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Teoremi interpretativi dell’art. 14 comma 32 del D.l. 78/2010 sui limiti imposti agli enti locali a detenere società
di Roberto Camporesi 9 maggio 2012
Materia: società / partecipazione pubblica

Teoremi interpretativi dell’art. 14 comma 32 del D.l. 78/2010 sui limiti imposti agli enti locali a detenere società

  di Roberto Camporesi[1]

 

INDICE

 

-          Premessa; 1. La norma oggetto di interpretazione: l’art. 14 comma 32 del D.L. 78 del 2010; 2.  L’articolato quesito sottoposto alla Corte Conti Emilia Romagna; 3. La sofferta analisi esegetica della norma fra interpretazione letterale e approcci teleologici: le società ricadenti  nel divieto imposto dalla legge; 4. I casi di mantenimento delle partecipazioni espressamente previsti dalla norma di legge; 5.  I Comuni con popolazione compresa fra i 30.000 e 50.000 abitanti: il termine per mantenere una sola partecipazione in società di capitali; 6. La liquidazione delle società non detenibili e tecniche gius-commercialistiche per uscire dalla compagine sociale: riflessi economici sul socio; 7.  Le disposizioni dell’art. 14 comma 32 e gli altri organismi partecipati (o vigilati) dall’ente locale diversi dalle società di capitali

 

Premessa

Il legislatore continua a emanare disposizioni di legge limitative della possibilità di utilizzare, mantenere e/o costituire società di capitali da parte degli enti locali (quali ad esempio l’art. 3 commi 27 e seguenti della Legge Finanziaria per il 2008, l’art. 13 del D.L. 223/2006 – decreto Bersani, l’art. 14 comma 32 del dl 78/2010)

A fronte di tale copiosa, per quanto disorganica produzione legislativa, continuamente soggetta a modificazioni, le difficoltà interpretative sono assai evidenti e si può certamente affermare che tale  “turbinio” normativo determina comportamenti sempre più estemporanei,  il più delle volte causa di disfunzioni se non addirittura diseconomie (per non parlare di veri e propri danni).

Mentre il giudice amministrativo non ha ancora esaminato le questioni più spinose,  è estremamente vasta la produzione di pareri resi alle regioni e agli enti locali, nel caso che verrà esaminato ai sensi dell’art. 7. comma 8 della legge 131/2003, da parte delle sezioni di controllo delle Corti dei Conti.

Pareri che si dirigono non solo nella direzione di rispondere a quesiti relativi a casi concreti ma si va sempre di più diffondendo la richiesta di pareri sull’interpretazione di molteplici  fattispecie prese in considerazioni dalla legge, da cui derivano veri e propri compendi che si elevano a mini trattati sull’argomento: l’ultimo caso registrato è il parere della Corte dei Conti sezione controllo per l’Emilia Romagna  n. 9  del 13/2/2012.

1. La norma oggetto di interpretazione: l’art. 14 comma 32 del D.L. 78 del 2010.

Si riporta di seguito il testo di legge, che dovrebbe essere quello in vigore. L’utilizzo del condizionale è riferito al fatto che  risulta appena convertito in legge, con modificazioni, il D.L. 29/12/2011 n. 216 (cd. decreto mille proroghe) che ha  apportato un’ulteriore modifica nei termini temporali, come in appresso precisato.

La norma in discussione è contenuta nel D.L. 31-5-2010 n. 78 (rubricato “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”), pubblicato nella Gazz. Uff. 31 maggio 2010, n. 125, S.O, e segnatamente nell’art. 14 (intitolato “Patto di stabilità interno ed altre disposizioni sugli enti territoriali”).

« 32.  Fermo quanto previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire società. Entro il 31 dicembre 2012[rectius 30 settembre 2013] i comuni mettono in liquidazione le società già costituite alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero ne cedono le partecipazioni. Le disposizioni di cui al secondo periodo non si applicano ai comuni con popolazione fino a 30.000 abitanti nel caso in cui le società già costituite:

a)  abbiano, al 31 dicembre 2012 [rectius 30 settembre 2013], il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi;

b)  non abbiano subìto, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio;

c)  non abbiano subìto, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato dell’obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime.

La disposizione di cui al presente comma non si applica alle società, con partecipazione paritaria ovvero con partecipazione proporzionale al numero degli abitanti, costituite da più comuni la cui popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti; i comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione di una sola società; entro il 31 dicembre 2011 i predetti comuni mettono in liquidazione le altre società già costituite. »

La disciplina contenuta nella norma su menzionata è stata completata con la disposizione contenuta  al comma 26 dell’art. 16  (rubricato “Riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni e razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali”) portata dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 comma 26 (intitolato “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo” in GU n.188 del 13-8-2011[2] convertito con modificazioni dalla L. 14 settembre 2011, n. 148 (in G.U. 16/09/2011, n. 216).

28. Al fine di verificare il perseguimento degli obiettivi di semplificazione e di riduzione delle  spese da parte degli enti locali, il prefetto accerta che gli enti territoriali interessati abbiano  attuato, entro i termini stabiliti,  quanto  previsto dall'articolo 2, comma 186, lettera e), della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e successive modificazioni, e dall'articolo 14, comma 32, primo periodo, del citato decreto-legge  n.  78  del  2010,  come  da ultimo modificato dal comma 27 del presente  articolo.  Nel  caso  in cui, all'esito  dell'accertamento,  il  prefetto  rilevi  la  mancata attuazione di quanto previsto dalle  disposizioni  di  cui  al  primo periodo, assegna agli enti inadempienti un termine  perentorio  entro il  quale  provvedere.  Decorso inutilmente  detto  termine, fermo restando quanto previsto  dal  secondo  periodo,  trova  applicazione l'articolo 8, commi 1, 2, 3 e 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131.”

Unicamente per questioni di approccio sistematico al contenuto della norma se ne riporta una interpretazione letterale, ben consci che da più parti proprio l’interpretazione letterale darebbe luogo a critiche non tanto e non solo perché presenta profili di dubbia legittimità costituzionale e crea una ingiustificata disparità di trattamento fra comuni con popolazione  inferiore a 30.000,00 – per i quali si possono invocare le deroghe che consentano ad essi di mantenere partecipazioni societarie di numero infinito – rispetto ai comuni con popolazione superiore a 50.000,00 – per i quali solo una società può essere mantenuta – ma in particolare per gli effetti negativi che dal punto di vista economico si creerebbero sul bilancio dell’ente socio (il comune) se si applicasse in modo pedissequo la messa in liquidazione delle società,  così come imporrebbe la legge, in spregio dunque all’intento sperato di indurre minor dispendio di risorsa pubblica[3].

La norma si articola in quattro parti:

- la prima parte: il comma in commento esordisce con il rimando ad altre disposizioni di legge previgenti e segnatamente l’art. 3 commi 27, 28 e 29 della legge finanziaria 2008. Esse vengono richiamate attraverso la locuzione “fermo restando” che significa che le predette disposizioni mantengono la loro efficacia anche sulle fattispecie incise dalla norma che le richiama e l’interpretazione finale viene determinata secondo il combinato disposto delle due norme: la novella e quella richiamata.

Per quanto interessa in questa sede si ricorda che l’art. 23 comma 27 della legge finanziaria pone un divieto alle P.A. di detenere partecipazioni in società di capitali e testualmente recita: << non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. È sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e l'assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni (….) nell'ambito dei rispettivi livelli di competenza.>>. Il  tenore letterale della norma richiamata porterebbe ad affermare che permane  la possibilità di costituire (anche ex novo) società per la produzione di servizi di interesse generale quale regola assoluta ed immanente. Diversamente, per le società strumentali la doppia negazione utilizzata dal legislatore, sembrerebbe rendere meno certa, alla luce della nuova normativa, la possibilità di continuare a detenere tali partecipazioni in quanto l’interpretazione letterale della norma non è chiara come la disposizione relativa alle società che erogano servizi di interesse generale[4];

- la seconda parte della norma impone ai comuni con popolazione sotto i 30.000 abitanti (i) un divieto e (ii) un obbligo di comportamento: il divieto è rappresentato dalla impossibilità di costituire società, l’obbligo di comportamento è rappresentato dalla cessione della partecipazione o messa in liquidazione delle società  già costituite alla data di entrata in vigore del presente decreto, da attuarsi entro il 30/9/2013[5].

-  la terza parte della norma contempla tre deroghe all’applicazione della norma da parte dei comuni a minor densità abitativa (popolazione inferiore a 30.000 abitanti): Le deroghe si verificano:

* in presenza di società con partecipazioni di comuni paritetiche fra loro, la cui somma di abitanti superi le 30.000 unità;

*  in presenza di società con partecipazioni di comuni fra loro proporzionali al numero di abitanti, la cui somma deve superare le 30.000 unità;

*  la società abbia chiuso gli ultimi tre esercizi in utile alla data del  30.09.2013 e nei precedenti non si siano verificate coperture di perdite.

-  la quarta parte della norma riguarda l’obbligo posto a capo dei comuni a maggior densità abitativa (con popolazione compresa fra i 30.000 e 50.000 abitanti) di detenere una sola partecipazione societaria; entro il 31 dicembre 2011 i predetti comuni mettono in liquidazione le altre società già costituite.

2. L’articolato quesito sottoposto alla Corte Conti Emilia Romagna

Il presidente del Consiglio delle Autonomie locali dell’Emilia Romagna ha avanzato alla sezione controllo della Corte dei Conti dell’Emilia Romagna i seguenti quesiti

a) se tra le società partecipate dai Comuni di ridotte dimensioni demografiche (con popolazione sino a 30.000 abitanti) e di medie dimensioni (con popolazione compresa tra i 30.000 ed i 50.000 abitanti) che devono essere poste in liquidazione rientrino le società di trasporto pubblico locale e le società quotate in borsa;

b) se per i suddetti Comuni alcune tipologie di società previste dal TUEL (società che gestiscono servizi pubblici locali a rilevanza economica ex art. 113; società patrimoniali alle quali sono state conferite le reti ex art. 113, comma 13; società di trasformazione urbana ex art. 120) siano consentite;

c) il significato da attribuire alla deroga per le società che negli ultimi tre esercizi hanno registrato utili di esercizio;

d) quali siano le modalità attraverso le quali si deve procedere alla liquidazione della società, ed i riflessi che le varie fasi della liquidazione hanno sulle scritture contabili dell’ente socio;

e)  l’esclusione delle aziende speciali consortili e dei consorzi di servizi dalla disciplina in esame;

f) l’applicabilità delle deroghe previste per le partecipazioni in società da parte dei Comuni con meno di 30.000 abitanti alle partecipazioni in società da parte dei Comuni con numero di abitanti compreso tra i 30.000 ed i 50.000.

3. La sofferta analisi esegetica della norma fra interpretazione letterale e approcci teleologici: le società ricadenti nel divieto imposto dalla legge

La Corte dei Conti prima di affrontare nel merito i singoli quesiti ritiene, opportunamente,  affrontare il tema di fondo dell’evoluzione della legislazione in tema di società a partecipazione pubblica, nel tentativo di coglierne la “ratio”, per poi passare alla interpretazione generale dell’art. 14 comma 32 in discussione, alla luce degli arresti più recenti delle deliberazioni delle sezioni controllo delle Corti dei Conti.

L’approccio seguito dalla Corte dei conti dell’Emilia Romagna consente di fare una rassegna delle diverse posizioni interpretative che si sono succedute nel tempo, infatti dalla seconda metà del 2010 (periodo nel quale viene pubblicato il D.L. 78) le sezioni  controllo delle Corti dei Conti si sono espresse sull’argomento affermandosi tre tesi diverse:

1) sez. controllo Puglia (la prima in ordine di tempo) e che si basa sul principio interpretativo della prevalenza della norma speciale (esempio art. 23 bis d.l.112/2008 oppure anche art. 120 (STU) ma pure art. 116 del tuel) sulla norma generale anche se posteriore (appunto il comma 14 dell'art. 32 citato). Ne consegue che sono sempre detenibili ovvero anche con nuove costituzioni le società previste da norme di legge che devono ritenersi di rango speciale rispetto la norma generale invece contenuta nell’art. 14 comma 32 in commento;

2) sez. controllo Lombardia - la prima in ordine di tempo della sezione Lombardia e Piemonte che farebbero riferimento alla prevalenza solo delle norme che impongono società e non quelle che genericamente lo consentono.

3) sez. Lombardia, nelle deliberazioni più recenti che invece affermano il c.d doppio binario[6]: i comuni sotto i 30.000 abitanti soggiacciono a due vincoli: il primo qualitativo e cioè  possono partecipare solo a società che rispondano ai requisiti di cui all'art. 3 comma 27 L.F. 2008 (come tutti gli altri comuni); il secondo quantitativo, nel senso che verificato il primo requisito non possono comunque detenere nessuna partecipazione in società a meno che la partecipazione non sia proporzionale o paritetica con altri comuni per i quali la somma degli abitanti supera 30.000, ovvero le società abbiano chiuso in utile gli ultimi tre esercizi al 30/09/2013 e non abbiano coperto perdite negli esercizi successivi. Quest’ultima linea interpretava, a cui si uniforma anche la deliberazione n. 9 della Corte dei Conti Emilia Romagna, sembra prevalere fra le diverse sezioni controllo del Giudice Contabile e ciò lo si desume sia dalle successive interpretazioni della stessa Corte dei Conti[7] che  dal tenore dell’art. 4 comma 32 del DL 78/2010 (rubricato “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’unione europea”) che esordisce con l’affermazione: “Fermo restando l’art. 14 comma 32 del DL 78/2010” e poi disciplina il regime transitorio degli affidamenti in essere dei servizi pubblici locali. 

Ritornando alla delibera della Corte dei Conti Emilia Romagna si rileva che viene condivisa la teoria del c.d doppio binario e quindi non ha riconosciuto la esclusione dal campo di operatività del divieto contenuto nella norma nei casi esaminati:

-  partecipazioni in società quotate in Borsa;

-  partecipazioni in società che gestiscono servizi pubblici locali;

-  partecipazioni in società patrimoniali,

-  partecipazione in società di trasformazione urbana.

Di particolare interesse la digressione del Giudice contabile sulle società patrimoniali laddove afferma:  1.3.4. Quanto poi alla costituzione e/o al mantenimento di partecipazioni in società patrimoniali valgano le seguenti considerazioni. La possibilità per gli enti locali di costituire società (a capitale interamente pubblico incedibile) cui conferire “la proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni destinate all’esercizio di servizi pubblici locali di rilevanza economica” era prevista e disciplinata dall’articolo 113, commi 2 e 13. Successivamente l’articolo 23 bis, comma 5, d.l. n. 112/2008 ha stabilito che “ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati”. A seguito poi del risultato positivo della consultazione referendaria tenutasi nel mese di giugno 2011 avente ad oggetto l’articolo 23 bis, comma 5, d.l. cit., che era stato quindi abrogato, l’articolo 4, comma 28, d.l. 138/2011 ha riprodotto letteralmente la disposizione ivi contenuta. Ne deriva, pertanto, che la società patrimoniale ex art. 113, commi 2 e 13, è da considerarsi una modalità organizzatoria superata e non più consentita, dovendo rimanere pubblica la proprietà delle reti, impianti ed altre dotazioni patrimoniali relative a servizi pubblici locali di rilevanza economica, potendo, al più, essere affidata a soggetti privati la sola gestione delle reti (cfr. Corte Costituzionale 25 novembre 2011, n. 320).In conclusione, ritiene la Sezione che gli enti locali a densità demografica ridotta e/o media, non solo non potranno costituire nuove società patrimoniali in ragione del divieto disposto dall’articolo 14, comma 32, d.l. cit., e della previsione contenuta nell’articolo 4, comma 28, d.l. 138/2011, ma dovranno anche dismettere le società patrimoniali ancora oggi operanti, non essendo più consentito che la proprietà delle reti, impianti ed altre dotazioni destinate all’esercizio di servizi pubblici locali a rilevanza economica sia detenuta da società. Nei limiti previsti dall’articolo 14, comma 32, d.l. 78/2010 la predetta tipologia di enti locali potrà, al più, costituire società e/o detenere partecipazioni in società cui è affidata la gestione delle reti.

Pertanto la partecipazione in società patrimoniali, costituite ex art. 113 comma 13 del Tuel, secondo il Giudice contabile, sarebbe vietata ai comuni di modesta e media densità demografica sia in base alle disposizioni contenute nell’art. 14 comma 32 citato che anche in base all’interpretazione della Corte Costituzionale, sopra citata. Se da un  lato si rileva lo zelo del Giudice Contabile nel recepire la recentissima sentenza del Giudice delle Leggi, dall’altro lato si condivide l’affermazione di quell’autore [8] che avrebbe ritenuto altresì interessante che la sezione di controllo della Corte dei conti dell’Emilia Romagna, avesse espresso la propria opinione anche: “sulla necessità o meno di retrocedere la proprietà delle reti già conferite dai soci pubblici prima della sentenza della Corte costituzionale”. L’argomento è assai delicato e prefigura scenari futuri alquanto paradossali. Da un lato si potrebbe addirittura ipotizzare un’interpretazione in base alla quale le società delle reti debbono cedere o quanto meno retrocedere la proprietà delle reti, impianti e dotazioni patrimoniali ai comuni soci, in quanto ritenuti beni del loro demanio. Tale soluzione non è certamente percorribile né nella forma del riacquisto, per evidente carenza di risorse finanziarie, né tantomeno per effetto della liquidazione del patrimonio della società delle reti che arriverebbe ad assegnare i beni natura al socio comune con l’annesso accollo dei muti residui da pagare. Ma guarda caso è proprio la stessa deliberazione in commento ritiene  non “ corretto procedere, come prospettato nella richiesta di parere, ad un trasferimento all’ente proprietario dei valori patrimoniali attivi (attività immobiliari e mobiliari) e passivi (mutui) durante lo svolgimento della fase liquidatoria. Ciò contrasterebbe, infatti, sia con la disciplina codicistica, che, anche durante lo svolgimento della procedura di liquidazione, non prevede alcuna confusione tra patrimonio della società e patrimonio personale del singolo socio, e, ancora di più, con il principio della responsabilità per debiti secondo il quale per le obbligazioni sociali risponde solo la società con il suo patrimonio (art. 2325, comma 1 c.c.).”. Sul punto della procedura della liquidazione di società di capitali si riprenderà in appresso in relazione all’interpretazione “codicista” che fa propria il Giudice Contabile, che non appare condivisibile.

In questo contesto, sulla sorte delle società delle reti sarebbe quantomeno opportuno un intervento del legislatore, perché la questione è troppo delicata. Certamente alcuni principi occorre fin d’ora considerare come punti fermi sui quali avere conferma del legislatore stesso: (i) l’interpretazione della Corte Costituzionale non può che produrre effetti pro futuro e non può incidere sulle società antecedentemente costituite (ii) sarà necessario definire le specifiche fattispecie dei beni che debbono rimanere in mano pubblico (come afferma l’art. 4 del D.L. 138/2010) nel senso che si chiarisca se sono i beni di proprietà degli enti locali (infatti la Corte Costituzionale rimanda alla disciplina del “demanio accidentale” applicabile a quei beni che sono qualificabili demaniali solo se di proprietà degli enti pubblici); oppure anche quelli di proprietà delle società delle reti.

Riprendendo il ragionamento di fondo, la tesi del doppio binario non convince.  Infatti una recente presa di posizione un’autorevole dottrina[9] ha rilevato che : “ …la norma non si riferisce a tutte le società, ma solo a quelle che non hanno una regolamentazione di settore (queste ultime si pongono in posizione nei confronti della norma). A confermarlo oltre a numerosi pareri della Corte dei Conti, anche i differenti poteri affidati al Prefetto che attribuisce un termine al Comune  e se questo non adempie nomina un commissario per la messa in liquidazione  della società (art. 16 comma 14 del decreto legge 138/2011). Invece l’art. 4 comma 32 bis, del medesimo decreto legge 138/2011 fissa regole diverse e più prudenti”[10]. La asimmetria della disciplina dell’intervento del Prefetto nel caso di inadempimento dell’art. 4 del D.L. 138/2011 rispetto all’inadempimento dell’art. 14 comma 32, qui in discussione, acutamente rilevata dalla dottrina citata, porta a concludere che per le società partecipate dai comuni che svolgono servizi pubblici locali qualora si determini una violazione del comma 32 del predetto art. 4, l’intervento prefettizio, decorso anche il termine di “grazia” assegnato, non da luogo alla liquidazione della società o alla cessione delle relative quote di partecipazione ma bensì unicamente alla attuazione, con intervento ad acta degli obblighi di conformarsi ai nuovi modelli organizzatori per la gestione dei servizi pubblici locali.

Le motivazioni esposte dalla dottrina citata confermano e aggiungono considerazioni che spingono a ritenere che la corretta interpretazione dell’art. 14 comma 32 citato non possa prescindere dal fatto che il divieto di detenere partecipazioni in società, ivi contenuto, non può essere “acriticamente” esteso a tutte le società cui partecipano (o possono partecipare) i comuni con dimensione demografica limitata. Ciò soprattutto quando è lo stesso ordinamento che prevede già lo strumento della società partecipata dai comuni: come nel caso dei servizi pubblici locali.

Vengono quindi in rilievo due critiche all’interpretazione del c.d. “doppio binario” proposto dai pareri della corte dei Conti che fanno propendere per la più corretta interpretazione offerta dalla dottrina.

In primo luogo si fa riferimento al fatto che l’interpretazione della limitazione del divieto contenuto nell’art. 14 comma 32 appare più coerente secondo una lettura rispettosa dei principi costituzionali. E’ evidente che nel caso dell’art. 14 comma 32 il legislatore non è certamente intervenuto per tutelare la concorrenza o l’apertura o liberalizzazione dei mercati,  come invece ha fatto con l’art. 4 del D.L. 138/2011 convertito con  modifiche nella Legge 14/2011. La “ratio” sottesa è unicamente  la tutela della finanza pubblica e allora sorgono dubbi che il legislatore nazionale abbia competenza legislativa esclusiva fino al punto di “obbligare” gli enti locali a mettere in liquidazione le proprie società partecipate ovvero cederne la partecipazione quando queste sono modelli di organizzazione di servizi o attività riservate per legge agli enti medesimi, come appunto il caso delle società per la gestione dei servizi pubblici  locali conformi al dettato dell’art. 4 del citato D.L. 138/2011[11].

In secondo luogo si fa riferimento al fatto che è ben evidente che nell’ordinamento italiano talune norme che prevedono l’utilizzo delle società partecipate dagli enti locali sono da intendere quali norme “speciali” in quanto assegnano alla società una “funzione” pubblicistica diversa da quella del mero scopo di lucro. Non si possono non menzionare a tal riguardo le Società di trasformazione urbana che, ai sensi dell’art. 120 del Tuel, sono strumenti di intervento urbanistico in mano alla Pubblica Autorità competente alla tutela e alla gestione del territorio; come pure le società previste dall’art. 52 del D.ls 446 del 1997, che sono meramente strumenti per l’esercizio delle funzioni pubblico amministrative dell’accertamento, riscossione e liquidazione dei tributi e delle entrate comunali. Tali norme sono evidentemente di  carattere eccezionale non sono derogabili  da norme generali anche se emanate successivamente, così come ha sostenuto la Corte dei Conti sezione controllo della Puglia. L’ente locale pur non avendo come unica scelta la costituzione della società, per esplicare i propri compiti istituzionali ovvero quelli ad esso riservati per legge (i servizi pubblici locali), ha utilizzato un modello organizzativo consentito e non può ritenersi corretto che altra norma di carattere generale possa entrare nel merito di scelte organizzative che non competono al legislatore nazionale,  ponendosi, fra l’altro,  in conflitto con le previgenti disposizioni di legge.

In conclusione secondo l’interpretazione della dottrina e della Corte dei Conti per il controllo della Puglia non rientrano nelle disposizioni dell’art. 14 comma 32 in commento e quindi possono essere mantenute in proprietà (ovvero possono essere costituite ex novo) le partecipazioni in società di capitale da parte dei comuni a dimensione demografica minore, qui di seguito elencate:

-          le società per la gestione dei servizi pubblici locali conformi al disposto dell’art. 4 del D.L. 138/2010 convertito con modifiche nella Legge n. 148/2010 (quindi le in house ammesse e le società miste pubblico private);

-          le società delle reti costituite ex art. 113 commi 4 e 13 del Tuel (fatto salvo le osservazioni sulla sentenza della Corte Costituzionale) (c.d. società degli “asset”);

-          le società di trasformazione urbana (STU) previste dall’art. 120 del Tuel;

-          le società che svolgono le funzioni di accertamento liquidazione e riscossione dei tributi locali previste dall’art. 52 del D.lgs 446/1997.

4. I casi di mantenimento delle partecipazioni espressamente previsti dalla norma di legge

Secondo un’interpretazione strettamente letterale, ai comuni di dimensione demografica minore è consentito derogare al divieto imposto dalla legge in commento nei seguenti tre casi:

1) in presenza di società con partecipazioni di comuni paritetiche fra loro, la cui somma di abitanti superi le 30.000 unità;

2) in presenza di società con partecipazioni di comuni fra loro proporzionali al numero di abitanti, la cui somma deve superare le 30.000 unità;

3) la società abbia chiuso gli ultimi tre esercizi in utile alla data del  30.09.2013 e nei precedenti non si siano verificate coperture di perdite.

Il primo dato interpretativo che emerge, come già anticipato, è riferito al fatto che tali deroghe non riguardano i comuni con dimensione demografico superiore ai 30.000 abitanti i quali comunque non potranno più detenere che una partecipazione.

L’altro dato che emerge riguarda le prime due deroghe (punti 1 e 2) che, se verificate consentono ai comuni di dimensione demografiche minori di: (i) costituire nuove società; (ii) non mettere in liquidazione o cedere la partecipazione di quelle già costituite prima dell’entrata in vigore della norma. Ciò diversamente da quanto disposto per la deroga di cui al punto 3) che invece si applica solo per le società già costituite.

Le prime due deroghe poi impongono una riflessione sul concetto introdotto dal legislatore quanto fa riferimento a”…… partecipazione paritaria ovvero con partecipazione proporzionale al numero degli abitanti.” Infatti se da un lato può ritenersi una disposizione volta a scoraggiare intenti elusivi, attuabili attraverso il semplice possesso di una azione, dall’altro lato sembra considerare la partecipazione azionaria come espressione del diritto di voto e quindi di decidere, avere un’incidenza sulle decisioni: in effetti ciò è decisivo nel caso di “controllo analogo” ma anche nel caso delle società c.d. degli asset. Il nuovo diritto societario, come riformato dopo il 2004, consente la disgiunzione fra i diritti amministrativi e quelli patrimoniali nel senso che non necessariamente le due categorie di diritti, incarnati nello stesso titolo azionario, debbano essere simmetrici al numero delle azioni. Tale aspetto può divenire interessante quando si decida una “revisione” dell’assetto azionario per renderlo, in conformità alla legge stessa, paritetico o proporzionale. Disgiungendo diritti amministrativi, fra cui quelli di voto, dai diritti patrimoniali, sarebbe possibile un riassetto senza necessariamente passare attraverso la vendita fra i soci delle società delle azioni in misura pari al raggiungimento del predetto nuovo assetto. L’intento di raggiungere il riassetto può essere perseguito anche attraverso la riallocazione dei titoli azioni per effetto della compensazione effettuata dalla stessa società con acquisto di azioni proprie. La recente modifica operata all’art. 2357 del codice civile consente di effettuare tali operazioni anche per importi superiori al 10% dell’intero capitale sociale. L’acquisto di azioni proprie pone nelle società pubbliche la valutazione di quale sia interesse perseguito: quello della società, che ne giustificherebbe appieno la legittimità, ovvero quello dei soci, come invece in questo caso sembrerebbe. La “querelle” potrebbe condurre a conclusioni negative se fossimo di fronte a società con compagine sociale differenziata ed interessi diversi fra loro; nel caso di società pubbliche che svolgono servizi di interesse generale ovvero servizi strumentali appare invece plausibile affermare che l’interesse dei soci coincide con quello della società e quindi non si crea alcun conflitto fra società e soci nell’acquisto di azioni proprie.[12]

La deroga introdotta al punto 3) presenta anch’essa problemi di interpretazione fra i quali: l’individuazione degli ultimi tre esercizi che devono essere in utile; l’individuazione del tempo cui riferirsi retroattivamente per verificare l’esistenza delle ricapitalizzazioni per perdite; l’esigenza di dare un’interpretazione sistematica e coerente con i principi codicistici in tema di ripiano delle perdite.

L’interpretazione della lettera a) non aveva trovato conformi dottrina e il parere della Corte dei Conti su quali esercizi fossero da considerare al fine della verifica della sussistenza dei tre esercizi in utile. La formulazione era, all’epoca, l’individuazione dei tre esercizi in utile alla data del 31/12/2012 poiché ciò determinava una delle tre condizioni per mantenere la partecipazione nella società. Il Giudice contabile emiliano romagnolo riteneva che a quella data occorresse possedere tre bilanci approvati e quindi i bilanci della partecipata, chiusi e regolarmente approvati, erano quelli al 31/12/2009, 31/12/2010 e 31/12/2011 dato che, secondo il Giudice Contabile, poiché i bilanci delle società di capitali sono approvati ad aprile dell’esercizio successivo, alla data del 31/12/2012 erano approvati solo quelli al 31/12/2011, 31/12/2010 e 31/12/2009. La dottrina, aderendo al tenore letterale della norma, che richiedeva alla data del 31/12/2012 gli esercizi in utile e non i relativi bilanci approvati, considerava invece inserire nel triennio gli esercizi chiusi al 31/12/2010, al 31/12/2011 ed anche quello al 31/12/2012 [13].

Recentissimamente il più volte citato termine del 31/12/2012 con la conversione in Legge, con modificazioni, del Dl. 29 dicembre 2011, n. 216 (“Proroga di termini previsti da disposizioni legislative”, c.d.  “Decreto Milleproroghe”), è stato prorogato di 9 mesi. Infatti la Legge di conversione 24 febbraio 2012, n. 14 (in S.O. n. 36, relativo alla G.U. 27/02/2012, n. 48), ha introdotto, all’art. 29 del citato Dl. n. 216/11, il comma 11-bis, che testualmente recita: “(i) termini temporali e le disposizioni di cui (al comma 27) dell’art. 16  del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla Legge 14 settembre 2011, n. 148, sono prorogati di nove mesi”. Ora l’art. 16, comma 27, del menzionato Dl. n. 138/11, aveva a sua volta novellato l’art. 14, comma 32, del Dl. n. 78 del 31 maggio 2010, prevedendo una anticipazione dei tempi di liquidazione (ovvero di cessione) delle suddette società nel modo che segue: dal “31 dicembre 2013” al “31 dicembre 2012”. Il comma 27 dell’art. 16 citato allo stesso momento previsto anche che il termine per la verifica dei tre esercizi in utile fosse parametrato non più con la data del “31 dicembre 2013”, ma con quella del “31 dicembre 2012”.

In altre parole, dopo la conversione  in legge del “Decreto Milleproroghe”, i Comuni sotto i 30.000 abitanti sono obbligati a mettere in liquidazione, ovvero a cedere, le Società partecipate entro il termine del 30 settembre 2013. Alla stessa stregua, tali Enti posticipano al 30 settembre 2013 la data rispetto alla quale accertano la situazione del bilancio (che deve essere “in utile negli ultimi tre esercizi” delle medesime imprese collettive, al fine di assicurarne la loro sopravvivenza. Quest’ultima modifica pone anche fine alla “querelle” che (con il precedente parametro del 31 dicembre 2012) aveva fatto breccia fra gli operatori di settore. Infatti, ci si era divisi tra chi sosteneva che l’ultimo triennio rilevante per la norma era quello riferito agli esercizi 2009, 2010 e 2011, e chi invece considerava nel predetto arco temporale gli esercizi relativi agli anni 2010, 2011 e 2012. Il nuovo richiamo alla data del 30 settembre 2013 ora non lascia più adito a dubbi,  visto che a tale epoca i Comuni disporranno anche per l’esercizio 2012 dei bilanci delle loro Società partecipate regolarmente approvati.[14]

Concludendo quindi sul punto, preso atto della proroga intervenuta, si deve ritenere che le società possedute dal comune di dimensioni demografiche minori (inferiori a 30.000 abitanti) rispondono ai requisiti di cui alla lettera a) in discussione quando hanno in utile gli esercizi:

-          2010 – 2011 – 2012: quando la chiusura dell’esercizio coincide con quella dell’anno solare;

-          1/07/2009 – 30/06/2010; 1/07/2010 – 30/6/2011; 1/07/2011 – 30/06/2012 quando gli esercizi non coincidono con l’anno solare;

Le condizioni previste ai punti b) e c) sono di tipo negativo: per ricorrere la deroga non devono essersi verificate entrambe.

Alla lett. b) è contemplata la fattispecie nella quale si deve essere verificata una riduzione di capitale sociale per perdite. Nel diritto societario gli amministratori debbono convocare senza indugio l’assemblea dei soci quando le perdite superano il terzo del capitale sociale e fra “gli opportuni provvedimenti”, cui alludono gli articoli del codice civile (art. 2446 per le società per azioni e art. 2482 bis del codice civile per le società a responsabilità limitata) vi è la riduzione del capitale, fino all’integrale copertura delle perdite, sempreché non sia prevedibile un andamento gestionale positivo capace di ridurre al di sotto del limite del terzo del capitale sociale le perdite sofferte. Tuttavia “Se entro l'esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l'assemblea ordinaria o il consiglio di sorveglianza che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate. In mancanza gli amministratori e i sindaci o il consiglio di sorveglianza devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultanti dal bilancio[15]

Il legislatore alla lett. b) fa riferimento all’istituto societario della riduzione del capitale sociale per perdite da cui consegue comunque la prosecuzione della continuità aziendale giacché la riduzione non ha determinato un abbattimento del capitale al di sotto del limite legale; euro 120.000,00 per le società di capitali ed euro 10.000,00 per le società a responsabilità limitata. Il superamento di tali limiti senza intervento dei soci attraverso la ricapitalizzazione determinerà la trasformazione automatica nella categoria societaria di rango immediatamente inferiore (la società a responsabilità limitata nel caso delle società per azioni; la società in nome collettivo in caso di società a responsabilità limitata).

La lett. c) prevede invece la fattispecie in cui il socio ente pubblico è dovuto intervenire con una ricapitalizzazione e quindi attraverso un versamento di denaro o conferimento nel capitale delle partecipate di altri beni o crediti, spogliandosene dal proprio bilancio, con il fine di ripristinare i limiti di capitale sociale necessari a fare sopravvivere la società stessa. Il legislatore fa espresso riferimento “all’obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime”. Per la verità nel diritto societario non è mai previsto un obbligo in capo al socio di coprire le perdite tanto che qualora il mancato ripiano delle perdite dia luogo allo stato di insolvenza, con conseguente fallimento della società, il socio perderà unicamente il capitale inizialmente  conferito ma non potrà essere obbligato a onorare i creditori della società medesima, secondo il principio della autonomia giuridica patrimoniale della società rispetto ai soci e fatto salvo casi del tutto particolari (concetto espresso  dal noto brocardo che delle obbligazioni ne risponde unicamente la società con il proprio patrimonio). Si veda recente presa di posizione anche della Corte dei Conti che ha affermato un’estensione di tale principio al caso della liquidazione volontaria della società, la quale non determina, in capo al socio, l’obbligo di onorare i creditori risultati insoddisfatti dalla liquidazione del patrimonio sociale[16].  In questa sede il legislatore ha invece, evidentemente voluto fare riferimento a tutte quelle fattispecie in cui l’entità delle perdite diano luogo a fenomeni patologici quali fra tutti quelli contemplati dall’art. 2447 del codice civile laddove si prevede la trasformazione in società a responsabilità limitata ovvero quando il capitale sociale si è completamente azzerato, la messa in liquidazione della società (art. 2484 primo comma numero 5 cod. civ.). In queste situazioni il socio se vuole mantenere in vita la società deve intervenire: da qui il concetto di obbligo. L’interpretazione appena fornita da lo spunto per escludere:

- (nel merito) tutte le coperture di perdite volontarie effettuate a qualsiasi titolo sia in denaro che in natura;

- (nella forma) tutte le coperture di perdite che non sono attuate con la riduzione del capitale sociale e la sua contestuale riduzione, come impone la prassi notarile per una perfetta tutela dei terzi creditori che devono avere sempre cognizione che il capitale formale della società coincida con quello reale, in quanto espressione della garanzia posta a favore dei creditori che potranno aggredire per fare valere i propri crediti insoddisfatti.

Sul tema in discussione si ritiene introdurre una interpretazione estremamente rigorosa nel rispetto dei principi del codice civile. La copertura della perdita di esercizio avviene sulla base di istituti tassativamente individuati  secondo quanto prevede, per le società di capitali l’art. 2446 e 2447 del codice civile e con un procedimento precisato dalla prassi notarile e non può essere confuso quindi con altri istituti del diritto societario quali ad esempio l’aumento del capitale sociale consentito allorché le perdite non siano superiori al terzo del capitale medesimo[17]: si attua quindi con il predetto aumento un incremento del patrimonio sociale a nulla rilevando la perdita sofferta, per la quale l’ordinamento non ritiene necessario (e quindi meritevole di tutela) il preventivo intervento a riduzione del capitale stesso. 

L’indagine delle verifica delle fattispecie previste dalle lett. b) e  c) dovrà procedere dal primo degli esercizi antecedenti quello in cui la società ha registrato l’utile dal quale iniziano a decorrere anche gli altri due esercizi in utile, ma la norma non dispone un termine temporale di retrazione di tale indagine. Poiché è del tutto evidente, se non altro in ossequio al principio della certezza del diritto, che tale indagine non possa retroagire all’infinito occorre stabilire un plausibile tempo d’indagine.  

A tal riguardo appare del tutto condivisibile un orientamento espresso dalla dottrina. “Si reputa opportuno rilevare che l’indagine a ritroso nel  tempo (……) per verificare l’esistenza di siffatte perdite, in quanto ancorata  ad un arco temporale troppo ampio (intera vita della Società), non è in grado di testimoniare l’attuale stato di efficienza, efficacia ed economicità dell’attività sociale. All’uopo sarebbe stato auspicabile che il Legislatore avesse esplicitamente attribuito rilevanza ai risultati di esercizio delle imprese collettive pubbliche realizzatesi nelle  recenti gestioni. Infatti, quelle criticità che in un passato remoto possono essere state riscontrate nella gestione dell’impresa pubblica, allo stato attuale, nella Società rimessa “in bonis”, non hanno più ragione di essere considerate. In esito a tal considerazione, potrebbe avanzarsi una tesi interpretativa del comma 32 dell’art. 14 secondo la quale,  visto che la verifica del “bilancio in utile negli ultimi tre esercizi” coinvolge il triennio 2010- 2012, anche quella relativa alle altre 2 condizioni sia da effettuare relativamente ad un triennio. Dando per buona una simile interpretazione, logica vuole che gli anni da considerare per accertare la sussistenza delle perdite che generano le fattispecie già descritte siano il 2007, il 2008 e il 2009”[18].

La Corte dei Conti sezione per il controllo della Lombardia ha ritenuto assumere una interpretazione del tutto simile in una fattispecie contemplata dalla norma ritenendo necessario individuare un termine entro quale procedere a ritroso per indagare la sussistenza di un triennio di perdite sofferte e dal quale scattava il divieto imposto dall’art. 6 comma 19 del D.L. 78/2010 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica- Pubblicato nella Gazz. Uff. 31 maggio 2010, n. 125, S.O).  La norma richiamata dispone: “Al fine del perseguimento di una maggiore efficienza delle società pubbliche, tenuto conto dei principi nazionali e comunitari in termini di economicità e di concorrenza, le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, non possono, salvo quanto previsto dall'art. 2447 codice civile, effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate non quotate che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Sono in ogni caso consentiti i trasferimenti alle società di cui al primo periodo a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti.“ Anche in questo caso si è reso necessario individuare fino a che punto retroagire per individuare il triennio delle perdite consecutive. Per dare certezza il Giudice contabile ha avuto modo di interpretare, con riferimento allo specifico quesito proveniente dal Presidente della Provincia di Pavia, avente ad oggetto se la locuzione “per tre esercizi consecutivi” contenuta nell’art. 6 comma 19 del D.L. n. 78/2010 conv. in Legge n. 122/2010 si riferisce agli ultimi tre esercizi, ovvero si riferisce a tre esercizi consecutivi nell’arco della vita di una società partecipata dall’ente locale. E’ proprio la ratio della norma stessa, come sopra evidenziata, secondo il Giudice Contabile, che porta a ritenere che i tre esercizi finanziari da prendere in  considerazione debbano essere gli ultimi tre in ordine di tempo, anche al fine di rendere il più possibile attendibile ed attuale la valutazione del mantenimento delle partecipazioni stesse da parte degli enti locali soci.[19].  Si deve concludere che tale interpretazione appare sicuramente quella più plausibile e da preferire.

Volendo dare uno schema temporale di riferimento si avrà:


 

2007

2008

2009

2010

2011

2012

non abbiano subìto, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio

No

No

No

 

 

 

non abbiano subìto, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato dell’obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime

No

No

No

 

 

 

abbiano, al 31 dicembre 2012 [rectius 30 settembre 2013], il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi;

 

 

 

 

Si

Si

Si

 

5. I Comuni con popolazione compresa fra i 30.000 e 50.000 abitanti: il termine per mantenere una sola partecipazione in società di capitali

I Comuni con popolazione compresa fra i 30.000 e 50.000 abitanti potranno detenere una sola partecipazione in quanto, come già anticipato, volendo aderire alla tesi del c.d doppio binario, comunque ad essi non si applicano le deroghe che invece sono previste per i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti[20]. Tale interpretazione letterale è del tutto sconcertante e abbiamo già avuto modo di osservare quanto renda del tutta irragionevole tutta l’articolazione dell’art. 14 comma 32 in commento.

L’irragionevolezza della parte della norma che dispone per le società detenuta dai comuni con popolazione inferiore a 50.000 è stata rilevata anche dalla stessa Corte dei Conti in merito al termine decorso il quale il comune deve adeguarsi a mantenere una sola partecipazione ponendo in liquidazione le altre società. In questo caso la Corte dei Conti sconfessa l’interpretazione letterale e ricostruisce in via deduttiva un altro termine, comunque ancora diverso fra le due categorie di comuni.

Al momento la norma prevede che tale termine sia il 31.12.2011, già scaduto. In effetti il termine è stato oggetto di un turbine di modifiche legislative e verosimilmente la versione attuale è il frutto di una “svista”. Infatti a tal riguardo la Corte dei conti sezione controllo per la Lombardia[21] afferma:

Il predetto “anticipo” al 31.12.2012 ex art. 16 comma 27 del d.l. n. 138/2011 conv. dalla l. n. 148/2011, a rigore, non incide sulla fattispecie in oggetto, coinvolgendo unicamente i Comuni inferiori ai 30.000 abitanti. Infatti, il Collegio segnala l’espressa menzione legale dell’alinea (e della lettera a) del comma 32: quest’ultimo, dunque, in questo caso non viene richiamato dal Legislatore nella sua interezza. D’altronde, la diversa scansione temporale per le dismissioni contra legem in funzione delle soglie dimensionali (31.12.2012 per i comuni inferiori ai 30.000 abitanti, 31.12.2013 per i comuni compresi tra i 30.000 e i 50.000 abitanti) non appare ex se irragionevole: la ratio può essere individuata in una diversa esigenza di snellimento degli apparati, ed è coerente con l’impianto generale dell’art. 14 comma 32. La Sezione osserva, sul punto, che la medesima soglia dimensionale dei 30.000 abitanti pone un più radicale discrimen tra enti cui, in linea di principio, è interdetta la partecipazione societaria (i comuni inferiori ai 30.000 abitanti) ed enti che sono a ciò abilitati (in via generale – fermo il rispetto degli altri requisiti di legge - nel caso di comuni oltre i 50.000 abitanti, nel limite di una partecipazione nel caso di enti tra i 30.000 e i 50.000 abitanti). A fortiori, dunque, non appare irragionevole che la medesima soglia dimensionale dei 30.000 abitanti ponga uno spartiacque in materia di partecipazioni societarie (oltre che nell’ “an” e nel “quantum”) anche nel “quando”, differenziando altresì le categorie di enti locali sotto il profilo della scansione cronologica delle dismissioni.”.

Sulla  base delle predette considerazioni la Sezione della Corte dei Conti ritiene più corretto continuare a considerare il termine del 31.12.2013 per i comuni con popolazione inferiore a 50.000 abitanti.

Si fa presente che, diversamente dal testo riportato dalla Sezione, nel testo della Legge Milleproroghe le parole “Entro il 31 dicembre 2011” oggetto della sostituzione iniziano con la lettera maiuscola E. La sostituzione (e la conseguente proroga) dovrebbe perciò interessare il solo secondo periodo dell’articolo 14 comma 32, l’unico in cui troviamo la puntuale ed esatta formulazione del gruppo di parole “Entro il 31 dicembre 2011”, ossia l’obbligo di dismissione delle partecipazioni per i Comuni con popolazione inferiore ai 30.000 abitanti. Secondo questa lettura la proroga al 31 dicembre 2013 del termine di dismissione delle partecipazioni non avrebbe invece coinvolto l’analogo obbligo previsto per i Comuni con popolazione compresa fra i 30.000 e i 50.000 abitanti, che resterebbe pertanto fissato allo scorso 31 dicembre 2011 (nel corrispondente periodo infatti le parole “entro il 31 dicembre 2011” non iniziano con la E maiuscola). Non si comprenderebbe altrimenti la scelta operata dal legislatore della Legge Milleproroghe di utilizzare la “E” maiuscola nell’indicazione delle parole da sostituire.

In ogni caso, al di là della disputa interpretativa,  tutti i soggetti interessati, vale a dire i comuni con popolazione inferiore a 50.000 abitanti,  hanno ritenuto il termine fosse comunque quello al 31.12.2013 come interpretato dalla Corte dei Conti e quindi ad oggi nessuno di essi ha adempiuto alla disposizione di legge.

6. La liquidazione delle società non detenibili e tecniche gius-commercialistiche per uscire dalla compagine sociale: riflessi economici sul socio

Messa in liquidazione delle società già costituite: questo è il “rimedio” cui fa riferimento l’art. 14 comma 32 per i comuni con popolazione compresa fra i 30.000 e 50.000 abitanti. Messa in liquidazione o cessione delle partecipazioni: questo il rimedio invece per i comuni con popolazione inferiore ai 30.000 abitanti che alla data del 30/09/2013 abbiano società già costituite non detenibili.

La domanda posta alla Sezione della Corte dei Conti emiliano romagnola verteva su quali modalità attuare la liquidazione e quali riflessi essa potesse avere sul bilancio dell’ente socio.

Il quesito è particolarmente interessante perché da modo di affrontare alcuni aspetti mai fin d’ora esplorati sul fenomeno delle società a partecipazione pubblica. In sintesi ci si chiede se la disposizione di legge:

-          (i) comporti sicuramente un obbligo di comportamento ma, la posizione del socio nella società  - ad esempio nel caso di socio di minoranza –, non garantisce il risultato previsto;

-           (ii) possa essere adempiuta attraverso altre modalità diverse dalla messa in liquidazione o cessione delle partecipazioni;

-          (iii) possa comportare una deroga al noto principio del diritto societario in base al quale “ delle obbligazioni sociali risponde unicamente la società con il proprio patrimonio “ (art. 2325 cod.civ.) perché questo sembra essere il dubbio sotteso dal quesito posto alla Sezione della Corte dei Conti.

-          (iv) possa prefigurare un regime “diverso “ o quantomeno speciale per la procedura di liquidazione delle società:

In merito alla prima riflessione (i) è del tutto evidente che la norma dispone di un obbligo di comportamento ma, sia nel caso della liquidazione che pure nel caso della vendita, non può comportare – limitatamente a questi due istituti – un obbligo di risultato. Infatti l’anticipato scioglimento del contratto di società e la conseguente messa in liquidazione del patrimonio  dipende dal raggiungimento del quorum deliberativo nell’assemblea dei soci. Nel caso in cui l’ente socio di minoranza e non raggiunga da solo il quorum deliberativo non può garantire l’assunzione della deliberazione. Parimenti la conclusione del contratto di compravendita delle azioni  - istituto cui rimanda il concetto di “cessione” usato dal legislatore – si attua quando vi è un soggetto disposto ad acquistare le azioni della società partecipata.

La conclusione cui necessariamente si arriva e quella che conduce l’ente locale socio a valutare la percorribilità di altri mezzi per i quali l’ordinamento permette ad un socio di uscire dalla compagine sociale, ritenendo con ciò che l’obbligo di comportamento cui la legge sottopone l’ente socio  comporti che questi raggiunga il risultato voluto dalla legge con tutti gli strumenti consentiti dal diritto commerciale.

Si tratta allora di valutare anche, la cessione dei diritti di opzione in caso di aumento del capitale sociale, la rinuncia a ricostituire il capitale eroso per le perdite,  la permuta delle azioni con altri beni, nonché l’esercizio del diritto di recesso. Istituto quest’ultimo che appare di difficile applicazione in quanto non sembra così semplice coniugare il principio codicistico, in base al quale le cause di recesso sono tassativamente ed esclusivamente quelle previste dallo stesso codice o dallo statuto della società, con l’esigenza del socio ente pubblico di potere azionare tale diritto anche se non previsto dal codice o dallo statuto ma unicamente per ottemperanza a sopravvenuta disposizione di legge.[22] La questione travalica la semplice disputa esegetica allorché nella compagine sociale vi siano soci privati i quali verranno “indirettamente” incisi dalla riduzione del patrimonio della società per liquidare il socio ente pubblico; ne diviene quindi una questione economica per la cui valutazione il socio privato non è inciso dalle norme pubblicistiche.

Sugli esiti delle procedure di messa in liquidazione o di cessione delle azioni risultati infausti, tali da determinare la permanenza dell’ente locale nella compagine sociale, si nutrono ampi dubbi sui relativi effetti.

Da un lato si potrebbe sostenere che i diversi esperimenti infausti consentano all’ente socio di potere dare la dimostrazione di avere adempiuto al precetto legislativo ma di non avere potuto raggiungere il risultato voluto dalla legge. Le azioni o quote quindi vengono mantenute ma certamente qualche effetto se ne deve trarre. A giudizio di chi scrive risulta compromesso l’esercizio dei diritti di socio dell’ente che avendo deliberato di dovere “uscire” dalla compagine sociale, materialmente non vi è riuscito. La partecipazione alla società cade in un limbo.

La seconda riflessione (ii) porta necessariamente a considerare, come ha interpretato la stessa sezione di controllo della Corte dei Conti, che la procedura non può che essere quella – in assenza di ogni altra disposizione di carattere speciale – prevista dal codice civile dagli artt. 2484 e seguenti. Trattasi infatti della fattispecie prevista dall’art. 2484 cod. civ. primo comma numero 6) in base alla quale le società si sciolgono per “deliberazione dell’assemblea”: cd. liquidazione volontaria.

La terza riflessione (iii)  deve considerare temi fin ad ora non esplorati:  vale a dire la crisi della società pubblica che conduce all’anticipato scioglimento perché non più in grado di fare fronte alle proprie obbligazioni e gli effetti sul patrimonio dell’ente locale socio.

Non vi sono tuttavia dubbi al riguardo perché, come anticipato, delle obbligazioni sociali risponde la società con il proprio patrimonio, fatto salvi casi del tutto eccezionali ove il socio può essere chiamato a rispondere per responsabilità da direzione e coordinamento e cioè nel momento in cui si è spogliato della veste di mero socio e si è ingerito nella gestione della partecipata causando un danno al patrimonio o a terzi [23]. Il socio della società di capitali non può essere chiamato direttamente dai creditori della società ad adempiere alle obbligazioni assunte da quest’ultima e ciò neppure in sede di liquidazione quando il patrimonio liquidato sia in capiente a soddisfare i creditori residui.

Conferma tale principio la Corte dei Conti sezione controllo Emilia Romagna, qui in discussione, anche se le motivazioni non appaino del tutto conferenti, e soprattutto un parere della Corte dei conti Sezione controllo della Basilicata [24] che ha dopo avere ampiamente esaminato le diverse discipline che caratterizzano le società a partecipazione degli enti locali, affronta in modo diretto:

-          il ruolo dell’ente locale quale socio che soggiace alle regole del codice civile e che quindi in sede di liquidazione della società partecipata non è obbligato a pagarne i debiti;

-          il comportamento che l’ente locale deve assumere nel proprio bilancio per rappresentare secondo corrette regole gius–contabili il pagamento del debito del creditore delle società partecipate  risultante non soddisfatto a seguito della liquidazione del patrimonio attivo, qualora lo abbia ritenuto opportuno.

7. Le disposizioni dell’art. 14 comma 32 e gli altri organismi partecipati (o vigilati) dall’ente locale diversi dalle società di capitali

Il tenore letterale dell’art. 14 comma 32 in commento non lascia dubbi su quali siano i soggetti coinvolti: i soggetti attivi sono “i comuni” di dimensioni demografiche minori (inferiori ai 50.000 abitanti); se ne deduce quindi l’esclusione delle provincie, dei consorzi o associazioni fra comuni, degli enti pubblici economici cui partecipano i comuni. Il soggetto passivo è la società. Il contratto di società è un contratto tipico sancito dal codice civile e comprende tutte le società commerciali: le c.d. società di capitali (spa ed srl), quelle c.d. di persone (s.n.c e s.a.s). Sono da ricomprendere, a parere di chi scrive, anche le società cooperative a responsabilità limitata o per azioni e le società consortili. Per queste ultime (società cooperative  e consortile) si ritenete che, nonostante la causa del negozio associativo sia diversa dallo scopo di lucro - che tipicizza le società  commerciali  - mentre rimane uguale la veste giuridica, debbano essere comunque considerate.

Alla Corte dei Conti emiliano romagnolo è tuttavia stato rivolto un quesito sulla incidenza della norma ad esempio nel caso in cui il comune “detenga” aziende speciali consortili o partecipi a consorzi di servizi, come previsti dall’art. 114 del Tuel. Se la questione riguardasse la mera interpretazione dell’art. 14 comma 32 in commento, non susciterebbero dubbi: la azienda speciale non è una società di capitali e quindi non può essere soggetto passivo inciso dalla disposizione di legge de quo.

Tuttavia occorre fare riferimento ad una disposizione sopravvenuta che riscrive la disciplina delle aziende speciali. Si fa riferimento all’art. 25 del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (“disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”) convertito con modificazioni nella legge 24/03/2012  n. 27  che testualmente recita: “ 2.  All'articolo 114 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

a)  dopo il comma 5 è inserito il seguente:

«5-bis. A decorrere dall'anno 2013, le aziende speciali e le istituzioni sono assoggettate al patto di stabilità interno secondo le modalità definite con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con i Ministri dell'interno e per gli affari regionali, il turismo e lo sport, sentita la Conferenza Stato-Città ed autonomie locali, da emanare entro il 30 ottobre 2012. A tal fine, le aziende speciali e le istituzioni si iscrivono e depositano i propri bilanci al registro delle imprese o nel repertorio delle notizie economico-amministrative della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura del proprio territorio entro il 31 maggio di ciascun anno. L'Unioncamere trasmette al Ministero dell'economia e delle finanze, entro il 30 giugno, l'elenco delle predette aziende speciali e istituzioni ed i relativi dati di bilancio. Alle aziende speciali ed alle istituzioni si applicano le disposizioni del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, nonché le disposizioni che stabiliscono, a carico degli enti locali: divieto o limitazioni alle assunzioni di personale; contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenza anche degli amministratori; obblighi e limiti alla partecipazione societaria degli enti locali. Gli enti locali vigilano sull'osservanza del presente comma da parte dei soggetti indicati ai periodi precedenti. Sono escluse dall'applicazione delle disposizioni del presente comma aziende speciali e istituzioni che gestiscono servizi socio-assistenziali ed educativi, culturali e farmacie.»;

b)         al comma 8, dopo le parole: «seguenti atti» sono inserite le seguenti: «da sottoporre all'approvazione del consiglio comunale.».

 

La parte d’interesse si riferisce: Alle aziende speciali ed alle istituzioni si applicano (…)le disposizioni che stabiliscono, a carico degli enti locali: (…)obblighi e limiti alla partecipazione societaria degli enti locali.

Ora dal tenore letterario si deve concludere che vi è un fenomeno di traslazione degli obblighi dal comune alla azienda speciale: l’azienda speciale diviene il soggetto attivo e le eventuali società da questa partecipate il soggetto passivo. Nel caso dunque dell’art. 14 comma 32 in commento l’azienda speciale si deve comportare come se fosse il comune e quindi applicare la disposizione di legge nei confronti delle partecipazioni in società di capitali.

Il giudice contabile emiliano romagnolo ne da invece una diversa lettura, invertendo soggetto attivo, che rimane il comune, e soggetto passivo che diviene l’azienda speciale: pertanto il comune, secondo questa interpretazione, applica l’art. 14 comma 32 in commento anche nel caso in cui “detenga” una azienda speciale o “partecipi” a consorzi di servizi. Tale ultima interpretazione non convince non tanto in quanto contraria al tenore letterale ma soprattutto in quanto al di fuori della “ratio” che il legislatore porta nella nuova disciplina delle aziende speciali. Ratio che ripete il tentativo già ampiamente utilizzato per porre limiti e vincoli all’agire delle società di capitali partecipate dagli enti locali: viene attuata una traslazione dei limiti e vincoli eminentemente di natura procedimentale e di natura finanziaria proprie delle norme pubblicistiche applicabili agli enti locali in capo alle società di capitali partecipate. Mutatis mutandis quindi le aziende speciali (ed i consorzi azienda) applicano, traslandole, le norme che si applicano ai comuni in tema di: (i) limiti e divieti all’assunzione del personale; (ii) contenimento oneri contrattuali e  contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria; (iii) contenimento degli oneri per consulenza anche degli amministratori; (iv) obblighi e limiti alla partecipazione societaria degli enti locali.

 



[1] dottore commercialista, revisore contabile, partner Studio Commerciale Associato Boldrini, componente della commissione “Governance delle partecipate” del CNDCEC.

[2] Entrata in vigore del provvedimento: 13/08/2011

[3] Per una disamina più complessiva delle diverse interpretazioni della norma, che erano emerse nel momento in cui fu emanata ed anche sugli effetti economici della stessa ci si permette di rinviare a Roberto Camporesi “Le disposizioni della manovra correttiva 2010: art. 14, comma 32 ed anche: “ Le disposizioni della Manovra correttiva 2010 dopo l’approvazione al Senato del maxiemendamento di conversione: l’art. 14 comma 32  in www.pubblic- utilities.it anno 2010; Per una disamina degli effetti economici dell’art. 14 comma 32 in discussione sui veda anche C. D’Aries G. Munafò “ A pagare saranno i cittadini” in Italia Oggi 4/06/2010 pag. 33

[4] Si veda il paragrafo successivo

[5]Ancora una volta ci si trova di fronte ad una norma dall’assetto variabile. Infatti l’ente locale è obbligato ad attuare un comportamento (obbligo di comportamento) senza però potere in ogni caso garantire il risultato (assenza dell’obbligazione di risultato). Situazione tipica nel caso di enti locali soci di società di capitali ove non hanno la maggioranza dei voti per imporre la liquidazione ovvero nel caso di impossibilità materiale (assenza di compratori) alla dismissione della partecipazione; non è pensabile neppure attuare l’exit dalla società tramite il recesso in quanto le relative cause sono quelle previste dal codice civile e dallo statuto e non possono essere integrate da fattispecie discendenti da questa norma, ancorché norma cogente per l’ente ma non per gli altri soci della società.” Roberto Camporesi “Le disposizioni della Manovra correttiva 2010 dopo l’approvazione al Senato del maxiemendamento di conversione: l’art. 14 comma 32  in www.pubblic-utilities.it anno 2010;

[6] La definizione di “doppio binario” è una libera interpretazione dell’autore

[7] Cfr da ultimo Corte dei Conti Sez. controllo per il Veneto 25/1/2012 n. 074/PAR; Corte dei Conti Sez. controllo per il Piemonte n. 8/2012/SRC PIE/PAR; Corte dei Conti sez. controllo per la Lombardia 20/12/2010 n. 92 e 15/9/2010 n. 861.

[8] Cfr Alessandro Manetti “Le società di utility non sfuggono alle dismissioni” Italia Oggi 2/3/2012 pag. 41.

La sezione ha poi espresso una serie di opinioni volte a chiarire l’applicazione concreta della norma nei seguenti casi:

- società quotate in borsa: per i comuni con meno di 30 mila abitanti il mantenimento della partecipazione è consentito solo se ricorre uno dei casi di esclusione, mentre per quelli della fascia 30-50 mila è possibile solo se la partecipazione è l’unica detenuta;

- società di gestione di Spl: lo strumento societario non costituisce una modalità obbligatoria di gestione dei Spl, ma rappresenta solo un modello organizzativo alternativo ad altre opzioni; pertanto, il fatto che una società gestisca Spl, di per sé non fa venire meno l’obbligo di dismissione qualora ne ricorrano le condizioni;

- società patrimoniali: secondo la Sezione, le società costituite ai sensi dell’art. 113 commi 2 e 13 del d.lgs 267/2000, alle quali è stata conferita la proprietà di reti, impianti ed altre dotazioni patrimoniali, rappresentano una modalità organizzativa superata e non più consentita dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 320 del 25/1112011, la quale ha affermato il principio secondo cui le reti devono essere considerate beni demaniali e, in quanto tali, non possono essere conferite neanche a società interamente pubbliche, neppure in presenza di clausole statutarie di incedibilità delle quote o azioni (l’incedibilità delle quote o azioni, infatti, non implica anche l’incedibilità dei beni che costituiscono il patrimonio sociale). Sarebbe stato interessante se la sezione avesse espresso la propria opinione anche sulla necessità o meno di retrocedere la proprietà delle reti già conferite dai soci pubblici prima della sentenza della Corte costituzionale;

- società di trasformazione urbana (Stu): anche in questo caso, non essendo tale tipologia societaria l’unico strumento di attuazione degli interventi di trasformazione urbana, i divieti previsti dall’art. 14 comma 32 trovano piena applicazione;

[9] S. Pozzoli “Le partecipate aspettano il bilancio 2012” in Il sole 24 ore del 5/03/2012

[10]  Art. 4 del D.L. 138/2011 comma 32-bis.” Al fine di verificare e assicurare il rispetto delle disposizioni di cui al comma 32, il prefetto accerta che gli enti locali abbiano attuato, entro i termini stabiliti, quanto previsto al medesimo comma. In caso di inottemperanza, assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere. Decorso inutilmente detto termine, il Governo, ricorrendone i presupposti, esercita il potere sostitutivo ai sensi dell'articolo 120, comma secondo, della Costituzione e secondo le modalità previste dall'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131.

[11] I concetti di riserva di legge e di esclusività della titolarità dei servizi pubblici locali in capo agli enti locali si devono ora declinarti in base alle disposizioni contenute nell’art. 4 del D.L. 138/2011 che vengono mantenuti in essere solo dopo un’articola operazione di ricognizione e analisi di mercato sottoposto al parere obbligatorio dell’Antitrust.

[12] Cfr C. Marcolungo “Interesse pubblico, interesse sociale o interesse dei soci”. Brevi riflessioni su un nodo gordiano della disciplina delle società miste. In www.dirittodeiservizipubblici.it

[13] Cfr. S. Pozzoli op.cit. nota 9

[14] Ivan Bonitatitbus: “Società partecipate dai Comuni con meno di 30.000 abitanti:  prorogati i termini per la loro “dismissione” in “Servizi Pubblici locali” mensile anno I – n. 5 – Centro Studi Enti Locali

[15] Art. 2446 del codice civile

[16] Corte dei Conti sezione controllo per la Basilicata – deliberazione 16/5/2011 n. 28

[17] Cfr. Massime n. 122/121 Consiglio Notarile di Milano che consentono aumenti di capitale in presenza di perdite superiori al terzo

[18] I. Bonitatibus. op.cit. nota 14

[19] Corte dei Conti - sezione regionale di controllo per la Lombardia 1/12/2011 n. 636/PAR

[20] In questo senso la delibera corte dei conti sezione controllo per l’Emilia Romagna, richiamata anche nel titolo.

[21] Corte dei Conti Sezione Controllo per la Lombardia 602/2011/PAR del 8/11/2011

[22] Per un’ampia dissertazione delle interferenze delle norme pubbliche sul funzionamento del diritto di recesso nelle società di capitali si veda “Prime considerazioni sulla manovra estiva 2010: le conseguenze per gli enti e le società a partecipazione pubblica” di G. Bassi, F. Moretti e S. Capacci in www.pubblicutilities.it  in dossier tematico sulla manovra correttiva 2010.

[23] La responsabilità da direzione e coordinamento come prevista dall’art. 2497 del codice civile ha avuto un’interpretazione  autentica nel caso in cui il socio siano enti pubblici portata dall’art. 19 del D.L. 1/7/2009 n. 78. In questi casi la responsabilità è stata esclusa o circoscritta.

[24] Corte dei Conti -. Sezione controllo per la Basilicata  deliberazione n. 16/05/2011 n. 28

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