la gestione di un servizio pubblico di rilevanza economica, con la conseguenza che gli affidamenti operati successivamente all’entrata in vigore dell’articolo 23-bis sarebbero destinati ad entrare nel fuoco di applicazione del comma 8, lett. e) della norma in questione, con inevitabile decadenza entro il 31 dicembre 2010. Di diverso avviso, invece, è parso il Consiglio di Stato. Infatti, i magistrati di Palazzo Spada, nel riformare la sentenza del primo giudice, hanno fatto notare come sussista una differenza di fondo tra “gestione diretta” e “affidamento diretto” di un servizio pubblico locale di rilevanza economica. A parere del Consiglio di Stato, la “gestione diretta” di un servizio di rilevanza economica sarebbe sempre possibile (se non auspicabile) in tutti quei casi in cui le ricadute di livello finanziario sull’ente affidante siano modeste. Diversamente, l’”affidamento diretto” sarebbe possibile nei confronti delle società miste - a patto che il partner sia stato scelto con procedura di evidenza pubblica, detenga almeno il 40% del capitale sociale e che ne siano stati determinati compiti, funzioni e durata -  e nei casi in cui l’affidamento in house sia praticabile (comma 3 dell’articolo 23-bis).  La conclusione cui approdano i supremi giudici amministrativi è che “(…) appartiene, in realtà, alla dimensione dell’inverosimile immaginare che un Comune di non eccessiva grandezza non possa gestire direttamente un servizio come quello dell’illuminazione votiva cimiteriale, esigente solo l’impegno periodico di una persona e la spesa annua di qualche migliaio di euro, laddove l’esborso sarebbe notoriamente ben maggiore solo per potersi procedere a tutte le formalità necessarie per la regolare indizione di una gara pubblica: il che basta ad avanza per togliere fondamento all’impugnata pronuncia semplificata[8] (come pure alle dedotte questioni di costituzionalità, pertinenti proprio al buon andamento della p.a., alla gestione dei pubblici servizi locali ed all’autonomia organizzativa dei comuni: esigenze pienamente soddisfatte dall’interpretazione qui favorita ed armonicamente inquadrabile pure in una prospettiva comunitaria) (…)”. Non vi è dubbio che la pronuncia del Consiglio di Stato sia stata ispirata da un evidente buon senso. Tuttavia, essa non pare immune da critiche. Infatti, viene da chiedersi come si possa ritenere “altro” la “gestione diretta” di un servizio rispetto ad un comune affidamento in house. Notoriamente, questa modalità gestionale configura la società affidataria (o l’imprenditore in forma individuale) come una sorta di longa manus della pubblica amministrazione affidante, con la conseguenza che, di fatto, anche in casi del genere sarebbe possibile parlare di “gestione diretta”. In realtà, è molto probabile che i magistrati di Palazzo Spada abbiano voluto introdurre un sano temperamento alla regola che impone alla stazione affidante l’acquisizione del preventivo parere dell’Autorità di vigilanza per la concorrenza ed il mercato in tutti quei casi in cui si tratti di affidare un servizio di modesto valore, ancorché leggermente superiore a € 200.000 annui: tetto posto dal d.p.r. n. 168/2010[9]. Se così fosse, la pronuncia andrebbe letta come una sorta di implicita critica postuma ai parametri introdotti dal legislatore delegato, con la conseguenza che assorbenti ragioni di finanza pubblica eviterebbero sempre il passaggio degli atti in seno all’Authority in tutti quei casi in cui la “gestione diretta” non dovesse incidere in alcun modo sul bilancio dell’ente affidante. A ben vedere, però, rimane irrisolto, sullo sfondo, il problema della vulnerazione del principio di libera concorrenza, atteso che, comunque, si tratterebbe di servizi di rilevanza economica che, gioco forza, finiscono per avere un impatto sulle dinamiche di mercato, condizionandole, anche se gestiti direttamente dalla P.A. mediante l’impiego di imprenditori individuali scelti senza il filtro cogente di una procedura di evidenza pubblica. 

5.      La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 77/2011

 

La sentenza del Consiglio di Stato n. 77/2011 ha introdotto nel circuito giurisdizionale un fondamentale principio di diritto: l’operatività extra moenia delle società miste. La questione, invero, non è nuova ed è stata più volte sollevata precedentemente, anche dalle pagine di questa Rivista[10]. In sostanza, i giudici di Palazzo Spada hanno operato un chiaro discrimen tra le società a capitale interamente pubblico, che producono beni e servizi strumentali ai fini istituzionali degli enti partecipanti, e le società miste che “(…) pur non avendo un oggetto sociale esclusivo circoscritto come tale alla sola operatività con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti (e quindi svolgendo sia servizi pubblici locali, sia altri servizi e forniture di beni a favore degli enti pubblici e privati partecipanti nonché a favore di altri enti o loro società o aziende pubbliche e private), operano comunque, nel pieno rispetto delle regole di concorrenza imposte dal mercato ed altresì nel pieno rispetto delle regole previste per le procedure di affidamento dei contratti pubblici (…)”. Il principio sopra riportato vale anche nei casi in cui i moduli societari misti siano chiamati a produrre beni e servizi strumentali all’attività degli enti costituenti e partecipanti in quanto “(…) le ben differenti caratteristiche giuridiche delle società c.d. “strumentali” e delle società c.d.”miste” (…)” evidenziano come  sia chiaramente distinto “(…) il modello organizzativo della società mista da quello dell’in house providing; il tutto, anche con riguardo alla testuale finalità della speciale disciplina limitativa di cui all’art. 13, 1° e 2° comma del citato D.L. n. 223 del 2006, ossia alla finalità di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori (…)”. In conclusione, con un coraggioso decisum, i supremi giudici amministrativi hanno sancito l’operatività extra moenia anche di quelle società miste che, seppur chiamate ad erogare servizi strumentali al raggiungimento dei fini istituzionali dell’ente partecipante, si caratterizzano per l’assenza di esclusività dell’oggetto sociale il che, tenuto conto della particolare configurazione organizzativo-gestionale di tali moduli societari, ne renderebbe possibile il collocamento su mercati diversi. Si tratta di una pronuncia che sgombra il campo da un equivoco di fondo: quello dell’omologia tra le società miste, destinate alla produzione di beni e servizi strumentali ai fini istituzionali dell’ente costituente e partecipante, e le società a capitale interamente pubblico, aventi la stessa mission d’impresa. Assoggettare entrambe alle stringenti limitazioni contenute nei commi 1 e 2 dell’articolo 13 del d.l. n. 223/2006 significherebbe negare la diversa configurazione strutturale e gestionale dei modelli societari in discorso e svuotare di contenuto la stessa funzione della gara pubblica - anche in un‘ottica costituzionalmente orientata - volta alla scelta del partner privato, nello stesso tempo socio “industriale” e soprattutto socio “operativo”.

 

6.      La deliberazione Corte dei Conti - Sez. regionale di controllo per la Liguria – n. 166/2010

La deliberazione della Corte dei Conti n. 166/2010[11], Sezione di controllo di Genova, ha affrontato il controverso tema del divieto di costituzione di nuove società pubbliche posto dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010. La questione non è di poco momento, come dimostrato dai diversi orientamenti che si sono formati sul punto. Nello specifico, la Corte dei Conti ligure ha ritenuto che il divieto posto dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010 non integrasse gli estremi di una semplice limitazione della possibilità di costituire delle società pubbliche nei Comuni con meno di 30.000 abitanti, in forma individua o consorziata, ma ponesse un insuperabile ed inderogabile divieto. La deliberazione in parola mostra di condividere la deliberazione resa dalla Corte dei Conti, Sezione Lombardia, n. 861/2010/PAR[12], con la quale i giudici contabili hanno sostenuto che l’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010 contenesse un vero e proprio divieto e che la relativa previsione si discostasse da quanto previsto dall’articolo 3, commi 27, 28 e 29 della legge n. 244/2007, in quanto disposizioni che operano su piani diversi. La Corte dei Conti ligure, allineandosi a quella lombarda, ha affermato che, l’una, vale a dire l’articolo 3, comma 27, della legge n. 244 del 2007, opera sul piano delle finalità e degli scopi che l’ente può raggiungere con la partecipazione societaria, l’altra, cioè l’articolo 14, comma 32, del d.l. n. 78 del 2010, invece, agisce sul piano numerico ed operativo, prevedendo quest’ultima che, in ogni caso, ciascun ente non possa detenere un numero di partecipazioni superiore a quello previsto dalla norma. In sostanza, i giudici contabili ritengono che l’articolo 14, comma 32, piuttosto che introdurre una limitazione, inserisce nel sistema ordinamentale italiano un vero e proprio divieto di costituire società pubbliche per quei Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti.  Il percorso logico argomentativo seguito dalla Corte muove dal presupposto che, diversamente opinando, “(…) significherebbe per il legislatore avere posto una norma contraddittoria perché già l’articolo 3, comma 27, ha imposto la limitazione dell’uso dello strumento societario correlandolo alle finalità dell’ente. In sostanza, saremmo in presenza di una disposizione contraddittoria e, nella sostanza, priva di rilievo poiché i Comuni con popolazione inferiore ai 50.000 abitanti potrebbero continuare a costituire (omissis) società purché riconoscano la finalità disciplinata dall’art. 3, comma 27 (…)”. L’assunto non convince. In primo luogo, l’articolo 14, comma 32, demanda ad un decreto interministeriale il compito di individuare le tipologie di società pubbliche non assoggettate al divieto. Se si fosse trattato di un perentorio divieto e non di una mera limitazione della possibilità di costituire nuove società pubbliche per i Comuni con popolazione inferiore ai 30.000 abitanti non ci sarebbe stato bisogno di un decreto interministeriale di chiarimento. In secondo luogo, l’orientamento della maggior parte dei giudici contabili[13] mostra di considerare la previsione contenuta nell’articolo 14, comma 32, come recante una mera limitazione alla possibilità di costituire società pubbliche nei casi in cui si tratti di moduli societari non necessari alla realizzazione dei fini istituzionali dell’ente costituente e non erogatori di servizi di interesse generale. Del resto, la ratio della norma è quella di alleggerire i costi della finanza pubblica e non certo quella di penalizzare l’interesse generale attraverso la gestione diretta del servizio.

7.      Il parere della CONVIRI n. 6883/2011

Il parere della CONVIRI n. 6883[14] del 19 gennaio 2011 ha affrontato un tema molto delicato e di evidenti ricadute pratiche: la revisione del piano d’ambito ai fini di una ottimale gestione della gara per l’individuazione del socio privato della società in house gestore del servizio. La CONVIRI, con il parere in esame, ha ritenuto possibile una revisione anticipata del piano d’ambito nell’ipotesi in cui i Comuni aderenti all’A.t.o. e nello stesso tempo soci della società, gestore in house, decidano per la modifica dell’assetto societario prevedendo l’ingresso di un partner privato, dando luogo, di guisa, ad una novazione soggettiva del rapporto obbligatorio. Infatti, proprio la partecipazione societaria del socio privato, nella sua funzione “operativa” ed “industriale”, determina il coinvolgimento di fatto di quest’ultimo nella gestione del servizio o in fasi dello stesso, costituendo condizione sufficiente perché l’intera operazione possa atteggiarsi a nuovo affidamento. Quando ricorrono tali presupposti, la revisione del piano d’ambito del servizio idrico prima dei tre anni previsti dall’articolo 8 del cosiddetto “Metodo normalizzato” non solo è possibile ma integra gli estremi di un atto dovuto finalizzato a garantire, nell’ottica dello svolgimento della gara, l’osservanza del principio di trasparenza in merito all’acquisizione, da parte di potenziali concessionari interessati alla procedura, delle informazioni necessarie riguardanti l’oggetto della concessione, nonché la natura e l’estensione delle prestazioni attese dal concessionario. A tal proposito, precisa la CONVIRI che, nel caso della gara per il reperimento del socio privato della società di gestione del servizio idrico integrato, tali “informazioni necessarie” sono contenute nel piano d’ambito il quale, pertanto, deve essere il più possibile aggiornato ed aderente alla realtà.     

8.      Conclusioni

La disciplina dei SPL di rilevanza economica sembra proprio non avere pace. Le recenti sortite della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato mostrano ancora una volta, sempre che ve ne fosse bisogno, come i principi codificati nel tempo dalla Corte di Giustizia e stratificatisi nel diritto interno presentino una connaturata fragilità. Il punto nodale della disciplina in parola era e rimane la eccezionalità della gestione in house, atteso che l’opzione legislativa scelta dal legislatore italiano, pur essendo in linea con i parametri costituzionali ed europei, ha finito per incidere su interessi di vario genere consolidatisi nel corso degli anni passati. A questo si aggiunga il falso problema della privatizzazione dell’acqua che, notoriamente, era e rimane di proprietà pubblica ma che, invece, ha scatenato una vera e propria “guerra santa” da parte di numerose Regioni contro il testo riformato dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008, nel tentativo di demolirne i postulati innanzi alla Corte Costituzionale. Francamente, non può non colpire che il testo di legge recante la riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, risalente al 2008 (novellato nel 2009, cui ha fatto seguito il regolamento di attuazione nel 2010), abbia subito in così poco tempo varie “aggressioni”. Oggi, addirittura, a seguito dell’ordinanza n. 24/2011 della Corte Costituzionale, con la quale è stato ammesso il referendum abrogativo dell’articolo 23-bis, la riforma dei SPL sembra più che mai destinata ad essere sostituita da una non molto chiara ed avveniristica “controriforma”. Prima ancora che il destino dell’articolo 23-bis si compia per mano del referendum, a quanto è dato sapere dagli organi di stampa, sembra che il Governo, giocando d’anticipo, starebbe pensando all’introduzione di alcune  modifiche al testo di legge. Se vero, viene da chiedersi a cosa serviranno una volta che sulla riforma si sarà abbattuta la “spada di Damocle” della consultazione referendaria. Allora, appare evidente che, in un contesto politico-legislativo-giurisprudenziale così contorto, un settore nevralgico come quello delle public utilities non potrà mai essere regolamentato da regole certe e stabili e quasi diventa anche normale e fisiologico che il Consiglio di Stato corregga la Corte Costituzionale, che quest’ultima “censuri” il Legislatore e che il Legislatore “stabilizzi” l’esercizio della funzione legislativa per decretazione d’urgenza. Questa pericolosa distonia tra gli organi istituzionali, chiamati a vario titolo a dirimere i dubbi ermeneutici che possono sorgere dall’implementazione delle norme, non aiuta certo il rilancio e la credibilità del settore e, in ultima analisi, tradisce la stessa ratio dei servizi pubblici locali: il pieno soddisfacimento dell’interesse generale.



Professore di Organizzazione Aziendale e delle Public Utilities presso l’Università degli Studi della Calabria e partner dello studio legale internazionale Cristofano, Guzzo & Associates.

[1] Per una consultazione integrale del testo dell’ordinanza n. 24/2011 si rinvia a www.dirittodeiservizipubblici.it, 26 gennaio 2011.

[2] Per una consultazione integrale del testo della sentenza n. 77/2011 si rinvia al sito  www.dirittodeiservizipubblici.it, 11 gennaio 2011.  

[3] Per una consultazione integrale del testo della sentenza n. 552/2011 si rinvia al sito www.dirittodeiservizipubblici.it, 26 gennaio 2011.  

[4] Per una consultazione integrale del testo della sentenza n. 325/2010 si rinvia a www.dirittodeiservizipubblici.it, 17 novembre 2010.

[5] Per una consultazione integrale del testo del parere n. 6883/2011 si rinvia al sito www.conviri.it.

[6]Per un approfondimento sui contenuti delle richiamate sentenze si rinvia a G. Guzzo, “Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale”, in  www.lexitalia.it, n. 7-8/ 2006.

[7]Per una lettura del testo integrale di tutte le sentenze della Corte Costituzionale richiamate si rinvia al sito www.cortecostituzionale.it. 

[8] T.a.r. Emilia-Romagna, Bologna, Sezione I, sentenza  n. 460/2010; in www.giustizia-amministrativa.it

[9] Per un approfondimento sul d.p.r. n. 168/2010 si rinvia a G. Guzzo, Le nuove regole dei SPL alla luce della disciplina attuativa introdotta dal d.p.r. n. 168/2010, in www.dirittodeiservizipubblici.it,  22 ottobre 2010. 

[10] G. Guzzo, Servizi pubblici locali, Costituzione e giurisprudenza comunitaria: alcune riflessioni all’indomani della riforma “Bersani” e del ddl di delega n. 772 del 4 luglio 2006, in www.lexitalia.it, n. 7-8/2006; G. Guzzo, Affidamenti in house. Corte di Giustizia e Consiglio di Stato: Convergenze parallele. Extraterritorialità, regime transitorio e concorrenza delle società miste secondo la più recente teorica del giudice amministrativo e del legislatore italiano, in www.dirittodeiservizipubblici.it, 2 agosto 2006; G. Guzzo, Articolo 13 del d.l. 223/06 ed extraterritorialità delle società miste nella più recente (e controversa) interpretazione della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato, in www.dirittodeiservizipubblici.it, 14 ottobre 2008; G. Guzzo, La controriforma dei servizi pubblici locali e il problema irrisolto dell’operatività delle società miste, in www.dirittodeiservizipubblici.it,  13 ottobre 2009                                                                                                                                                 [11] Per una consultazione integrale del testo del parere n. 166/2010 si rinvia al sito www.corteconti.it.

[12] Per una consultazione integrale del testo del parere si rinvia al sito www.corteconti.it.

[13] Ex multis: deliberazione della Corte dei Conti, Puglia, n. 76/2010. Per un approfondimento si rinvia a G. Guzzo, Le nuove regole dei SPL alla luce della disciplina attuativa introdotta dal d.p.r. n. 168/2010, in www.dirittodeiservizipubblici.it,  22 ottobre 2010; cit.

[14] Per una consultazione integrale del testo del parere si rinvia al sito www.conviri.it.

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